.|. Venne un Giorno la Fine del Mondo .|.

by Lago

Infine, venne il momento che gli elfi avevano imparato a temere. Dopo più di diecimila anni dalla distruzione dei Valinor, giunse il momento della fine. Venne un giorno la fine del mondo...

Drammatico/Sentimentale | Slash| Rating NC-17 | One Piece

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Giunse anche per gli elfi l’evento che era stato loro insegnato temere.

Da interi eoni i Valinor si erano dissolti, consumati dal vigore del tempo. E le loro eteree creature s’erano separate, disperse, sparpagliate e smarrite, avevano vagheggiato nell’infinito del mondo e delle generazione dell’uomo. Avevano abbandonato gli antichi compagni e assaggiato, immutabili e senza stanchezza, i frammenti di ogni nuova realtà da serraglio che capitasse loro d’incontrare.

Avevano viaggiato, coperto il pianeta, in una sottile rete di occhi, pensieri, sguardi insaziabili di chi aveva il tempo – tutto il tempo del mondo – per osservare, capire, imparare. Analizzare, i più pazienti degli scienziati, dotati di ogni arma si rendesse necessaria nel mutare dei costumi della variegata ed inquieta umanità.

Avevano assistito al crearsi e dissolversi di intere civiltà. Sovrani, e più tardi tiranni, e presidenti, e dittatori,  e poi di nuovo sovrani e monarchi, e poi dei, ed imperatori, nella follia dilagante di un’umanità privata dello spazio per espandersi ancora. Avevano osservato lo spazio infinito venire smembrato, catalogato, le loro amate stelle spegnersi una di seguito all’altra, esplodere, implodere, risucchiare brandelli di cielo. Avevano dovuto capire. Avevano dovuto imparare.

Avevano imparato, infatti. E magari scordato. Avevano riflettuto, spesso disperato, quasi mai pregato.

Ma giunse il momento di reincontrare il passato, ciò che era stato scordato, riallacciare le alleanze perdute. Il momento di tirare le somme di quanto era stato e raschiare via ciò che era superfluo, il momento di reincontrare gli amori dei tempi passati, gli amici, gli amanti di tutte le ere.

Venne un giorno la fine del mondo.

 

 

§

 

 

Per Glorfindel di Gondolin, la fine aveva assunto la forma di un’immensa muraglia di acque profonde, in rivolta – trascinate con prepotenza in superficie da forze terribili, tali che mai il mondo aveva visto l’eguale (né mai l’avrebbe visto una volta di più), dopo eternità di oscuro fluttuare.

Aveva visto, nell’ondata rabbiosa – o creduto di vedere, o intravisto soltanto – sagome spezzate di navi, relitti fantasma perduti da secoli. Rettili immensi emersi da baratri insondati, dove si annidavano gli incubi di ogni uomo vagasse per mare, adombravano l’acqua con le loro sagome immani, scagliati lontano dal loro rifugio profondo. Aveva immaginato, Glorfindel, gli stormi di orrende creature abissali, accecate da una Luce di cui non avevano mai ponderato l’esistenza – quella Luce che eppure svaniva, si dissolveva, i suoi deboli raggi dorati spezzati dal turbinare furioso di un Cielo impazzito, mentre anche questo veniva aggredito, le nuvole stesse inondate dall’acqua rombante.

Così tremendamente diverso – aveva rammentato Glorfindel il Bello, mentre l’immane pressione dell’aria compressa dal maremoto sventrava i suoi timpani, spezzava le piccole ossa nelle sue fragili orecchie – così differente dalla morte che ancora sapeva ricordare, quel maelstrom di sudore, terrore, fuoco e bruciore e tornadi di fiamme ed artigli selvaggi che avevano schiantato la sua armatura dorata, lacerato le sue carni perfette, ustionato, sfregiato, ridotto il suo corpo a carboni roventi…

Che da un’orgia di luce e calore mortale dovesse votarsi ad una pietra tombale di gelida acqua nerastra era strano – forse sbagliato. Perché doveva morire, aveva capito il biondo Glorfindel, mentre i demoni dei marinai prendevano vita di nuovo nell’immensa muraglia, con polene deformi e biancastri fantasmi rivestiti di stracci, brandelli di volto, in cerca di un’insensata vendetta – doveva morire, era giunto il momento, di nuovo. Il familiare trillare impazzito del cuore nel petto, il respiro affannato e il tremito, la vampata di caldo, proprio come allora – a gridare irrazionalmente

