.|. Where Are We Runnin? .|.

by Suni

Durante le ore che lo separano dal rivedere Viggo dopo una brusca separazione, Orlando ripensa a tutto ciò che è avvenuto, da quando si sono conosciuti sul set del Signore degli Anelli, fino alla rottura da parte del danese, dopo un lungo declino fatto di litigi, di separazioni forzate dovute al lavoro –i periodi trascorsi dal giovane scozzese sui set di Pirates of The Caribbean e Troy- e alla famiglia, di amicizie fondamentali e consolanti, di speranze e di delusioni.

Sentimentale | Slash | Rating R | One Piece

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Ovviamente tutto quello che è qui raccontato in proposito a persone realmente esistenti è frutto della mia sconsiderata fantasia, realizzato senza intenti offensivi né a scopo di lucro. Avvenimenti, legami e caratteristiche psicologiche degli individui citati –trattandosi di persone  a me ahimè sconosciute- sono altresì puramente inventati.

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Orlando Bloom, ventisette anni, attore di fama ormai mondiale, idolo delle teen-agers, cachet plurimilionari… Un uomo realizzato, e felice.

L’immagine pubblica.

Orlando Bloom, ventisette anni, rannicchiato su un divano con gli occhi gonfi di lacrime, i capelli ridotti a un groviglio e occhiaie marcate, circondato da vuoti di birra, cocci di vetro e piatti sporchi.

La realtà.

 

Non sapeva più da quanto era chiuso in casa. Qualche giorno, o forse tre settimane. Non riusciva più a focalizzare nulla, tranne quel viso che gli martellava la testa come un’immagine che non si vuole allontanare. Aveva pianto talmente tanto che non sentiva più forze, soltanto un capogiro intollerabile a completare lo sfacelo; non sapeva neanche più che giorno fosse.

Aveva perso il conto delle telefonate, da parte di un Elijah angosciato, di John che cercava di scuoterlo, e persino di Eric, che molto discretamente aveva cercato di capire cosa succedesse e che, davanti al suo muro di mutismo, aveva dovuto arrendersi e limitarsi a un saluto affettuoso e partecipe di qualsiasi dolore lo affliggesse. Lui lo aveva ringraziato meccanicamente, senza quasi rendersene conto, come per un riflesso condizionato.

Sentiva dentro un vuoto che gli faceva male ai polmoni e gli stringeva lo stomaco tanto che faticava persino a buttar giù un sorso di birra.

Ancora il dannato telefono.

Rimase indeciso meditando sulla possibilità di rispondere, e infastidito dallo squillo insistente aveva infine accostato la cornetta all’orecchio.

“Pronto?” biascicò.

“Orlando?” fece una voce remotamente preoccupata.

Il ragazzo quasi cadde dal divano per la sorpresa.

“V-viggo..” sussurrò. Non era possibile. Assolutamente. Era un incubo, o un sogno maledetto da cui si sarebbe svegliato piangendo per la delusione.

“Mi ha telefonato Johnny Depp… Mi ha detto che stavi male e che forse, essendo tuo grande amico, potevo… -si schiarì la voce, quella solita voce calma e controllata-… Non so…”

Caro, vecchio John, adorabile contapalle, tanto più preoccupato di quanto avesse voluto mostrargli.

Viggo sospirò dall’altro lato del telefono.

Orlando si rese conto di dover dire qualcosa.

“No, io.. Io sto bene. –non riconosceva la durezza che era comparsa nelle propria voce- Cioè… Sopravvivrò” sentì nuove lacrime bruciargli gli occhi.

“Ah –un altro sospiro- Scusa se ho chiamato. Sapevo che non aveva senso, ma Depp mi ha descritto la situazione con tratti catastrofici.” Spiegò, con indifferenza.

“Se non sbaglio non ti riguarda più”

Non ce l’aveva fatta. Aveva cercato di trattenersi, ma quel tremito nelle sue parole era inequivocabile: si odiò per questo, mentre quelle lacrime maledette gli scivolavano sul viso.

“Orlando.. Io dovrei essere da quelle parti domani sera. Forse dovremmo parlarci. Passo da te”

 E lui avrebbe voluto ridere di gioia e urlare tutti gli insulti concepibili al tempo stesso, e invece rimase in silenzio.

“Non c’è più niente da dire. –rispose poi seccamente, controllandosi- Ma per me va bene.”

Al diavolo il suo masochismo. Sarebbe stato terribile ma aveva bisogno di vederlo. Anche se avrebbe ricevuto solo freddezza e distacco; ma non era importante, almeno avrebbe potuto di nuovo respirare.

“Allora a domani” concluse Viggo.

“Sì”

Aveva posato la cornetta delicatamente, quasi avesse avuto paura che andasse in pezzi.

 

Si era alzato di scatto, come se le forze perdute fossero tornate all’improvviso. Aveva iniziato a buttare via tutte le schifezze sparse per l’appartamento, lavato i piatti e il pavimento, tolto la polvere e messo a posto per ore. Non era mai stato un tipo ordinato ma nell’ultimo periodo si era lasciato andare, era semplicemente andato giù, credendo ogni giorno di toccare il fondo e superandolo in quello seguente. Infine si era fatto una doccia –quanti giorni erano passati dall’ultima?- e si era cambiato. E naturalmente aveva chiamato John.

L’americano era scoppiato a ridere non appena aveva sentito la sua voce. Lui, che ancora non sapeva se essere furioso o euforico, non aveva potuto far altro che imitarlo; e gli sembrò in quella risata di scaricare la tensione accumulata. Grazie, aveva detto, e l’amico aveva voluto informarsi nel dettaglio sulle conseguenze della propria telefonata. Quando Orlando gli aveva chiesto con quale faccia tosta avesse parlato a Viggo come se non avesse saputo quello che c’era –quello che c’era stato- tra loro due, John si era limitato a ridacchiare rispondendo “Sono il Capitano Jack Sparrow, comprendi?”. Avevano riso ancora e si erano salutati.

E dopo aver messo giù il telefono, si sedette sul divano, con un bicchiere di aranciata in mano, la prima cosa analcolica che beveva da giorni. Guardò fuori dalla finestra la città che, come sempre, si muoveva frenetica. Là fuori, orribilmente preoccupato per lui, c’era Elijah, che continuava a chiamarlo e a venire a citofonare senza che lui gli aprisse.

Elijah… Era stata una delle prime persone conosciute in quel mondo strano. Lo star system era duro e crudele, ma vi aveva incontrato alcuni amici eccezionali. Tanto per cominciare, tutti i colleghi del cast del Signore degli Anelli, e tra loro, in particolare, Elijah … e Viggo. Per quanto riguardava il primo, avevano impiegato un po’ a legare. Anzi, era disposto a scommettere che all’inizio Elwood non lo trovasse per niente simpatico; o forse erano semplicemente stati troppo impegnati a fare i pagliacci. Ma dopo… Quanto avevano riso insieme! Ancora ricordava la scena in cui, alla premiere di Cannes, l’amico gli era saltato in braccio; o quella volta che erano andato da soli tre giorni al mare e non avevano trovato dove dormire, restando in spiaggia e svegliandosi il giorno dopo sdraiati in mezzo alle mucche. Elwood era quasi morto dal ridere, nel guardarlo togliersi di dosso una cacca: la sua faccia era diventata viola e non aveva respirato per un pezzo.

Con Viggo invece era stato diverso.

