.|. Un Velo per gli Occhi .|.
1. L'Arrivo ~ L’alba era appena sorta su Minas Tirith. I raggi tenui di un sole ancora pallido, meraviglioso nella sua fragilità, s’imponevano gradatamente su ogni cosa potessero raggiungere… solleticavano i tetti delle case, s’infrangevano, ridipingendoli, sulle pietre di marmo bianco, avvolgevano quella mistica città tra le rocce con il primo tepore del giorno e con colori timidi ed accennati. Piacevoli. Freschi. Minas Tirith dormiva ancora. Immersa in un silenzio di quiete irreale sembrava osservare, taciturna, l’immensa landa brulla che si estendeva dinanzi alle sue porte… uno sguardo tuttavia ricambiato… pietre che guardavano orizzonti, orizzonti che guardavano a loro volta abitazioni sonnolente. Minas Tirith era la città più prospera e più bella di tutti i regni della Terra di Mezzo, la vita all’interno delle sue mura si svolgeva attiva e ritmata da un entusiasmo quotidiano difficile da trovare in altri luoghi, la gente aveva un sorriso per tutti, la solidarietà della maggior parte persone dominava sugli interessi egoistici di pochi, nessuno diffidava dagli stranieri o dai viaggiatori provenienti da terre lontane, al contrario, essi venivano accolti con generosità dagli abitanti, e durante quelle occasioni la città veniva addobbata a festa. Forse perché nessuno aveva nulla da perdere. Forse perché tutti erano pronti ad accogliere, pronti ad amare. Forse perché… a Minas Tirith regnava la pace. Sembrava essere un mondo sospeso, sembrava possedere un qualcosa di speciale impossibile da trovare in altri luoghi: né nella ridente Contea, né negli evanescenti Regni Elfici, né nelle altre terre degli Uomini, perché qui, in questa piccola città in equilibrio tra le rocce, qualcosa, tempo prima, si era fuso, due razze apparentemente dissimili ma vicine, si erano unite rendendo speciale quell’unione e avvicinando i propri mondi l’uno all’altro. Minas Tirith apparteneva agli Uomini ma era anche terra degli Elfi, così come Imladris, Lothlorien e Bosco Atro ora erano legati allo stesso sangue dei Mortali, un legame impossibile da spezzare. Aragorn, il re di questa città, il sovrano di Gondor, aveva preso in sposa la donna, la cui bellezza era cantata in ogni dove nella Terra di Mezzo, la figlia di Elrond Mezzelfo, Arwen Undomiel, che in lingua elfica significa ‘Stella del Vespro’. Una stella, ecco cos’era. Come spesso ripeteva lo stesso re dinanzi al suo popolo… “E’ lei che mi aiuta nella costruzione di questo regno!”
L’amava
ed era la sua luce. Insieme erano riusciti a costruire una terra di
pace, una minaccia palpabile, un nemico evidente per le terre confinanti
di Mordor, perché la forza e la purezza che sprigionavano le mura di
Minas Tirith erano capaci di uccidere qualsiasi oscurità, a tenerla
lontana, a difendere la propria gente. Nulla sembrava poter cambiare lo stato di quelle cose. Eppure, quella mattina… tra i consueti colori dell’alba e il risveglio degli abitanti, qualcosa di strano e di nuovo aveva preso ad invadere l’aria…
Aragorn si sollevò stancamente dal letto. Non era riuscito a chiudere occhio quella notte. Sogni confusi e immagini della sua vita passata gli avevano tormentato il sonno per tutto il tempo. Aveva sognato di vagare ancora per le Terre Selvagge del Nord, ed era faticoso quel vagare, le foreste che attraversava parevano essere talmente intricate da non riuscire a distinguere nulla, e colme di pericoli… sentiva sguardi sulla pelle, percepiva occhi attenti e scrutatori da ogni angolo, presenze dietro ad ogni albero, delle quali non riusciva ad immaginarne i volti.