‘non voglio’

nonostante avesse avuto così tanto più tempo di ogni altra creatura –

‘non voglio’

non era ancora abbastanza, e aveva paura, proprio come allora, le aule di Mandos erano ormai distrutte da tempo, non c’era più nulla, credeva, non c’era più nulla, gridava il suo corpo,

‘non voglio!’

e gli spettri si lanciavano avanti, ululando rabbiosi, strida agghiaccianti di odio, rancore, ferocia di chi era marcito in tempeste, impigliato in rocce e segreti fondali, ruminati da disgustose creature forgiate di denti soltanto, le grida di chi aveva negli anni fomentato leggende e follie…

Il più orrido di tutti i clichés, quel suo fato, si disse Glorfindel, mentre il vento di morte spazzava il suo volto, fustigando i suoi lunghi capelli, e il muggito del mare saliva furioso, anche se se lui non lo poteva sentire. Ma vedeva, Glorfindel, e l’orizzonte era scomparso nel nulla cos’ come il cielo, soppiantato da un blu, nero, oscuro e tremendo, il colore che – ora capiva – era quello che tingeva la cappa di sua maestà la Morte. Il colore di abissi scoperchiati da una mostruosa Pandora, luoghi che nessun uomo aveva ancora saputo violare – e gli orrori urlanti gli si gettarono addosso.

Così giunse la fine per Glorfindel di Gondolin – strappandolo via, come un giunco d’inverno – con gli occhi colmi di scheletri urlanti

dei pirati di secoli addietro.

 

 

§

 

 

Per Legolas figlio di Thranduil, la Morte fu un preludio all’orgasmo.

Fu un sussurro di gelida seta contro il suo corpo bollente, in tensione. Fu una coppia di mani selvaggiamente aggrappate al suo ventre, ai suoi fianchi, fu un respiro rovente nel cavo del collo.

Fu un dolore familiare, pungente, fu un pungolare incessante di membra affamate, fu un pulsare che gridava, pretendendo sollievo – fu un ritorno ai primordi della specie, qualunque essa fosse – fu una violenza animale, un egoismo sfrenato volto ad una cosa soltanto.

Piacere, piacere, piacere, piacere.

Fu un pensiero, più che un vero capire, una diramazione apparentemente casuale – un tassello incappato per caso nella sua posizione – fu un istinto bruciante a suggerirgli

‘È l’ora’

che avrebbe finalmente scoperto se chi di dovere aveva saputo aspettarlo.

Era tempo.

Per Legolas di Bosco Atro la fine fu un uomo premuto con forza dentro al suo corpo – senza nome ma con uno splendido volto, quell’uomo, come molti di quelli che l’avevano preceduto, nel corso dei secoli. Perché era questo che aveva cercato, l’arciere – amore, amare gli uomini di ogni tempo, regione, casta ed etnia. Aveva seguito con vago divertimento lo srotolarsi d’intere genealogie, seducendo con consumata perizia ogni singolo membro della linea – dozzine, le famiglie che avevano imparato a vivere sotto lo spettro del Biondo Tentatore, colui che appariva e carpiva cuore dopo cuore, da sempre. Probabilmente per sempre.

I nervi incendiati ogni volta come fosse stata la prima, ogni volta lo stesso – semprevergine, questo il suo estremo puntiglio, di chi per millenni aveva avuto nuovi amanti ogni pochi giorni, e sapeva però rinnovarsi, epurarsi, ed essere eternamente un ingenuo.

Uomini. Da sempre la sua fissazione, la sua debolezza, magari. Il suo vizio. Il suo sfizio.

Uomini a cui aveva sempre dovuto spiegare, io sopravviverò. Io non sarò trascinato nel buio dalla vostra scomparsa, non io. Io posso avere degli altri. Le donne sopravvivono alla morte del consorte in battaglia, anche io posso farlo. Posso farlo cento, mille volte di più, potrò farlo magari per sempre. Non sei il mio primo e non sarai il mio ultimo, ma sappi questo – adesso, ci sei solo tu. È tempo che dobbiamo carpire, gustare, come il più effimero degli aromi, finché durerà.

E ora vieni qui…

Per Legolas l’arciere imbattuto, la fine fu stringere quel suo ultimo amante sapendo che non avrebbe avuto paura. Fu il suo corpo che iniziava a tremare, in spasmi di un’agognata liberazione.