Lui era un ragazzino uscito da un pugno di giorni dalla Drama Academy, quando si era trovato sbalzato in Nuova Zelanda sul set di un kolossal. Viggo gli si era presentato scrutandolo con quegli occhi profondi come avesse voluto fargli una radiografia, un sorriso sincero e la mano tesa. L’accoglienza non era stata entusiastica, ma gentile -per gli hobbit invece era stato diverso: gli erano saltati addosso chiassosamente appena lo avevano visto, ridendo come pazzi invasati-, e la loro amicizia era nata in fretta. C’erano parecchi anni di differenza fra loro, Viggo era uno che del mondo del cinema aveva visto troppo, lui invece troppo poco; era un uomo con una famiglia alle spalle –un figlio e un’ex-moglie-, un’immagine impegnata; lui finora aveva solo studiato e fatto ragazzate. Ma alla base di tutto c’era la stessa voglia di essere autentici, che per Viggo si realizzava nel suo vivere in un mondo di arte, quadri e poesie, sempre serio e introspettivo. Orlando invece faceva il pazzo, andava in giro vestito come se fosse fuggito di casa in piena notte durante un terremoto e si lanciava in imprese pericolose come gli sport estremi. Ma era proprio lo stesso. E si ricordava bene di quanto in fretta avessero legato.

 

“Secondo me dovresti tenere sempre quella bandana sopra la parrucca; ti dà un’aria molto elfica…”

Orlando era voltato verso la direzione da cui proveniva quella voce divertita: Mortensen, il Ramingo. Era uno dei primi giorni di riprese e quella era la prima frase non strettamente legata al copione che il danese gli avesse rivolto. Sorrise.

“Sì, lo penso anch’io, ma Jackson non ne vuole sapere” aveva risposto sullo stesso tono. Viggo aveva ridacchiato piano.

“Sei in scena tra quattro minuti. Vediamo se oggi riesci a non impappinarti?” gli aveva annunciato.

Orlando era arrossito leggermente. In effetti era talmente agitato in quei primi giorni che non faceva che sbagliare qualcosa.

“Beh…” brontolò.

“Ma dai, scherzavo. Muoviti!” lo aveva raggiunto la voce di Viggo, che si stava allontanando.

La giornata in effetti andò meglio delle precedenti e a fine serata il regista era quasi contento di lui. Per quanto lo riguardava, era semplicemente stravolto. Dopo essersi cambiato a fatica si era diretto lentamente verso la propria roulotte.

“C’è la fai a stare in piedi o vuoi una mano?”  lo aveva chiamato una voce.

“Non credo che un elfo abbia bisogno dell’aiuto di un mortale per questo; -aveva risposto, voltandosi verso Viggo- mi limiterò a gettarmi sul letto e svenire”

Il danese ridacchiò educatamente.

“Non mangi?” si era informato.

“No, a meno che qualcuno mi abbia già preparato tutto, cosa di cui dubito” aveva replicato.

“Beh… Io mi faccio una bistecca nella mia suite- aveva sorriso: la sua roulotte sembrava essere la più piccola di tutte- se vuoi ne preparo una anche a te. Non è molto lontano da qui, ce la puoi fare” aveva proposto il danese sorridendo.

“Ok” aveva concluso Orlando seguendolo.

Non appena entrato, si era lasciato cadere su una sedia senza più muoversi, lasciando che l’uomo preparasse tutto.

“Credi di riuscire a tenere in mano la forchetta o preferisci che t’imbocchi?” gli aveva chiesto Viggo portando il mangiare in tavola.

“Mmm… Dovrei farcela… Scusa se non ti ho dato una mano a preparare” era stata la risposta.

“Ma dai, non riesci neanche a stare dritto. E poi non è il caso di usare formalismi con me.”

Orlando aveva sorriso più apertamente.

“A cosa devo questo invito?” aveva chiesto.

“Mi hai fatto tenerezza, più che altro! –aveva spiegato Viggo- Ti ho visto andare via dal set come un morto vivente. I primi giorni in cui si lavora sodo sono tremendi.”

Orlando aveva riso.

“Ho mosso a compassione un veterano?”

“Sì… -Viggo lo aveva imitato, piano- Altrimenti non ti avrei invitato. Di solito sto un po’ sulle mie”

“Oh –Orlando si era versato del vino- l’ho notato, sì. Decisamente non è il mio caso. Anzi, credo di essere tremendo. Però anche gli hobbit fanno un po’ paura, no?” sorrise.

Viggo aveva levato gli occhi al cielo.

“Decisamente “un po’ paura” è riduttivo –aveva risposto- ma fanno ridere.”

Orlando si guardò intorno. C’era un ordine lì dentro che non sarebbe mai regnato in nessun locale abitato da lui.

“Chi l’ha fatto quello?” aveva chiesto, indicando un quadro.

“Io” aveva risposto Viggo.

“Dipingi?” s’era incuriosito Orlando.

“Dipingo” aveva confermato l’altro.

“E’ molto bello… Anche se non sono sicuro di capire il significato.” Era stato il commento.

“Te lo regalo. Così lo puoi capire con calma.” Aveva proposto Viggo.

“A me? Me lo regali?” aveva ripetuto lui, perplesso.

“Se vuoi. Ne ho così tanti che non so più dove metterli.” Aveva spiegato l’attore.

“Oh… Grazie” fece un sorriso

“Figurati… - Viggo aveva bevuto un sorso di vino- Allora Orlando, visto che pare tu sia tanto estroverso… Raccontami qualcosa di te”

“Non c’è molto da dire…” aveva commentato lui, prima di lanciarsi in una lunga conversazione in proposito.

 

Nelle settimane seguenti avevano continuato ad incrociarsi sul set e chiacchierare. Viggo sembrava apprezzare la spontaneità del ragazzo, lo cercava spesso. Orlando ne era ovviamente lusingato.

“Stasera andiamo a bere qualcosa. Vieni?” gli aveva chiesto un pomeriggio.

“Andate chi? Tu e tutti quelli che hanno meno di trent’anni?” s’era informato Viggo.

“Non so. No, c’è anche Boromir… -Orlando si stava levando la parrucca- e sua altezza Re Elrond”

“Accidenti… Due veri pezzi d’antiquariato, eh?” fu il commento di Viggo.

“L’hai detto tu… Mica io” aveva risposto il ragazzo con uno sguardo di superiorità, prendendosi subito dopo uno scappellotto sulla testa.

“No grazie –aveva detto Viggo- starò qui a casa.”

“Cazzo, ma lo sai che sei veramente un orso?” aveva commentato Orlando infilandosi una maglietta.

“Non sopporto le parolacce gratuite” lo aveva informato Viggo glissando sull’argomento.

“Io le adoro invece. Danno vivacità ai discorsi” lo aveva rimbeccato Orlando.

“Beh.. Verrò con voi, ma solo per approfondire questa cosa…” aveva concluso il danese con aria seria, scatenando una risata di Orlando.

Erano andati in un pub decisamente chiassoso, con una musica fortissima.

Orlando e Merry erano coraggiosamente andati a prendere da bere, ma dopo quasi dieci minuti non ve n’era più traccia e i colleghi cominciavano a preoccuparsi.

I due ragazzi erano tornati con una birra a testa.

“Beh?” aveva chiesto Hugo incredulo, con una risatina di scherno.

“Senti, è impossibile riuscire a farsi ascoltare al bancone” aveva spiegato Orlando.

“Oh santo cielo…” aveva commentato Viggo scuotendo la testa.

“Vuoi provarci tu?” lo aveva provocato Orlando.

“Va bene” gli aveva risposto lui semplicemente, alzandosi e dirigendosi verso il bancone. Gli altri erano scoppiati a ridere, mente Viggo si piazzava davanti a una barista sfoderando un sorriso affascinante, e lei si voltava ad ascoltarlo.

“Vig-go!Vig-go!” strillò Elwood facendo il tifo.

“Ma non è possibile! Io sono molto più bello di lui!” aveva protestato Orlando.

“Se non altro ha più di quindici anni…” aveva commentato Sean.

“HEY! Ventitre, prego!!!” brontolava il ragazzo.

Viggo era tornato al tavolo con un vassoio pieno.

“Dicevi, Elf-boy?” aveva chiesto, divertito.

“Mi avvalgo della facoltà di ignorarti” aveva risposto lui, con aria torva. Viggo gli si sedette davanti con un ampio sorriso.

Avevano parlato per tutta la sera di tutto quello che veniva loro in mente, isolati in un angolino, sorpresi di quanto, pur essendo così diversi, fossero simili.