Di tanto
in tanto, mentre avanzava, alla natura si sostituivano le sagome dei
suoi vecchi compagni di viaggio, raminghi del Nord, gente fedele ma
violenta con cui aveva trascorso la maggior parte dei suoi anni durante
la giovinezza. Si voltò lentamente alla sua destra, con una mano raccolse un lembo del lenzuolo e lo tirò su, fino a coprire del tutto le spalle nude della sua sposa. Sfiorò con la punta delle dita il collo e la nuca, e al contatto con quella pelle fresca e incontaminata sorrise dolcemente. Arwen era la cosa più bella che gli fosse mai capitata. Prima era stata come una sorella per lui, poi un’amica, infine la ragione stessa per tornare a casa quando vagava per terre ignote, quando sentiva il bisogno di sfuggire a se stesso. La ragione stessa per tornare a casa… Aggrottò la fronte. Difficilmente, sebbene lo dimostrasse con molti gesti, riusciva ad ammettere a se stesso, o quanto meno a dirlo ad alta voce, che lei era la donna con cui aveva deciso di vivere tutta la sua vita. La donna che per lui aveva rinunciato a tutto, consapevole del destino che l’avrebbe attesa, la donna che aveva rifiutato il dono dell’immortalità per seguire la via dei Mortali, ed ogni volta, quando i suoi occhi si posavano sul gioiello che lei gli aveva donato, o quando, portandosi una mano al collo, ne avvertiva le punte fredde e taglienti, il suo cuore sembrava improvvisamente appesantirsi da qualcosa d’inspiegabile. “Non avrei mai voluto che questo accadesse…” sussurrò, sfiorandole i capelli neri con un pollice. Molte volte aveva ripetuto quella frase, provando una senso di colpa al pensiero della scelta di Arwen, ma mai si era chiesto perché pronunciasse quelle parole. Finalmente si alzò dal letto, ed indossata rapidamente una vestaglia rossa, si avviò verso il balcone. L’aria fresca del mattino sembrò rigenerarlo. Respirò profondamente, lasciando che quella limpida freschezza contaminasse anche la sua stessa mente e portasse via pensieri fastidiosi. Guardò dall’alto il suo regno, guardò l’immensa distesa delle terre dinanzi a sé, osservò la punta del Monte Fato… soltanto fumo e cenere uscivano da quel cono scuro, e sorrise. Questo era tutto ciò per cui aveva combattuto, per cui era tornato… erano queste le cose che amava e che gli appartenevano, era stato il giorno in cui aveva messo nuovamente piede a Minas Tirith che aveva ricominciato finalmente a vedere , che era stato capace di togliere quel velo dai suoi occhi. Almeno così credeva. Eppure quella mattina, impregnata di una dolcezza irreale e sconosciuta sembrò, assieme a piccole folate di vento, portargli via quelle certezze, scardinargli quell’equilibrio che a fatica aveva tentato di costruire. Più i suoi occhi si fissavano sugli orizzonti lontani, più aumentava in lui la percezione che gli mancasse qualcosa, la sensazione che non avesse fatto abbastanza, che non avesse seguito il suo sogno… la strada per cui era nato.
“Sei già in piedi…?” Aragorn non fece in tempo a voltarsi, che due braccia nude gli cinsero dolcemente la vita. Rimase immobile, intrappolato in quell’abbraccio. Chinò un poco la testa e alla vista di quelle mani intrecciate attorno a sé, come se volessero trattenerlo, accennò un sorriso. “Non riuscivo più a dormire…” “L’ho sentito…” soggiunse lei “Ti ho sentito stanotte, eri inquieto…” Aragorn sospirò. “Cosa ti tormenta…?”
“Non lo
so… sogni… ricordi forse…”
“Non
lasciarti spaventare dai fantasmi del passato… non possono più tornare,
non appartengono più alla tua vita, ormai…” “Non sono i fantasmi del passato a spaventarmi, non sono questi che mi spaventano…” pensò Aragorn tra sé e sé.
“Ti
dispiace…?” sussurrò, voltandosi poi verso di lei, liberandosi da quella
presa “Desidero fare quattro passi nei giardini…”
L’uomo lasciò il balcone e dopo essere uscito dal palazzo si ritrovò finalmente a camminare tra gli alberi… alberi molto diversi da quelli che aveva incontrato durante la sua vita da ramingo… alberi splendidi e perfetti, non rovinati dalle intemperie o dalla cattiveria di qualcuno. Alberi che non avevano mai sofferto. Li osservò per un istante, sfiorò con le dita la loro corteccia, ma non riuscì a provare quel brivido di piacere che solitamente la natura gli dava. Sembravano essere creature indifferenti, statiche, quasi arroganti nella loro bellezza. Ma Aragorn non disse nulla, non fece nulla come mai aveva fatto nulla per cambiarli o per cambiare lo stato di molte cose, forse per troppo rispetto o forse… per codardia. “Non sono i fantasmi del passato a spaventarmi…” ripeté ancora. E nello stesso istante, immagini dei suoi interminabili viaggi, o la risata di un amico, o il ricordo di un pericolo affrontato, di una cena a base di carne cruda tra terre spoglie e pericoli gli ritornarono alla mente. Sorrise con una strana malinconia sul volto.