Così giusto e così stranamente sbagliato, che un elfo votato ad esser puttana fosse colto da Morte mentre adempiva a questa sua decisione. Sbagliato in nome di Valar e cronache e storie e leggende, che avrebbero preferito saperlo scomparso in grandi battaglie epocali, o in gesti d’eroico coraggio. Ma anche dei e libri e giudici delle sorti degli altri stavano per scomparire, suggeriva l’istinto dell’elfo. Ed egli non aveva fatto altro che cedere alla sincerità del suo corpo, diffidente verso parole e promesse e vani giuramenti. La sua vita dalla bellezza era stata condizionata, facendo leva sulle bassezze dei prossimi, dunque era quella l’unica sua verità: e Legolas il Biondo non aveva fatto altro che ammetterlo prima di tutto a sé stesso, in un edonismo che gli aveva donato la gioia dell’esistere concretamente, dell’accogliere amore da infiniti compagni e compagne, ricreando l’Unione nel suo primordiale equilibrio.

L’accettazione del vero e del semplice fu la sua più grande conquista. E vi rimase fedele.

Per Legolas figlio di Thranduil la fine fu chiudere gli occhi quando vide il soffitto crollare,  gettandosi nell’igneo tornado che sconvolgeva il suo inguine, e salendo, volando, gridando, lasciandosi di buon grado bruciare.

 

§

 

 

Per Erestor il Consigliere, la fine giunse nel sonno.

La fine fu aprire gli occhi con un soprassalto d’orrore, fissi nell’oscurità claustrofobica dell’aria compressa. Fu un terrore animale scaturito dal fondale dei sogni, al di là di ragione e pensiero – non ebbe il tempo di mutarsi in sorpresa. Proprio lui che aveva trascorso l’intera sua vita a pensare, si ritrovava ad affrontare la morte come un fascio di nervi e d’istinto, dei, il Terrore!

Ma fu un lacerante istante di panico cieco, uno solo, prima che il vapore rovente investisse la stanza col suo fiato mortifero.

E la fine calò su di lui, nebulizzandolo, e lo disperse in molecole insieme ai suoi libri.

 

Il vero risveglio si ebbe più tardi.

Era solo, il petto ancora scosso da palpiti incerti. E sorella Sorpresa lo colse, così com’era stato predetto. Ed egli si alzò.

Era il vuoto. Non era né bianco, né nero. Né altro. Non era né il nulla né il tutto, non era reale ma non appariva irreale. Né v’erano antichi stendardi a testimonianza di gloriose famiglie, e neppure imponenti camini o sale avvolte dal calore di lauti banchetti. Non c’erano troni di antichi sovrani né i padri degli elfi, né immense distese di eroi d’ogni tempo giunti a godere delle loro ricompense.

Ma nell’istante medesimo in cui immaginava, quegli scenari parvero plasmarsi nel vuoto intorno a lui. Il nulla si torse, si gonfiò mollemente, ed il Consigliere intravide mura di rozza pietraglia, candele aranciate, stendardi intessuti d’oro e d’argento che richiamavano antiche e gloriose battaglie, e fuochi, ancora, e regali Sovrani, ed essi tremarono avvolti in fosche pellicole lattee, per poi dileguarsi. Vennero riassorbiti, ed il tutto / nulla tornò ad essere tale.

“Ci si fa l’abitudine,” giunse dalle sue spalle, amichevole. “Basta imparare a pensare nel modo corretto.”

Imparare a pensare, si disse il Consigliere dai lunghi capelli d’inchiostro. Bizzarro.

Poi si volse, e strinse la mano che un giovane Estel gli stava porgendo.

“Sono contento di rivederti, alla fine.”

“Ti ringrazio.”

Estel sorrise. Il suo volto parve quasi brillare nel vuoto lattiginoso. “Io lo sapevo da tempo. Sei il primo, amico mio.”

Erestor annuì, vagamente stordito.

“Ora, se mi perdoni questa troppo breve comparsa, devo andare. Ho una persona speciale da accogliere.”

Annuì nuovamente, il Consigliere. Poi, d’improvviso, ebbe paura. Paura di quel nulla / tutto fumoso, paura. Paura del vapore rovente e del suo stesso fisico, di ritrovarsi invischiato in illusioni senza potersene mai più districare. Paura di ciò che era cambiato. E quindi, paura di tutto.

Ma Estel sorrise di nuovo.

“C’è molta gente, qui.”

“Non li vedo.” Occhi scandagliarono frenetici quell’Aria inconsueta. “Non è vero.”

“Erestor.”

Ma non cambiava. Intorno a loro non c’era nessuno, non c’era.

“Ci sono. Fidati, io ne sono certo. Sono stato qui per oltre diecimila anni. Ci sono molte persone che vorrai rivedere. ”

Sorella Sorpresa gli rendeva difficile pensare, mettere in moto polmoni o cervello. Diecimila anni. Ma era dunque… dei del cielo onnipotente. Che cos’era?