 

 I mesi seguenti erano trascorsi come un’interminabile serie di conversazioni sempre più personali, di pranzi e ore trascorse a bere qualche birra, ritagli di tempo strappati ai mille impegni. E mentre iniziava a conoscere Elwood, approfondiva sempre più il rapporto con Viggo. Gli tornava in mente in particolare un pomeriggio assolato di lavoro, in cui, approfittando del fatto che nessuno dei due stava girando in quel momento, si erano messi in un angolo, in piedi, a parlare, lui con l’arco e la faretra in spalle, il danese con quel pesante costume da ramingo. Viggo stranamente sorrideva apertamente, rilassato, mentre lui gli raccontava della Scozia. Gli chiedeva di sua madre, di sua sorella, del patrigno. A quel punto lui aveva scosso la testa sorridendo e alzato una mano col dito teso, specificando che era suo padre, semplicemente._ E Viggo lo aveva ascoltato mentre gli raccontava del genitore defunto e di quell’uomo che, con naturalezza, ne aveva preso il posto. Subito dopo, aveva preso a parlargli di suo figlio. Gli si illuminavano gli occhi mentre raccontava del ragazzino, di quanto gli somigliasse pur essendo completamente diverso da lui. Era la prima volta che lo sentiva parlare davvero di se stesso, del suo rapporto con qualcuno, della propria vita privata.

Quella sera stessa era cambiata ogni cosa.

Approfittando del fatto che la mattina dopo non avrebbero lavorato, erano andati a mangiare nella roulotte di Orlando. La cena che il ragazzo aveva preparato era assolutamente pessima, parzialmente bruciata e del tutto scondita. Viggo era scoppiato a ridere dopo il primo boccone, e lui si era sentito davvero stupido. Il danese doveva essersi accorto della sua espressione mortificata.

“Scusami Orlando, non volevo offenderti –aveva detto, serio- E’ solo che… beh… Per punizione lo mangerò tutto, va bene?” sorrise, cercando di non ridere di nuovo.

“Grazie mille… Lascia perdere, posso preparare qualcos’altro…” rispose.

“NO! –lo bloccò l’altro- Cioè.. No, stai seduto, tocca a me adesso.. Faccio un’insalata, ok?”

Orlando si era messo a ridere.

“Hai paura che ti avveleni?” aveva chiesto, mentre Viggo preparava.

“Non si sa mai…” aveva risposto l’amico.

“Guarda che di solito me la cavo ai fornelli… Non so come mai stasera…” si era scusato.

“Ma certo, ma certo…” la voce di Viggo era chiaramente ironica.

“Senti… -aveva iniziato secco voltandosi verso di lui. Ma si era fermato: il danese aveva uno sbuffò d’olio su una guancia e lo guardava divertito; sorrise semplicemente- ti sei sbrodolato la faccia” concluse, sentendo una strana sensazione allo stomaco.

“Eh? –Viggo si era passato una mano sul viso, col risultato di spargere ancora di più l’olio- Oh, lasciamo perdere” si era arreso, portando a tavola l’insalata e poi pulendosi con il tovagliolo.

Avevano parlato molto, come sempre, e bevuto un po’ troppo vino. Verso le undici, Orlando provava la familiare sensazione che il mondo girasse un po’ più veloce del solito.

“Sai Elf-boy, sei molto carino col naso rosso e gli occhi lucidi” lo aveva preso in giro Viggo.

 “Senti chi parla!” aveva replicato lui, sostenuto.

Viggo si era alzato dalla sedia stiracchiandosi.

“Che ne dici se prendiamo una bottiglia e andiamo a fare un giro?” aveva proposto.

Orlando era scattato in piedi afferrando il vino e si era lanciato fuori saltellando, completamente euforico, mentre Viggo rideva come un pazzo.

Avevano camminato per un po’, chiacchierando in maniera sconnessa a proposito di Peter Jackson e di sua moglie Fran. Viggo stava diventando decisamente amico del regista, ma Orlando era ancora troppo al principio per provare verso l’uomo qualcosa di diverso da una sorta di timore mistico.

E quando lui cominciava a sentire le gambe decisamente pesanti, Viggo, quasi leggendogli nel pensiero, si era semplicemente seduto su un prato, facendogli segno di passare la bottiglia. Orlando lo aveva fatto, lasciandosi contemporaneamente cadere accanto a lui.

“Ora mi addormento…” aveva bofonchiato.

Viggo sorrideva.

“Allora, signor Bloom… Sei contento?” lo guardava.

“Di cosa?” Orlando Aveva alzato la testa.

“Della piega che ha preso la tua vita da quando hai passato quel provino”

Viggo aveva parlato lentamente, come a un bambino, evidentemente conscio del livello di ubriachezza di entrambi.

“Oh, sì! E’ tutto incredibile, e strano… E bello, in qualche modo. Adoro questo lavoro.. Non credevo di poter arrivare veramente fin qui. Quando sono andato al casting, era più che altro per gioco, sai, una cosa tipo: tentar non nuoce, no? E poi non credevo di incontrare persone così” parlava a ruota libera, anche per via di tutto il vino ingurgitato.

“Così come?” Viggo lo guardava di nuovo.

“Così… speciali. Come voi. Come Elwood.. E come te.” aveva spiegato.

“E tu? Sembri piovuto qui da un altro pianeta… Così semplicemente te stesso… Sei invidiabile, davvero” aveva detto Viggo a sua volta.

Orlando si era voltato verso di lui, e aveva visto qualcosa di strano nei suoi occhi. Uno sguardo diverso dal solito, come…

Non ricordava bene come fosse successo, chi si fosse mosso per primo, e nemmeno per quale ragione. Ricordava solo la sensazione di quelle labbra contro le proprie, di quella mano che gli stringeva il polso come se avesse avuto paura che scappasse via, del proprio cuore che batteva come un martello pneumatico, dell’incredulità che gli scoppiava nel cervello e di quel bacio che lentamente si faceva più intenso…

Si erano allontanati di scatto nello stesso istante, col respiro accelerato.

“D-dio mio… Io… -si era alzato in piedi insieme a Viggo, e di colpo c’era uno spazio insormontabile tra di loro. Non capiva più nulla, non sapeva cosa dire, sentiva di voler scappare e restare lì allo stesso tempo, mentre l’uomo davanti a lui si passava una mano nei capelli con aria non meno confusa della sua.

“YOOOOO-HOOOOO!!!!” si erano voltati di scatto verso il luogo da cui proveniva la voce, per vedere Elwood che correva verso di loro a braccia spalancate, con una bottiglia di birra in mano. Dietro di lui, gli altri hobbit e Sean.

Salvati dal gong.

“Buooonasera!!! -aveva esclamato Elijah- sembra quasi che avessimo appuntamento qui!”

“Eh… Già” mormorò Orlando.

“Toh, bevi Elfo!” aggiungeva intanto il ragazzo.

Gli altri li raggiunsero.

“Guarda guarda.. Il signor arciere e sua maestà Re Elassar… Ci avrei giurato che eravate insieme!” commentò Sean.

“In verità vi cercavamo, prima” aveva continuato Dominic.

“Eravamo nella mia roulotte” aveva spiegato Orlando boccheggiante.

“Hai perso la lingua, Grampasso?” chiese Elwood.

Viggo aveva sorriso nervoso.

“No… contemplavo il tuo notevole stato di ebbrezza…” aveva spiegato, mentre lo hobbit scoppiava a sghignazzare.

“Sean, vieni alle roulotte? Io vado a dormire” aveva aggiunto poi il danese.

“Ok… Buonanotte a tutti” rispose Boromir.

“Ciao ragazzi” aveva aggiunto Viggo senza guardarlo, mentre si allontanavano.

Gli hobbit avevano risposto al saluto, mentre lui faceva un cenno.

Orlando aveva preso Elwood per un braccio e lo aveva trascinato lontano dagli altri tre, senza neanche sapere esattamente il motivo. In preda alla confusione aveva raccontato tutto al collega, con gli occhi bassi, senza prendere fiato, con il battiti cardiaco ancora accelerato. Quando aveva sollevato la testa, timoroso di scorgere disgusto sul suo viso, vi aveva scorto invece un sorriso incredulo. Elwood sembrava semplicemente sorpreso dell’accaduto.

