.|. Un Velo per gli Occhi .|.

Prologo

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Tutto ciò che ho imparato nella vita, l’ho imparato osservando.

Ho iniziato a dare un nome alle stagioni semplicemente guardandole, ho dato un nome ai giorni che scorrono mentre li vedevo passare, ho chiamato con un linguaggio speciale le emozioni degli uomini, le espressioni dei loro volti, la profondità dei loro occhi.

Ho ascoltato a lungo. Ogni cosa. Non ho mai interrotto nessun dialogo, perché tutto… essere umano o semplice foresta ha qualcosa da insegnarti.

Ho sempre parlato poco.

I miei occhi parlavano per me.

E con essi… ho conosciuto il mondo.

 

Fin da piccolo, ho lasciato cadere un velo su di essi, un velo trasparente, attraverso il quale io potevo vedere, ma non potevo essere visto, io potevo conoscere, senza essere scrutato e dunque senza dover cambiare per i capricci di qualcuno.

Un’ ombra nella notte… molto spesso ho considerato così la mia persona, una vita evanescente la mia, una vita in fuga, secondo molti, ma non per me.
Ho filtrato tutto attraverso quel velo, ho filtrato le mie sensazioni di bambino, i volti della gente che incontravo, ed ora che sono adulto e vago per queste terre alla ricerca di qualcosa, continuo a filtrare senza mai scoprirmi.

Una volta questa era la mia forza.

Da un po’ di tempo mi sto chiedendo se questa, in realtà, non sia paura.

Paura di essere rifiutato, paura di essere scoperto a fare qualcosa di sbagliato… come in quelle sere, quando tutto il palazzo dormiva ed io uscivo dalla mia stanza nel più assoluto silenzio, sapendo quanto l’udito di quelle creature fosse sensibile, e mi avviavo verso quella porta alla fine del corridoio, dietro alla quale… c’era il mio sogno.

Lui…

 

Come può un bambino comprendere quell’arcana magia dettata dal Caso che, a volte, coglie la vita trasformandola? Qualcosa di troppo grande. Come può vedere il suo mondo di fantasia fondersi a quello della realtà in modo così perfetto e così armonioso senza rimanerne sconvolto?
Come può sentire la sua immaginazione e i suoi sogni così palpabilmente vicini e non riuscire a trovare il coraggio di coglierli? Di toccarli?

Il tempo non era ancora giunto. Il tempo non era ancora maturo.
Potevo guardare, ma non potevo pretendere.

Così, ogni notte, alla stessa ora, sapendo che lui si trovava lì, aprivo quella porta di legno… mi bastava uno spiraglio, mi bastava intravederlo… e quando lo vedevo, il mio cuore, senza una ragione precisa iniziava a battere con forza, impetuoso, e i miei sensi, dei quali allora non ero ancora consapevole, mi avvolgevano tutto e mi spingevano a desiderare di abbandonare al più presto quell’infanzia, per poter cogliere quel frutto proibito che non mi era permesso avere.

 

In quegli istanti il velo calava sui miei occhi.

Mi nascondevo dietro di esso e attraverso esso… vedevo tutto.

Vedevo la vasca di legno, nella quale egli si trovava in piedi, vedevo le goccioline d’acqua scorrere sulla sua pelle morbida e chiara, vedevo i suoi gesti, lenti, cadenzati, quando si chinava un poco per immergere il panno nell’acqua per poi rialzarsi e passarselo sul corpo, su ogni parte del suo corpo.

Il mio sguardo catturava il suo profilo, mi piaceva osservare le piccole gocce scivolargli rapide lungo la mano e rimanere per qualche istante attaccate alla punta delle sue dita, per poi staccarsi da esse e cadere a terra.

Adoravo il ripetersi dei suoi gesti. I miei occhi correvano lungo il suo corpo, non mi offendeva la sua nudità, né comprendevo le pulsioni che iniziavano a crescere in me, quel calore, quel sudore, quella strana ansia che non mi faceva star fermo. Scambiavo tutto questo con la paura di essere scoperto, perché dentro di me capivo che ciò che stavo immaginando, ciò che stavo sognando era qualcosa di segreto, qualcosa che non avrei mai dovuto confessare a nessuno.
Mi piaceva quando sollevava un braccio e se lo portava sulla testa… quello era il momento migliore… chiudeva gli occhi, sorrideva appena, strizzava il panno e lasciava che la dolcezza di quell’acqua scorresse tra i suoi lunghi capelli d’oro.

Io trattenevo il respiro e mi aggrappavo alla porta, spingendola un poco in avanti per poter vedere meglio.

 

Alle volte quando la luna era alta e piena nel cielo, tutta la sua figura risplendeva d’argento… la sua pelle… i suoi occhi… i suoi capelli divenivano chiari più che mai, quasi bianchi.
Così, immerso in quell’acqua argentata, rassomigliava ad una statua di tempi antichi, che continuava a vivere nella sua sempiterna bellezza.

Bellezza, la parola adatta, ma non sufficiente per descriverlo.
La sua bellezza mi aveva ammaliato fin dalla prima volta che avevo aperto quella porta, un notte, per caso, attirato dall’odore degli oli profumati, che gli Elfi erano soliti usare per preparare le vasche per il bagno.

Lui era lì, come se mi stesse aspettando da sempre, ignaro di questo… lui era lì nella sua acqua d’argento  con i suoi movimenti lenti e delicati a bagnare il proprio corpo… lui forse era sempre stato lì, per farmi sognare, come se il suo inconsapevole compito fosse stato quello di segnare l’inizio del mio essere uomo.

 

Trascorsi notti ad osservarlo.

Eppure, soltanto il giorno in cui lasciai Gran Burrone conobbi il suo nome.

Il suo nome era Legolas.