“Non so come fare.” ammise. Scosse la testa, impaurito. Il Consigliere / cucciolo, per la prima volta in millenni di esistenza davvero intimorito dalla scomparsa della sua regola base. La Logica.

“Sono certo che saprai come uscirne da solo.”

Forse un po’ troppo ottimista, si disse il nostro elfo insicuro. Ma non ebbe realmente altra scelta che annuire per l’ennesima volta, mentre Estel si congedava con un cenno, sembrando poi venire assorbito da fibre biancastre, fino a svanire nel nulla.

Silenzio, e nulla / tutto a dominare di nuovo.

Imparare a pensare, ripeté mentalmente il moro Consigliere. Ma pensare a che cosa?

Chiuse gli occhi, lasciando vagare pensieri e confusi accenni di spiegazioni, razionalità infrante che non riusciva a combinare in alcun modo logico. Ma solitari i pensieri si diressero verso un solo cassetto, impigliandosi in un ricordo sporgente, avvolgendolo, fino a renderlo inevitabile.

Gramburrone. Glorfindel. I Gemelli.

Quelli che erano stati i suoi ultimi giorni nel reame degli elfi, prima che il disfacimento iniziasse. La stanchezza di condividere una maldefinita eternità con le stesse creature, secolo dopo secolo dopo secolo, che era sfociata in scatti di rabbia, impazienza, insofferenza. Era stata quella, la più autentica disgregazione dei Valinor. Mentre il vento e le onde ne raschiavano via il territorio, poco alla volta, i suoi abitanti avevano perduto la loro identità – come coppie, come famiglie, come clan, come popolo.

Pochi avevano assistito al crollo dei Valinor, quando il mare aveva inghiottito l’Isola, facendone polvere. Se n’erano andati. Ma, forse, era giunto il momento di ritrovarli. Per osservare sotto la luce di nuove esperienze quella che si prospettava come una seconda Eternità.

Imparare a pensare.

Gemelli, si disse. Gemelli, ripeté con veemenza. Poi s’irritò, poiché la parola – in quel luogo, quel non–posto, quell’indefinibile – non appariva avere un significato.

Ed allora lasciò campo libero a ricordi, immagini, sensazioni che credeva svanite nell’oblio secoli addietro. I giardini di Gramburrone d’estate, il loro profumo mentre camminava solitario fra le panche di pietra, la roccia ruvida sotto le sue dita, il frusciare delle stoffe nell’aria tiepida e tersa. Ed una tristezza avvolgente lo colse, sbocciò dal suo interno, dilagando per i suoi pensieri, impregnando la mente, il suo sangue. Era tutto finito. E per quanto fosse giunto ad odiare quei luoghi e la loro gente, il dover dire

mai più

era straziante come il più orrendo veleno. Mai più quelle colonne ritorte all’ingresso del Salone D’Avorio, mai più i cavalli tirati a lucido per le passeggiate nei boschi intoccati, mai più il sole limpido sulle armature dorate dei giovani che si addestravano alla guerra, mai più la magia di stregoni e sapienti.

Ecco cosa gli era mancato, comprese. Ecco lo straziante senso di insoddisfazione che l’aveva pungolato nella sua corsa attraverso i millenni, la sua ricerca incessante, i suoi studi. E se una cosa era certa era quella sentenza,

mai più.

Non si avvide, il Consigliere dalle chiome corvine, delle fibre di nulla che si stendevano lungo il suo corpo, carezzevoli ed impercettibili, e che lo sbiadivano, inerpicandosi verso i suoi lineamenti, fino ad inglobarlo, opache e perlacee, e sempre più intense…

 

 

§

 

 

La Paura non venne, per Elladan.

Rimase accovacciata fuori dalla sua porta, tracciando annoiata cerchi sul pavimento con un legnetto appuntito. Inutile andare a gravare sulle spalle dell’elfo, già schiacciato da fratello Terrore.

Elrohir

Paura poteva udire le grida strazianti nella mente del suo piccolo ospite. Se avesse potuto, avrebbe provato pietà, compassione, per lui. Povero ingenuo.

Elrohir!

Non aveva neppure fatto in tempo ad entrare. Aveva già programmato tutto, davvero. Avrebbe mandato per prima la sua gatta, Inquietudine, affinché si strofinasse ronfando sulle ginocchia dello sventurato. Senza fretta, arcuando la bella coda grigia, sbattendo gli occhioni violetti, lei si sarebbe arrampicata sulla pancia dell’elfo, pesando sul suo stomaco con tutta l’intensità di un preludio al panico cieco. Pendendo con calma il suo tempo, sarebbe balzata leggera sul tavolo, le vibrisse frementi, annusando con calma la fronte dell’ormai adulto Elladan, riversandovi oppressione ed irrequieta tensione.