Avevano parlato fino all’alba, suggellando un’amicizia che difficilmente avrebbe potuto spezzarsi. E quando andò a letto, dopo quella lunghissima conversazione, Orlando si stupì di trovarsi più sereno.

 

Lui e Viggo non si erano rivolti la parola per più di due settimane. Il danese sembrava aver sviluppato la straordinaria capacità di svanire non appena arrivava lui, e quanto ad Orlando, non avrebbe saputo cosa dirgli, e si limitava a distogliere lo sguardo quando lo vedeva. Sul set, si limitavano a scambiarsi le battute di scena, a salutarsi quando si incontravano e a darsi informazioni di lavoro. Gli amici avevano notato che doveva essere successo qualcosa, e il colmo fu quando Jackson, nel mezzo di una scena della Compagnia, urlò loro di chiarirsi in proposito a qualsiasi litigio avessero avuto perché da qualche giorno facevano schifo in scena insieme. Orlando passava il suo tempo con Elwood. L’amico non riusciva ad accettare l’improvviso silenzio creatosi con il danese: sembrava provare la massima soddisfazione nel trascinare Orlando a due metri da Viggo e mettersi a chiacchierare con il Ramingo, continuando a intercalare con frasi come: “come dicevo prima a Orlando” o, peggio ancora “non è vero, Bloomie?”, domanda orribile che comportava un suo intervento, seppur minimo, nella conversazione.

Ma Viggo gli mancava. Gli mancava proprio ogni cosa di lui, anche la sua saccenza, la sua testardaggine e le sue interminabili spiegazioni sull’arte, argomento di cui purtroppo lui non capiva nulla. Gli mancavano le parole e le risate che avevano contraddistinto il loro rapporto. Certe volte avrebbe voluto sbattergli la testa contro il muro: dopo tutto, era Viggo l’adulto, possibile che i suo sistema fosse scappare invece di risolvere le cose? Quella era una cosa da ragazzini, e infatti lui, Orlando, ci sguazzava a meraviglia.

Ma nulla si sarebbe smosso se, ancora una volta, Elwood non si fosse messo in mezzo. Un mattino,  mentre Orlando si metteva il costume, era andato dritto da Viggo, come faceva spesso per fare due chiacchiere. Senza mezzi termini, con quella sua schiettezza esasperante, aveva detto di essere stufo, che si vedeva lontano un miglio che Viggo sentiva la  mancanza di Orlando e viceversa e che forse era il caso di vedere se potevano chiarirsi in merito a qualsiasi cosa fosse accaduta senza che dovesse fare tutto lui, che non centrava nulla. Quando lo raccontò ad Orlando questi lo avrebbe volentieri strozzato. Ma quella sera stessa Viggo aveva bussato alla sua porta chiedendogli scusa per essersi defilato. Il ragazzo lo aveva fissato per un po’ per poi fare segno di accomodarsi; aveva le mani sudate e il cuore in gola, e si chiese distrattamente cosa potesse significare questo.

“Mi dispiace” stava dicendo il danese.

“Sì” era riuscito a rispondere lui, boccheggiando.

“Sì cosa?” aveva chiesto Viggo con un leggero sorriso, perplesso. Erano scoppiati a ridere, e di colpo era come se non si fossero mai allontanati.

 

I mesi seguenti per Orlando erano un ricordo un po’ confuso. Il rapporto sempre più profondo con i colleghi, ormai diventati una sorta di grande famiglia, le confidenze notturne con Elwood, a cui era sempre più legato, e naturalmente le fughe insieme a Viggo, le serate passate ad abbracciarsi e baciarsi, a chiedersi cosa sarebbe successo dopo, e le giornate trascorse lavorando a fingere un’amicizia che ormai non era più tale, che si era trasformata in qualcos’altro di cui non avevano il pieno controllo. Ore trascorse sul set a trattenere il desiderio di buttarsi uno nelle braccia dell’altro, la confusione totale del non capire cosa stava succedendo, l’incredulità del rendersi conto di avere una storia con un uomo, lui, che dai tredici anni in avanti non aveva fatto altro che correre dietro alle ragazze. E i litigi, urla sue e parole secche di Viggo, e i silenzi inevitabili che ne conseguivano. Silenzi che sembravano ferite aperte, tormentosi, e l’orgoglio di non chiedere scusa, fino a scoppiare perché non ne potevano più di stare lontani.

Più che giorni collegati da un filo logico, erano momenti frammentari e disordinati, quelli che tornavano in mente ad Orlando.

Come quando, sdraiati sul divano, aveva detto a Viggo che Elwood sapeva tutto. Lui si era alzato e, senza dire una parola, se n’era andato sbattendo la porta, mentre il ragazzo rimaneva lì con il cuore in gola e una gran voglia di prendersi a pugni.

Era uscito, correndogli dietro, e Viggo si era voltato e con una voce gelida che Orlando non riconosceva gli aveva detto di sparire, di stargli lontano da quel momento fino a quello in cui se ne fossero tornati tutti a casa. E lui, balbettando, aveva iniziato a spiegare.

“Non mi interessa” lo aveva interrotto l’altro con indifferenza. Lo aveva guardato come se non esistesse e se n’era andato.

Orlando era corso via. Era arrivato da Elwood e, appena entrato, era scoppiato in singhiozzi.

L’amico aveva sollevato uno sguardo sorpreso e preoccupato dal libro che stava leggendo e si era alzato.

“Cosa è successo?” aveva chiesto abbracciandolo.

E Orlando gli aveva spiegato tutto, le reazione di Viggo e le sue parole dure.

Elwood si era infilato le scarpe.

“Aspetta qua” aveva detto. E prima che lui potesse rispondere era già fuori.

Era tornato con aria ferocemente arrabbiata più di mezz’ora dopo.

“Che testa di cazzo” ripeteva, furioso, finché non aveva visto Orlando ricominciare a piangere e lo aveva fatto sedere.

Gli aveva ripetuto per un tempo interminabile che si sarebbe sistemato tutto, che doveva stare calmo e lasciare Viggo nel suo brodo per un paio di giorni, e che se poi il danese non fosse tornato strisciando lui, Elijah, gli avrebbe spaccato le ossa. Ma sorrideva mentre lo diceva.

E poco per volta Orlando si era calmato. Si era addormentato di fianco all’amico e al mattino avevano fatto colazione insieme, ridendo.

Aveva ripreso ad ignorare Viggo come tempo prima, anche se era terribilmente doloroso. Per qualche giorno era sembrato che al danese la cosa non desse fastidio, ed Elwood aveva dovuto ingegnarsi perché non si disperasse troppo.

Ma poi, proprio come profetizzato dall’amico, Viggo era tornato da lui, non proprio strisciando ma con aria mortificata e dispiaciuta.

“Mi sono reso conto di non averti lasciato spiegare” aveva detto, entrando nella roulotte.

“Non fa niente” aveva risposto Orlando sostenuto.

“Elf-boy… Scusami” insisteva Viggo.

“Cosa ti dovevo spiegare? Che quella sera, la prima volta che ci siamo baciati, ero fuori di testa e non sapevo cosa pensare e lui era lì e gliel’ho detto, che è il mio migliore amico e gli voglio bene, che mi aiuta parlare con lui, che è un sostegno enorme? Lo sai come sarei stato in questi giorni senza Elwood? Te ne sei fatto una fottuta idea?” lo aveva aggredito, spintonandolo.

“Sì me la sono fatta” aveva risposto Viggo piano. Orlando si era calmato. La rabbia era sparita ed aveva lasciato solo una gran voglia di piangere.

“Vai via, per piacere” aveva detto.

“No” aveva detto Viggo, calmo.

“Perché no?” aveva esclamato, sul punto di urlare.

“Perché.. –Viggo aveva esitato- perché ti amo, credo”

E Orlando era rimasto a bocca aperta come uno scemo, e lo aveva guardato senza dire niente per qualche minuto.