A quel punto, la Paura avrebbe  portato alle labbra indefinite il suo piccolo zufolo, intonando con dita sicure la sua melodia preferita, quella del Timore.

E la musica sarebbe impercettibilmente fluita attraverso la pelle dell’elfo, riversandosi nella sua stessa fisicità, con la sua antica ed eloquente potenza. Timore apparteneva alla gerarchia delle sonate remote, quelle che conservavano il potere di insinuarsi nel corpo dei viventi, plasmandoli secondo regole proprie. La Paura era vecchia abbastanza da aver scordato da chi l’avesse imparata. Ma una cosa era certa; la razza delle Antiche Melodie era stata creata insieme allo stesso universo, se non prima ancora. E l’universo stesso era stato quasi certamente forgiato da una primordiale, potentissima Musica.

Conclusa la sonata Timore, la Pura sarebbe stata pronta ad un ingresso sublime, da vera regina. Avrebbe sparso pizzichi di Angoscia tratti dalla sua piccola bisaccia, ed il pesante pulviscolo scuro avrebbe onorato i suoi passi, racchiudendoli in un’eco terribile per il povero Elladan, trattenuto sul ciglio della disperazione, finché Paura non fosse giunta a posare la mano sulla sua fronte, scatenando i più orrendi pensieri, gelando le viscere ed imprigionando le lacrime in una morsa di orrore terribile…

Elrohir!

ELROHIR!

Con uno schiocco, il legnetto si ruppe, mentre Paura augurava a Fratello Terrore ogni sorta di tremende disgrazie. Avrebbe almeno potuto lasciarla divertire un po’, non appena la presenza di Elrohir aveva iniziato ad offuscarsi nella mente del gemello.

Ma in verità, la colpa ricadeva esclusivamente sul corvino Elladan. Era stato lui a non temporeggiare abbastanza, gettandosi a capofitto nel proprio estuario telepatico, chiamando a gran voce il fratello, constatando senza possibilità d’errore che Elrohir

Non era più lì.

Non era più da nessuna parte.

Nel tempo che Paura aveva impiegato a raggiungere l’uscio dell’elfo, il terrore era già calato sulle sue esili spalle, avvolgendolo nel suo pesante manto di piombo grigiastro, opprimendolo, togliendogli il respiro. Senza preamboli, Terrore aveva conficcato gli artigli nel ventre di Elladan, godendo nell’udire i disperati richiami del Moro, nel vederne il bel volto sconvolto dai più tremendi incubi dell’infanzia, che Terrore aveva liberato dalla loro prigionia, sotto il proprio materasso.

Si sarebbe concessa ancora pochi momenti, aveva deciso Paura. Sarebbe stata una lunga giornata, e aveva molte visite da fare. In vero, avrebbe dovuto visitare ogni persona ancora vivente nel mondo, se non altro per un breve attimo di raggelante stupore, prima di cedere il passo alla Dama Morte, cui nessuno poteva negare alcunché.

La Paura sedeva preparandosi ad un lungo vagare, mentre ascoltava le urla del solitario Gemello spezzarsi in singhiozzi d’isterico panico. Sentì passi malfermi avvicinarsi dall’oscuro passaggio, accompagnati dal tintinnare sinistro di dadi ed oggetti malamente assortiti, mentre Follia arrivava sghignazzando sguaiata, protendendo le mani adunche verso la ragione dell’elfo.

Ma un sibilo lacerante già cresceva nell’aria, mentre Sora Morte in lontananza allargava le braccia, ed un vento acido come il rancore di Giuda si avvolgeva intorno al palazzo, preparandosi a dissolvere ciò che aveva incontrato.

Le urla cessarono.

Paura comprese che era il momento di andare.

 

 

§

 

 

Il magro elfo dai capelli corvini sedeva su quello che non era certo di poter definire un suolo.

 Un che di nebuloso ed incolore era infatti ciò su cui si trovava. Ma, mentre, quello stesso pensiero gli attraversava la mente, vide generarsi sotto alle sue gambe incrociate una serie di pregiate mattonelle in porfido e marmo, in tutto e per tutto simili a quelle delle sue stanze, nel palazzo di Elrond...

L’elfo scattò in piedi, come ustionato. Tremolanti, le mattonelle scomparvero.