“Va bene. Allora vado” aveva detto Viggo spezzando il silenzio.

E Orlando gli era saltato addosso ridendo, lo aveva abbracciato e buttato sul letto stringendosi a lui.

“Anch’io” aveva detto col cuore in gola, e Viggo sorrideva in un modo dolce che non aveva mai visto.

 

Ne aveva parlato con Elwood, perché sapeva che prima o poi doveva succedere. Ma l’amico ridendo gli aveva detto che in quel campo non lo poteva proprio aiutare, che se voleva potevano procurasi qualche filmino sconcio sull’argomento, ma che comunque se aveva intenzione di fare le prove di sesso omosessuale con lui, si sarebbe opposto fermamente. Orlando gli aveva tirato una ciabatta.

Avevano provato a immaginare la cosa seduti davanti alle birre, ma ne era risultata una conversazione totalmente insensata, conclusasi in grosse risate, con Elwood che improvvisava una telecronaca del primo rapporto tra i due. Così che non appena, dieci minuti dopo, Viggo era entrato nella roulotte, vedendolo erano scoppiati a ridere a tutto spiano, tanto che si ritrovarono entrambi con gli occhi pieni di lacrime. Viggo li squadrava con aria inquisitoria, ma Elijah si eclissò dicendo che gli hobbit lo aspettavano. Mentre Orlando lo salutava, alla porta, Elwood gli fece l’occhiolino e sillabò qualcosa che somigliava orribilmente a “sventralo”.

Sbatté la porta e si voltò verso Viggo con un sorriso nervoso.

“Che stavate combinando?” indagò lui.

“Eh? Niente… Bevevamo due birre”

“Mm-mh… Certo.” Aveva concluso Viggo.

E così, senza la minima preparazione psicologica e morale, a causa di quel cafone di Elwood, Orlando si trovava a dover affrontare quella serata del tutto impreparato. Non che dovesse accadere per forza quella sera, ma lui lo sentiva, e in ogni caso non gli dispiaceva affatto.

Avevano cenato parlando poco, ed Orlando era quasi sicuro che stavano pensando tutti e due alla stessa cosa. E dopocena, come al solito, si erano seduti sul letto di Orlando, e Viggo aveva preso due birre. Avevano alzato la testa nello stesso momento e si erano guardati negli occhi.

E si erano buttati uno addosso all’altro come se una minima distanza togliesse l’aria, i vestiti erano saltati in aria come una bomba, volando da tutte le parti, erano rotolati sul letto avvinghiati stretti, ridendo, ed era incredibile come Orlando si sentisse semplicemente al suo posto, se aveva pensato che la cosa avrebbe potuto sembrargli strana si era sbagliato, in quel momento non immaginava nulla di più giusto e ovvio e perfetto che stare abbracciato a Viggo e accarezzarlo, e si sorprendeva di come un corpo così simile al suo potesse avere delle reazioni tanto diverse, ogni tocco era una scoperta, mani tremanti che si muovevano quasi con paura, con un’emozione segreta e bellissima. E labbra che si spostavano, sospiri e gemiti soffocati, e la testa reclinata di Viggo mentre la sua lingua si avvicinava e gli correva sul collo e i loro corpi sudati e respiri sempre più accelerati e mani sempre più insinuanti fino a che, esitanti, si erano trovati completamente nudi e ansimanti.

E Orlando aveva ridacchiato.

Viggo gli aveva sorriso.

“Mi sembra che siamo un pochino nervosi, signor Bloom” osservò sottovoce, col fiato corto.

Orlando gli si sdraiò addosso nascondendo il viso, mentre l’uomo rideva.

“Ha-ha-ha. Simpaticissimo. Beh, scusa tanto ma io non ho mai…”

“Ma neanch’io” lo interruppe Viggo scuotendo la testa. Orlando lo osservò sorpreso.

“Questo mi tranquillizza. Almeno non farò brutta figura… Non più di te” aveva detto ridendo e buttandosi di nuovo su di lui aveva ricominciato a muoverglisi contro e aveva smesso semplicemente di pensare ascoltando il respiro dell’uomo, roco e affannato.

 

Ripensandoci, a distanza di tutto quel tempo, non riusciva a non provare una strana emozione al ricordo di quella notte, al modo in cui tutto era stato perfetto e naturale, alla sensazione di completezza che aveva provato e al proprio cuore che sembrava voler uscire dal petto nel momento in cui sentiva dentro l’uomo, alle ore passate dopo ad accarezzarsi, e a parlare di loro, al risveglio al mattino dopo in un letto che era un campo di battaglia. La colazione, in boxer e maglietta. Elwood che veniva a chiamarlo perché era in ritardo per le riprese, come al solito, e trovandoli lì tutti e due con quelle facce stravolte e serene era scoppiato a ridere scuotendo la testa.

Tutto quel periodo era un ricordo dolce. Dopo la fine delle riprese del Signore degli Anelli, le cose avevano iniziato a precipitare. Forse l’incanto si era rotto, o più probabilmente non erano stati in grado di gestire quella storia nel mondo “vero”.

C’erano state le distanze forzate in cui si trovavano separati da un oceano, c’erano i periodi che Viggo trascorreva in Danimarca e con suo figlio, c’erano Elwood e tanti altri amici, e c’era il lavoro. I mesi che si trascorrevano sui set.

Si vedevano poco, e quel poco tempo era occupato da recriminazioni e litigi sempre più violenti, che li lasciavano psicologicamente a pezzi, c’erano le lacrime delle riconciliazioni e letti disfatti per perdonare.

C’era stato “Pirates of the Caribbeans”. Era arrivato sul set con il cuore pesante al pensiero di tutto quel tempo che avrebbe trascorso lontano da Viggo, e se n’era andato con la malinconia di sapere che non avrebbe più visto John tutti i giorni. In quel periodo si definirono esattamente i ruoli degli affetti della sua vita. C’era Viggo, la persona che amava, c’era John, l’amico, il fratello maggiore e angelo custode in grado di capirlo al volo, e c’era Elwood, il compagno d’avventure, gemello in follie e disastri. E poi c’erano amici e amiche, sua sorella e i vecchi compagni di giochi scozzesi.

Con John all’inizio il rapporto non era buono. L’attore stava molto sulle sue e parlava raramente con lui e Keira, l’altra novellina. E una sera, un’orribile sera in cui aveva sentito Viggo al telefono e ne era scaturita una tale serie di problemi e litigate e insicurezze che, alla fine della telefonata, dopo due ore di intercontinentale, il danese aveva espresso il dubbio che forse non aveva senso continuare. Orlando aveva interrotto la chiamata ed era rimasto seduto sulla sabbia, con gli occhi gonfi di lacrime.

John gli si era seduto accanto. Avrebbe voluto mandarlo via, urlargli di lasciarlo stare. L’americano però aveva fatto una cosa strana. Invece di chiedergli cosa avesse si era messo a raccontare dell’ultima volta che lui era stato male. Aveva litigato con sua moglie, era stato orribile. Parlava con una voce tranquilla, un’analisi lucida del dolore.

“Beh, insomma –aveva concluso- le lacrime si asciugano meglio in compagnia”

“Perché sei venuto a parlarmi?” aveva chiesto lui.

“Reciti già da schifo, se ancora mi vai nel pallone per chissà quale ragione…” aveva risposto John, alzandosi e dandogli una pacca sulla spalla con un sorriso.

Quell’amicizia era cresciuta più lentamente, poco alla volta, senza grandi altre confidenze improvvise. Ma alla fine delle riprese, il legame creatosi era grande. Orlando gli aveva raccontato tutto di Viggo, aveva pianto e insultato con John che gli porgeva il bicchiere pieno di rhum per un’infinità di lunghe sere, man mano che le cose andavano peggiorando. L’uomo era sempre stato partecipe, pronto a fornirgli un’ottima spalla su cui piangere e consigli. Ma soprattutto, pronto a offrirgli distrazioni, battute pronte e mille motivi per cui ridere. John aiutava ad accantonare per un po’ i problemi. Utile, soprattutto se devi lavorare ogni giorno fingendoti un altro e metterti a ridere a comando. I saluti erano stati malinconici, con la promessa di sentirsi spesso, fino ad allora mantenuta, e di una visita di Orlando in Francia, dove l’americano viveva.

Al ritorno a casa, era sembrato a Orlando che le cose andassero meglio.

Aveva trovato Viggo ad aspettarlo fuori dall’aeroporto, i capelli biondi scossi da un po’ di vento, gli occhi che quasi brillavano di gioia e che lo seguivano commossi. Si erano salutati come sempre con una stretta di mano, nel terrore dei fotografi. Appena entrati in casa, Viggo lo aveva abbracciato così forte da soffocarlo, e Orlando era rimasta a occhi chiusi a bearsi di quella stretta, di quelle carezze e di quel “Elf-boy” sussurrato con un sospiro di sollievo.

Avevano passato tre giorni chiusi in casa, senza staccarsi un attimo. Avevano riso e parlato e si erano amati e Viggo aveva raccontato ogni cosa che era successa durante la lontananza, e  avevano giurato di dimenticare tutti i problemi che c’erano stati.

E il quarto giorno, Elwood li aveva invitati a pranzo.

Quando erano entrati, Elwood gli era corso incontro e si erano gettati le braccia al collo, ridendo, mentre Viggo lanciava allo hobbit uno scherzoso sguardo assassino.

“Allora, com’è andata a fare il pirata?” aveva chiesto Elwood facendoli mettere a tavola.

“Oh, molto bene!” rispondeva lui allegro.

“Ho visto una foto di te e Depp che vi schizzate d’acqua facendo il bagno. Il giornalista la menava su quanto siete amici” continuò Elwood incuriosito, mentre Viggo gli lanciava un’occhiata indagatoria.

“Beh, è vero. E’ un’ottima persona. Quel giorno –sorrise al ricordo- eravamo liberi da ogni impegno, Keira non stava bene e Geoffrey aveva visite, così siamo andati in spiaggia noi due. È un uomo molto divertente.” raccontò.

Quando erano tornati a casa, Viggo non parlava.

“Cosa c’è?” aveva chiesto Orlando.

“Niente” aveva brontolato lui in risposta.

Il ragazzo aveva roteato gli occhi, esasperato.

“Ti conosco… Sei geloso?” aveva chiesto sorridendo.

“Ma figurati!” aveva risposto Viggo con aria scandalizzata.

“Andiamo, Vig, è sposato!” aveva esclamato.

“Anch’io era sposato!” aggiunse acido lui.

“Ma la ama. E io amo te. Vig, ero in spiaggia con un amico, ok?”

“Vado a dormire” aveva risposto lui.

“Non ti fermi?” Orlando sospirò, rattristato.

“Ci vediamo domani, davvero.” aveva ripetuto Viggo.

Orlando aveva insistito ancora, e il risultato era stato l’ennesimo litigio. Il giorno dopo però era sembrato tutto sistemato. Probabilmente Viggo era rimasto a pensarci su tutta la notte e si era calmato. Aveva una capacità di razionalizzare che in Orlando mancava completamente.

Non che il ragazzo fosse meno geloso di lui. S’innervosiva ogni volta che, in Danimarca, Vig vedeva vecchi amici –aveva già fatto parecchie piazzate telefoniche di cui si vergognava molto- ed era mortalmente geloso anche del tempo che l’uomo passava con il figlio. Sapeva che era una cosa ridicola e insensata, che se qualcuno avesse cercato di impedire a suo padre di stare con lui, l’avrebbe preso a calci nei denti e che –santo cielo- era suo figlio, era logico e giusto che volesse stare con lui. Non faceva che ripeterselo ogni volta, ma finiva col diventare comunque acido e a cercare inconsciamente qualsiasi pretesto per litigare. Cosa che puntualmente gli riusciva a meraviglia.

 

E poi c’era stato Troy.

Nell’ultimo periodo prima della partenza, le cose erano rimaste piuttosto stazionarie tra lui e Viggo. Un tira e molla di litigi e momenti idilliaci.

Questa volta era abbastanza contento di partire per le riprese. Primo perché sarebbe andato in Grecia, un paese a detta di tutti bellissimo, e secondo perché, con sua somma gioia, avrebbe lavorato di nuovo con Sean, come ai tempi del Signore degli Anelli. Era contento di recitare con un membro del vecchio cast.

L’uomo, arrivato un paio di giorni prima di lui, lo aveva accolto con euforia, contento di rivederlo almeno quanto lo era lui. Avevano chiacchierato a lungo, ed Orlando fu piacevolmente sorpreso nel notare che il tempo e la distanza non avessero allentato i rapporti.

Il lavoro sarebbe iniziato solo un paio di giorni dopo, così avevano un po’ di tempo libero; Sean per prima cosa gli presentò quello che sarebbe diventato parte, con loro due, di un terzetto inseparabile in quel periodo: Eric Bana, interprete di Ettore.

A Orlando piacque subito: lo sorpresero il suo carattere schivo e sensibile  e la sua sincerità nei rapporti con la gente. Aveva un modo molto semplice di porsi e un carattere propenso al riso che si adattavano perfettamente a lui.

Anche con Diane era subito andato d’accordo. La ragazza non era solo bellissima ma anche molto divertente. Eric dopo averla conosciuta aveva commentato: “tipa tosta”, e il soprannome le era rimasto per tutta la durata delle riprese. Era l’unica con cui si fosse minimante confidato, raccontandole vagamente di una storia travagliata che stava vivendo. Con una sensibilità tutta femminile, Diane aveva preso a fargli un po’ da mamma, anche se non erano mancate le risate, soprattutto in proposito alle fesserie che riuscivano a combinare insieme sul set.

Conoscere Brad Pitt fu in parte una delusione: non che fosse una persona sgradevole, ma era troppo conscio della propria fama e della propria bellezza, e ci giocava su.

“Quanto se la tira…” gli aveva bisbigliato una volta Eric, come sempre diretto.

Comunque, l’uomo era sempre stato molto disponibile, ed avevano intessuto con lui un rapporto cordiale. Per un’imperscrutabile serie di circostanze, era stato proprio Brad a incontrarlo e offrirgli una birra dopo una delle litigate peggiori nelle sua storia con Viggo, ed aveva anche avuto la discrezione encomiabile di non chiedergli nulla.

“Sei andato a far festa col nostro divo?” gli aveva chiesto Eric al ritorno.

“Non stavo bene e mi ha offerto da bere” aveva risposto lui.

“Dovrebbe farlo tutti i giorni, allora: tu non stai mai bene” fu il commento del troiano.

Era vero. Le cose con Viggo stavano di nuovo precipitando inesorabilmente, e se non fosse stato per Sean ed Eric le sue giornate sarebbero state incubi. Nessuno dei due sembrava intenzionato a indagare più di tanto su cosa lo turbasse, anche se Orlando era convinto che Sean sospettasse qualcosa; l’amico comunque non gli chiese mai nulla di diretto, e lui gliene fu grato.

Le telefonate piene di litigi con Viggo si alternavano a quelle deliranti con Elwood e alle meravigliose conversazioni telefoniche con John, che, sentendosi forse in colpa per la lontananza fisica, rimediava chiamandolo a tutte le ore pensabili. Erano chiacchierate leggere e divertenti, miste a sfoghi di Orlando che John riusciva ad arginare con l’abituale ironia.

“Sto male” gli aveva detto una volta.

“Di solito rispondendo al telefono si dice pronto” aveva risposto l’altro serio.

Orlando era suo malgrado scoppiato a ridere.

“Cosa succede?” aveva continuato John.

“Succede che va tutto a catafascio! –aveva piagnucolato- Non ce la faccio più. Ci siamo sentiti poco fa ed è stato di nuovo tremendo”

“Non mi spiego davvero come riusciate a strazzarvi ogni volta che parlate…” aveva considerato John.