Dei, la follia doveva aver preso possesso di lui. Ricordava solamente la verde distesa della collina che gli si allungava davanti, poi un rombo, poi… poi l’Indefinito. Doveva aver perso la ragione, averla lasciata correre via, libera, per il dolce declivio della collina. Non c’erano altri perché.

Ma, per qualche motivo, temeva che la realtà si sarebbe rivelata diversa.

Elladan

Chiamò nuovamente, come aveva già fatto più volte. Nulla. Per qualche inconcepibile motivo, la sua voce mentale era muta, non si liberava nell’etere, non  rimbalzava di cervello in cervello fino a stanare l’Essere Elladan. Per la prima volta in quindicimila anni, l’elfo era –

Solo.

E fu questo il più grande sgomento – non riuscire a provare paura. La paura era sì una parola, conosciuta, una sensazione che poteva definire, rimembrare, ma non riusciva a provarla.

“Io sono terrorizzato,” disse ad alta voce. “Io ho paura.”

Ma la paura non rispose.

Non poteva sapere, l’elfo dalla chioma corvina, che sorella Paura non poteva raggiungerlo, non l’avrebbe potuto fare mai più. Non sapeva nemmeno, piccolo Elrohir, che Paura sedeva in quel preciso momento davanti alla stanza del suo terrorizzato gemello, ascoltando il suono della Morte che si avvicinava a rapirlo.

Il Nulla intorno a lui s’animò d’improvviso, pulsò di vita propria, ondeggiando.

Tumulto. Nel petto, il cuore pesante.

L’aria parve distinguersi in filamenti, nembi e cirri e vapori di latte che si scostarono, rivelando una figura che avevano custodito, come in un bozzolo…

“Erestor.”

Con un sibilo, l’elfo avanzò, per gettarsi fra le braccia di quella provvidenziale apparizione. Che fosse pure un miraggio, non gl’importava. L’importante era non essere solo, non più.

Erestor lo strinse, esitante. Il più giovane sollevò lo sguardo, trovando una scintilla di sorpresa, ed una spolverio di orgoglio.

“Elrohir. Piccolo Elrohir.”

Non era più il Piccolo Elrohir che ricordava. Gli occhi pieni e le labbra rigonfie lo bollavano ormai come adulto, un adulto che aveva amato ed era stato riamato, che aveva sofferto ed aveva fatto soffrire, che aveva perso ed era stato perso, che aveva intrapreso le sue ricerche ed affrontato le sue sfide.

Sperò che le sconfitte non fossero state troppo brucianti.

“Siamo nel Luogo, piccolo Elrohir.”

Confusione che dardeggiava da quegli occhi fumosi, richiamando pomeriggi di pioggia nella biblioteca, con il suo odore di legno lustrato. Quando il Piccolo Elrohir sollevava la penna, gocciolando inchiostro per tutta la sua pergamena, domandando con quegli occhi infiniti il perché di qualche strana nozione.

Il profumo della seta impregnata di incensi e fumo di candele, nelle nottate che Erestor aveva trascorso fra quei libri, ad insegnare ai Gemelli un po’ della sua mente. Erano grandi, oramai, e questo non si poteva cambiare.

Ma il viso di Elrohir parve rispondere alla sua implorazione, e scivolare all’espressione che aveva a tre, quattromila anni dalla sua nascita… per poi ricomporsi, instabile, nella sua immagine di adulto. Ma Erestor già aveva compreso, e segretamente annuì.

“Il Luogo è… qualcosa che dovremo imparare a conoscere.” Il Maestro, una volta di nuovo. “È qui che dovremo imparare a trascorrere il nostro futuro.”

“Io e te, Erestor?”

Perché noi?, era la domanda di quelle labbra insicure. Ma non esisteva realmente un perché, né un ‘noi’.

“L’intera nostra stirpe, Piccolo Elrohir. E l’intera stirpe degli uomini. E,”  gli balenò in mente “L’intera stirpe dei nani, e degli orchi, ed ogni altra stirpe che il mondo abbia mai visto passare. Ed ogni suo singolo rappresentante.”

Altra confusione.

“Non so dirti di più, Piccolo mio. Ma sono felice di averti trovato.”

“Erestor.”

Elrohir avrebbe potuto piangere come un bambino dall’incertezza che avvertiva nel cuore. E nemmeno la familiare presenza di Erestor riusciva a fugare quell’attanagliante sensazione –

“Elladan?”

Erestor si limitò a stirare le labbra, accendendo i propri occhi di un sorriso.

“Sono certo che tuo fratello stia aspettando te. Pensa a lui, Piccolo Elrohir. Pensaci più forte che puoi. Credici forte.”

Ed Elrohir chiuse gli occhi e credette, e pensò al suo Elladan più forte che poteva, incalzato dalla voce di Erestor.

Elladan Elladan Elladan Elladan Elladan Elladan Elladan

Più forte! Più forte!

Elladan Elladan Elladan Elladan Elladan Elladan Elladan

Non funzionava. Sconforto, mentre stingeva gli occhi, ma non funzionava! Ed eppure…

“Elrohir, Elrohir, Elrohir, Elrohir…”

Uh?

 

I due corpi gemelli si avvolsero l’uno sull’altro, rampicanti ansiosi di intrappolarsi, le mani frenetiche di stringere forte, forte, per non lasciarsi più andare.

Ed Elladan seppe che la Paura non gli avrebbe mai più fatto visita, così come lo comprese il suo Elrohir.

 

 

§

 

 

Non esisteva un vero e proprio cancello, a difendere l’ingresso del Luogo.

Solitamente, in verità, non esisteva nessuno troppo ansioso di entrarvi. Ma, d’altro canto, non esisteva neppure nessuno che ne venisse bandito.

Il Luogo era dove tutti, in un modo o nell’altro, sarebbero stati radunati. Ma il Luogo era esso stesso un Tutto, o un Nulla, a seconda di chi lo stava immaginando; i cosiddetti Malvagi avrebbero saputo creare un loro Luogo, che non sarebbe mai stato simile al Luogo creato dai cosiddetti Buoni. Né i due Luoghi si sarebbero mai potuti incontrare.

Il Luogo dal pensiero era costruito e forgiato, dalla mente di chi vi si trovava. E dunque il Luogo era ovunque, il Luogo era una miriade di posti differenti, ed eppure era uno.

Estel aveva rinunciato da tempo a provare a spiegare.

Aveva compreso i meccanismi di base in poco più di mezzo millennio, ed aveva compreso come non essere solo. Aveva imparato a cercare chi e che cosa desiderava, e a vedere ciò che gli interessava. Erano cento secoli che Estel viveva nel Luogo, ed aveva solo vagamente iniziato a comprendere quanto fosse simile ad un’infinita mente.

Gli bastò pensare, credere. Ed il nulla davanti a lui si rinnovò, mostrandogli il prezioso gioiello che racchiudeva.

“Benvenuto, mio amato.”

Non riuscì a provare l’imbarazzo che gli appariva opportuno, dopo diecimila anni di silenzio. L’aveva osservato troppo spesso e troppo da vicino per potersene sentire davvero estraneo.

L’elfo non era impaurito. Lo fissò, a malapena sorpreso, socchiudendo le labbra.

Un sussurro.

“Tu.”

Ma il parlare con lui, ah! Quanto gli era mancato! Fissare i suoi occhi, sapendo di essere insieme. Dei! Quegli occhi, che aveva visto schiarirsi nei secoli dei secoli, diventare sempre più sinceri fino a negare la menzogna perfino a se stessi. Ed eppure, tremò impercettibilmente Estel, ed eppure lui non era cambiato. Era sempre il solito volto, il solito corpo, la solita mente vivace, il solito animo poetico e cinico a un tempo.

“È passato molto tempo.”

“Diecimilacinquantatrè anni, otto mesi e due settimane,” lo sfidò l’altro. “Che cos’hai fatto?”

“Sono stato bene.”

Il silenzio indicò che non era sufficiente.

“Ho atteso. Mio figlio, ed il figlio di mio figlio. Ed i suoi figli, ed i loro bambini. Ed i loro figli, ed i figli di quei figli, ed i loro figli ancora. Tutti coloro che sono mai stati concepiti dal mio sangue sono giunti a me. Anche coloro che non sono arrivati fino alla nascita.” E molti altri e sarebbero arrivati quel giorno, rammentò. La sua progenie, in diecimila anni, aveva raggiunto cifre ragguardevoli. “Sono davvero molti, lo sai.”

Un broncio che ricordava ancora fin troppo bene fece la sua comparsa, accompagnato dal sorriso del riconoscimento.

“Non mi hai pensato neanche un po’?”

Estel scosse la testa, desiderando ridere ,correre, saltare, travolto da una pace che non provava da diverso tempo.

“Ti ho osservato ogni singolo giorno della tua vita. Per diecimila lunghi anni sono stato un’ombra nell’angolo della tua visuale, dove tu non avresti potuto individuarmi.”

Tacque.