Strazzarvi… Riesci a parlare un americano decente o devi per forza ricorrere al tuo orribile slang del Kansas?” lo aveva corretto Orlando acidamente.

“Oh, mi scusi, professore, non ero concentrato sulla grammatica… Insomma me lo dici come fate?” aveva continuato John imperturbabile.

“NON LO SO! –urlava lui- Succede sempre così, ogni volta mi trovo a gridare di tutto senza capire come ci siamo arrivati… Sono a pezzi.”

John aveva sospirato.

“Magari se pensaste, prima di parlare…” aveva suggerito.

Poteva essere una buona idea.

 

I saluti con Sean ed Eric erano stati drammatici. Soprattutto per quanto riguardava il secondo, che non sapeva assolutamente quando avrebbe rivisto. Bana gli aveva comunque assicurato che non si sarebbe liberato di lui facilmente e che lo avrebbe chiamato presto. Così Orlando era salito sull’aereo che lo avrebbe riportato a casa.

Era entrato in casa propria e ci aveva trovato Viggo che stava dipingendo.

“Ciao” aveva detto piano.

“Bentornato” l’altro gli aveva sorriso e lo aveva abbracciato, e Orlando si era sentito rinascere.

“Sean ti saluta tanto.” Aveva detto piano.

“Vi siete divertiti?” si era informato Viggo con un sorriso.

“Sì. Il film non sarà certo un capolavoro, ma farlo è stato divertente. E Sean era un adorabile Ulisse. Dico sul serio, estremamente azzeccato.” insisteva, mentre Viggo ridacchiava accarezzandogli i capelli.

“E gli altri?” continuò quest’ultimo.

“Oh, Ettore è una persona squisita e Achille pecca un po’ di superbia, mentre la bella Elena starebbe benone su un ring, comunque nel complesso sono stati ottimi colleghi.” Aveva concluso Orlando.

“Non sei stanco?” Gli aveva chiesto Viggo a quel punto.

“Un po’, perché?” si era incuriosito.

“Beh… Tu potresti infilarti nel letto a riposare e io ti terrei compagnia…” aveva suggerito Viggo con aria di assoluta innocenza.

“Hai mai pensato di proporti per un Oscar?” aveva chiesto Orlando ridendo, dirigendosi in camera da letto.

“Sì… Ma non posso autocandidarmi…” aveva risposto l’altro seguendolo.

Succedeva ogni volta. Quando si rivedevano erano così contenti che tutti i problemi scomparivano, per poi ripiombare loro addosso dopo un po’ di tempo.

 

Dopo qualche mese avevano avuto il peggiore dei loro litigi. Era iniziato tutto dal fatto che probabilmente Viggo avrebbe trascorso l’intera estate con suo figlio e Orlando, non riuscendo a trattenersi, aveva mostrato ferrea opposizione. Da questo argomento però si erano allontanati subito, per passare a un serie di bassezze, di accuse sull’essere l’uno la rovina dell’altro, e di insulti.

La litigata era finita a pugni.

Orlando era rimasto per un po’ davanti allo specchio, guardando il proprio occhio destro diventare pian piano nero. Aveva ascoltato a lungo il silenzio di casa propria chiedendosi come mai si sentiva così apatico e calmo, nonostante lui e Viggo si fossero separati con delle facce da addio. Forse perché non gli sembrava possibile.

Non si erano sentiti per qualche giorno, e quando Orlando aveva provato a chiamalo, il danese non aveva risposto. Così lui era uscito a bere qualcosa inviperito.

Non era sicuro di ricordare come si fosse trovato a baciare quella ragazza bionda. Lei lo aveva fissato per un po’ da un tavolo vicino, lo aveva approcciato e lui non si era tirato indietro, anche per il quantitativo di alcol trangugiato. Quando si era reso conto del tutto aveva telato di corsa ed era tornato a casa, maledicendosi per la propria stupidità.

Si era seduto sul divano con le mani nei capelli e un’aria atterrita, poi aveva afferrato il cordless e chiamato Viggo un’infinità di volte fino a che questi non si era deciso a rispondere, e lo aveva supplicato di raggiungerlo.

Quando Viggo era arrivato lo aveva trovato con un viso stravolto.

“Cosa è successo?” aveva chiesto preoccupato.

“Io.. io ti amo” aveva detto Orlando con agitazione, tenendo gli occhi fissi a terra.

“Orlando…?” Viggo lo guardava senza capire.

“…Io… Non capisco… stavo baciando quella ragazza… Ma…” sembrava parlare quasi a se stesso.

“Come hai detto?” lo aveva interrotto Viggo con gli occhi sgranati.

“No –Orlando era saltato in piedi e gli aveva stretto un mano intorno al braccio- non capisci.. Non era niente… Ero stupido e arrabbiato e sembrava tutto senza senso.”

“Lasciami” Viggo si era divincolato dalla presa.

Era rimasto zitto per un po’.

“E’ meglio così –aveva detto poi, con una voce triste- A questo punto è meglio così. E’ finita.”

“NO!!! –Orlando aveva cercato di abbracciarlo, ma Viggo si era spostato- Non vuol dire nulla! Non significa nulla! Avevamo fatto a pugni e io non capivo più niente, tu…”

“Lo so, Orlando, e lo capisco. Questa è solo l’ultima goccia, e non è così importante; era finita comunque. Forse non è mai veramente iniziata, non siamo mai stati bene. Ti avrei lasciato lo stesso. Comunque non intendevo continuare” il danese parlava con voce calma e quasi noncurante.

Orlando si concentrò nel trattenere le lacrime.

“Ti prego…” mormorò.

“Mi dispiace. Ma sarà un sollievo per tutti e due.” Viggo si era voltato ed era uscito, senza che lui facesse più niente per fermarlo.

Un sollievo per tutti e due… Quello che per lui era la cosa per cui era bello essere al mondo, per cui valeva la pena di continuare a respirare, per l’altro era un peso di cui liberarsi sarebbe stato un sollievo. Si sentiva come se gli avesse tirato un calcio nello stomaco. Non riusciva neanche a pensare, neanche a piangere, adesso. Si sentiva distrutto, e arrabbiato. Arrabbiato perché si sentiva preso in giro, perché se Viggo lo avesse amato veramente non avrebbe pensato al fatto di lasciarlo come a un sollievo; ma soprattutto sentiva come se gli fosse appena stata strappata via la parte migliore di sé.

Un sollievo.

 

Le tre del pomeriggio. Orlando si alzò in piedi stupito di come tutte quelle ore fossero volate via prese dai ricordi. Dalla sera prima, dopo la telefonata , aveva ripensato a tutto quanto, dormendo a sprazzi e staccandosi dalla realtà.

Per prima cosa doveva uscire a comprare da mangiare e da bere, anche se non sapeva se Viggo sarebbe venuto già a cena. Poi era il caso di fare un salto da Elwood per fargli sapere che era ancora vivo; anzi, forse era il caso di invertire l’ordine in cui fare le cose.

Quando Elwood aprì la porta e se lo trovò davanti, poco ci manco che si mettesse a urlare. Lo fissò per qualche istante prima di lasciarsi cadere contro lo stipite.

“Santa Vergine –boccheggiò- cominciavo a pensare che ti fossi buttato giù dal cornicione”

“Ciao” rispose Orlando.

“Entra, per la miseria, stai bene? E’ da ieri sera che ti chiamo senza che tu risponda, dov’eri finito? Lo sai che potevo morire per questo, ho il cuore debole, tu mi vuoi male…” attaccò lo hobbit.

“Elwood…” cercò di interromperlo Orlando.

“… Sai che momenti ho passato? Mi è venuto in mente che magari ti era suicidato asfissiandoti col gas e ho sognato che eri nella vasca da bagno con le vene dei polsi tagliate, se non ti trovavo entro sera avrei chiamato i pompieri…”

“Elwood…”

“…e poi è questo il modo di trattare un amico? Tre settimane!! Farmi stare così male, me lo spieghi cosa centro io? Nulla. Ma a lui che importa, lui sta soffre tanto, degli altri cosa gliene…”

“ELWOOD!” ripeté Orlando, questa volta a voce alta. Rimase in silenzio per qualche istante.

“Scusami” disse poi.

“Ok” replicò tranquillamente l’altro, annuendo.

Orlando lo guardò per un po’, poi sorrise.

“Sei incredibile…” commentò.

Quindi passò a raccontargli della genialata di John e della telefonata di Viggo. Elwood ne fu contento, anche se, con aria seria, lo supplicò di non farsi troppe illusioni. Se non ci si aspettava nulla non si cadeva da in alto. Orlando rispose che non era facile, ma che sapeva che aveva ragione lui.

Lo salutò dopo quasi due ore e andò a fare la spesa. Sapendo di avere la cucina completamente vuota prese a infilare nel carrello qualsiasi cosa gli capitasse sotto gli occhi, tecnica del tutto originale di fare rifornimento, e alla fine si trovò con sei sacchetti pieni fino all’orlo di ogni cosa. Caricò il tutto in macchina e tornò verso casa. A quel punto erano le otto spaccate.

Alle nove meno dieci aveva appena chiuso la porta dopo aver portato in cima alle scale gli ultimi due sacchetti, quando suonò il citofono.

“Sì?” chiese ansante per la fatica, togliendosi le scarpe.

“Sono io” rispose Viggo.

Orlando gli aprì, trascinò i sacchetti in cucina correndo come un pazzo, mise a posto le ultime cose che aveva lasciato in giro il giorno prima e scattò verso l’ingresso frenando, con una sgommata che rovinò definitivamente i suoi già compromessi calzini, nello stesso istante in cui Viggo entrava in casa.

“Ciao” disse con un sorriso che doveva apparire, se ne rese conto, estremamente teso.

“Ciao. Come va?” rispose Viggo, nervoso per la prima volta da quando lo conosceva.

“Non male. E tu? Vieni, vieni” lo invitò, dirigendosi in cucina.

“Sì… anche io.” Fu la risposta.

“Siediti pure. Bevi un birra?” chiese il giovane indicando una sedia.

“Sto in piedi, grazie”

Orlando si voltò a fissarlo aprendo il frigo.

“Sei di fretta?” chiese prendendo una bottiglia.

Viggo sospirò.

“Ero venuto qui per dirti che era giusto così, che non dovevamo proprio più vederci e che era finita definitivamente, e invece l’unica cosa che mi viene in mente è che–disse avvicinandosi a lui e prendendo la birra che gli porgeva- … Mi sei mancato” concluse facendo per accarezzargli il viso.

Orlando si ritrasse, senza guardarlo. Aveva paura. Paura di dover soffrire ancora così, paura di sperare ancora per poi cadere di nuovo così forte. Paura di quanto tutto era complicato e  fragile, di quanto quel rapporto avrebbe potuto ancora ferirlo.

Sai, Vig –aveva iniziato- spesso ci ho pensato…”

Fece una pausa.

“Ho pensato a come sarebbe stato se, fra di noi le cose fossero andate in un modo diverso.”

“Diverso… Come?” aveva chiesto Viggo con voce tremante.

“Non lo so. Diverso… Non so nemmeno se migliore o peggiore di come stiamo adesso, però… -si interruppe per un istante, gesticolando- Quando mi guardo indietro, vedo così tante strade lasciate vuote. Strade delle quali non riesco a vedere la fine, ma sempre assolate… E rassicuranti…” spiegò, con voce malinconica.

Rimasero in silenzio per lunghi minuti. Viggo teneva lo sguardo fisso sulla bottiglia di birra che faceva roteare leggermente in mano. L’unico rumore che si sentiva era il ticchettio dell’orologio a muro di Orlando… Snervante, alla lunga.

E alla fine l’uomo alzò gli occhi, con un sospiro.

“Io non so se quella che abbiamo preso si la strada giusta. Non lo posso sapere. Non so neanche se esiste, la strada giusta. –disse, quasi sottovoce- Quello che so è che ho preso la strada in cui credo con tutto me stesso, ho intenzione di percorrerla fino alla fine e non mi sembra che ci siamo già arrivati. Non mi importa quanta possa essere la fatica, ho intenzione di lottare per ciò che è veramente importante, e quello sei tu, è questa strada. Scusami se l’ho capito così tardi. Scusami se sono stato ottuso e egoista. Non ho mai voluto farti male.”

Orlando ricacciò indietro le lacrime con uno sforzo epico.

“Anche se vuol dire soffrire così?” chiese.

“Per me sì. Non so se per te sia lo stesso. Tutto sta nel chiederti se pensi che ne valga la pena.”

Tacquero.

“.. Ne vale la pena?” ripeté Viggo con un tremito.

Ne valeva la pena? Non lo sapeva. Voleva soltanto trovare una risposta ma in quel momento pensava a tutto il male e tutto il bene che si erano fatti senza riuscire a capire quale dei due contava di più, quale gli fosse restato sulla pelle.

Rimasero di nuovo in silenzio per un tempo che sembrò infinito, Orlando che guardava fuori dalla finestra con la testa che gli vorticava e Viggo che continuava a giocherellare con la bottiglia.

“Ho capito –il danese spezzò il silenzio- Bene, Orlando… Credo sia ora che io vada. Posso solo augurarti tutto il bene possibile. Te lo meriti” disse, guardandolo con aria triste e scuotendolo dolcemente per una spalla a mo’ di saluto.

Il ragazzo lo fissò di rimando con un’espressione assolutamente vacua, senza riuscire a parlare, mentre lui chiudeva la porta e iniziava a scendere le scale.

Rimase per qualche secondo a ascoltare quel silenzio improvvisamente asfissiante, la testa vuota e rimbombante, mille pensieri che gli vorticavano intorno e l’incomprensione più assoluta di ciò che avesse dentro; quindi si affacciò alla finestra. Pochi istanti dopo Viggo uscì dal portone e si diresse verso la sua macchina facendo per aprirla. Lanciò un’ultimò sguardo indietro, e vide il ragazzo alla finestra.

Orlando sorrise dolcemente e fece un leggerissimo cenno verso l’interno della casa.

Viggo sorrise a sua volta, si infilò le chiavi in tasca e rientrò dal portone.

 

Era passato un mese e mezzo da quando aveva chiarito le cose con Viggo, e adesso era tutto cambiato. Era come se all’improvviso avessero deciso di collaborare, di farsi tolleranti, di accettare i compromessi che avevano sempre rifiutato e che erano in realtà parte fondante di qualsiasi rapporto. Il loro legame era in qualche modo cresciuto, si era fatto più consapevole; non era sempre facile, anzi, a volte la pazienza sembrava sempre sul punto di svanire, ma non era importante, perché ora la risposta c’era, ed era limpida e sicura: ne valeva la pena.

E in quei giorni si stava godendo un meravigliosa vacanza in Francia con John. Viggo non aveva neanche protestato quando gli aveva annunciato la cosa, aveva solo sorriso augurandogli di divertirsi. Ed ora eccolo lì, seduto su uno sgabello e con i gomiti mollemente appoggiati all’asse da fast-food di un locale sul lungomare, in cui stava aspettando che John lo raggiungesse, dopo aver portato a casa la figlia. Di tanto in tanto prendeva un sorso di aranciata dal bicchiere che aveva accanto, un sorriso enigmatico sul viso e l’aria assente.

Non sapeva come sarebbe andata a finire. Forse di lì a poco sarebbe crollato tutto come un castello di carte. Forse sbagliavano a continuare a credere. Non pensava più che la sua vita dipendesse da Viggo e si rendeva conto che probabilmente un giorno sarebbe finito tutto. O forse no. Chi poteva saperlo… La cosa di cui era certo era che, se quel giorno fosse arrivato, lui non avrebbe avuto nulla da rimproverarsi, nessuna parola non detta, nessun gesto non compiuto. Come sarebbe andata, lo avrebbe saputo solo continuando a andare avanti.

Where are we runnin’?… stava cantando qualcuno alla radio…

 

THE END