“Molte priorità sono cambiate. Ma, come sapevamo entrambi, ancora desidero condividere con te almeno parte di questa eternità. Ci saranno numerose persone da reincontrare anche per te, lo sai, non è vero?”

L’altro annuì lentamente. Forse comprendeva, forse aveva iniziato a farsi un’idea di cosa il Luogo rappresentasse. Fece un passo in avanti, e sorrise.

“Ti ringrazio per essere venuto ad accogliermi.”

La familiarità di due vecchi amici era intatta, dopo dieci millenni. Estel poteva sentirla, forte e sicura com’era sempre stata, più dell’amore, più dell’attrazione. La scelta di due persone che avevano promesso di condividere tutto, prima ed in caso dopo la morte. E se il loro mondo si era ampliato di diecimila anni di nuove conoscenze, l’uno per l’altro avrebbero sempre avuto riguardo. Nel Luogo, avrebbero avuto tempo. Magari tutta un’Eternità.

 

 

Estel si avvicinò. E sul suo volto si avvicendarono Estel, Grampasso, Aragorn ed Elessar, e l’anziano Re che era stato sul letto di morte. Ed i suoi volti si mescolarono, forgiando un eterno composto, quello che avrebbe affrontato il per sempre accettando di cambiare nuovamente.

Sollevò dita leggere fino al viso dell’altro, poi le sue mani si fecero esigenti, catturandolo, mentre dopo diecimila interminabili anni le loro labbra tornavano finalmente ad incontrarsi, poggiandosi le une sulle altre. Respirarono, l’uno dalla bocca dell’altro, le mani di Estel sul volto dell’elfo, le mani dell’elfo serrate sui polsi di Estel, come ad intimare

Non osare lasciarmi di nuovo.

 

E rimasero immobili, avvolti nel Nulla, nell’inspiegabilità del Luogo.

Ma.

Mentre il respiro di Estel fluiva dentro di lui, narrandogli antiche canzoni di epoche scomparse, richiamando tutti gli amici perduti che si sarebbero finalmente incontrati, sussurrando eternità di silenzi – risvegliando sentimenti sopiti da un tempo immemorabile –

 

Legolas comprese che il mondo era esistito pregustando la fine.

 

 

§

 

 

Fu ancora prima di potersi voltare che il Consigliere seppe di non essere solo.

“Ben arrivato.”

Chiuse gli occhi, concedendosi il lusso di un sorriso segreto. Lo aveva aspettato, domandandosi con un po’ di malizia se si sarebbe rivelato tanto scaltro quant’era nell’organizzare i suoi arditi progetti guerrieri.

“Vedo che non hai perso la tua abilità, Capitano.”

Una sincera risata si sparse quietamente nel Nulla, sfoggiando l’orgoglio di chi aveva sempre affrontato le sfide di petto e raramente ne era uscito sconfitto.

“Non sono il tipo da farsi abbattere da un’improvvisa morte violenta.”

Il volto di Erestor si fece più scuro, mentre si voltava a metà fra preoccupazione e rimprovero.

“Non dovresti parlare così della tua…”

Ma una gran massa di riccioli biondi erano sotto le sue mani, poi, mentre Glorfindel lo sollevava in un entusiastico abbraccio, senza trattenersi dal farlo girare, come un bambino.

“Erestor, Erestor. Il mio Pensatore.”

Ed il Consigliere tentò di soffocare con un broncio studiato il sorriso, ma vi rinunciò. Depose le labbra sulla fronte dell’altro, odorando il profumo dei suoi lunghi capelli.

Secoli, secoli. Come ci era riuscito?

La forza solare di Glorfindel, quel Glorfindel con cui aveva condiviso giornate e giornate, con cui aveva vagato perfino nella realtà degli uomini, fino dieci secoli prima, quando aveva deciso di partire, da solo. Uno dei suoi compagni, uno dei tanti, con cui aveva però avuto un’intesa speciale.

Era orgoglioso di essere il primo che il biondo Capitano aveva cercato, nell’Oltremondo. 

E, se amore era una grossa parola, amicizia ed affetto erano una base che era sempre esistita, fra loro. Cementata da millenni e millenni.

Glorfindel lo strinse, vezzeggiandolo come il più splendido principe nel finale di una fiaba felice. Ed Erestor si lasciò stringere, felice di avere già ritrovato il Primo. Ce ne sarebbero stati altri.

Perché non era un finale, puntualizzò il Consigliere a se stesso, chinandosi per baciare quelle labbra in attesa, in attesa da quasi mille anni.

 

La fine di tutte le cose segnava l’inizio di un’eternità per ognuno di loro.