“Eppure
allora scappavo da tutto…” Aragorn si bloccò contro un tronco. “Ancora oggi… scappo da tutto!” Fu una consapevolezza improvvisa. Dolorosa. Da togliere il fiato. Si voltò all’istante verso il palazzo, verso quelle mura familiari e splendenti, e, come solitamente accade durante gli istanti di cambiamento, non riconobbe più nulla. Tutto gli sembrò lontano. Tutto gli sembrò estraneo. E si disse che tutto ciò che aveva costruito non era stato altro che uno dei suoi modi per impedirsi ancora di guardare. Aragorn amava la sua gente. Amava la sua terra e tutto ciò che aveva creato. Ma in quegli attimi si sentì improvvisamente colto da una sensazione mai provata prima, una sensazione che da sempre aveva rifuggito… quella di essere inesorabilmente legato a qualcosa che non aveva scelto… quella della gabbia dorata. “E tutto questo perché… non sono riuscito a trovare il coraggio…” mormorò, fissando il vuoto dinanzi a sé. Il velo era ricomparso sui suoi occhi. O forse… non era mai caduto.
La notte
scese rapida come rapida era sorta l’alba quel giorno.
“Il re
non desidera essere disturbato!” “Vi prego, non fatemelo ripetere, il re non…”
“Va
tutto bene, Eyran, stavo rientrando a palazzo proprio ora!” intervenì
Aragorn, giungendo alle spalle della guardia.
Entrambi
rimasero immobili e in attesa per un lungo momento. “Desideravate parlarmi?” disse d’un tratto, rompendo quel silenzio. La figura incappucciata annuì lievemente con la testa, ma non rispose nulla. “Chi siete?” domandò ancora Aragorn. Fu allora che l’uomo intravide due mani delicate dalla carnagione lattea sollevarsi fino alla testa dello sconosciuto, fino a raggiungere i lembi del cappuccio e lasciarlo cadere sulle spalle. “Dovresti ricordarti di me, Estel…” mormorò improvvisamente lo sconosciuto.
Aragorn
rimase per un istante immobile, senza fiato a fissare quella creatura,
che altro non poteva essere che un elfo. Il suo respiro sembrava essersi
interrotto, i suoi occhi erano fissi in quelli dell’altro, cercando di
catturare allo stesso tempo la bellezza e la memoria di quel volto. “Ci siamo conosciuti molto tempo fa…” prese a dire d’un tratto l’elfo “Ma non credo che tu possa ricordarlo… eri soltanto un bambino e non abbiamo mai avuto occasione di parlare…” improvvisamente sorrise, come per anticipare delle belle parole e quel sorriso sembrò illuminare la notte buia “Non immaginavo certo che quel bambino sarebbe diventato il futuro re di Gondor, invece, a quanto vedo, hai fatto la scelta giusta, Estel…” “Perché mi chiami con questo nome…?” sussurrò Aragorn, riprendendosi lentamente da quell’estatica contemplazione. “Era il nome con cui ti chiamava tuo padre!” “Mio padre?” domandò l’uomo, aggrottando la fronte “Hai conosciuto mio padre? Arathorn…?” L’elfo lo guardò in modo più profondo.
“Elrond
di Imladris!” “Tuttavia…” riprese l’elfo, cercando di colmare quegli attimi di silenzio “sono qui per la festa che hai annunciato, dovrebbe tenersi in questi giorni se non mi sbaglio?” “S..si, certamente, la festa… certo…” balbettò Aragorn, cercando di raccogliere tutto il controllo che gli era rimasto. “Sono stato mandato qui da mio padre, come intermediario per i nostri due Regni. Bosco Atro è l’ultimo regno al quale hai chiesto alleanza, se non erro…” “Bosco Atro?” ripeté l’uomo, risvegliandosi ancora una volta da quel torpore che l’aveva colto “Si, alcuni mesi fa avevo mandato un messaggero nelle vostre terre per rinverdire l’amicizia con vostro padre e chiedere un’alleanza duratura. I tempi per il momento sembrano sereni, ma non c’è giorno in cui io non tenga d’occhi quei confini…” proseguì, indicando con la testa i fumi, apparentemente sopiti del vulcano del Monte Fato. “Sei previdente, e questo mi fa piacere! Sono convinto che mio padre accetterà senza indugi la tua proposta, in fondo, uomini ed elfi, nel regno di Gondor sono uniti già da molto tempo…” Nel sentire quella frase, Aragorn, senza una ragione precisa, non riuscì più a sostenere lo sguardo del suo ospite ed abbassò per un istante la testa, come se fosse stata gravata da un pensiero improvviso. “Si, infatti…” si limitò a rispondere, mentre la sua mente già volava al ricordo del giorno del suo matrimonio con Arwen. Dopodiché, risollevò prontamente lo sguardo. “In ogni caso, avremo tempo per discutere di questi affari, immagino che vorrete trattenervi per diversi giorni e che vorrete godere della mia festa e dell’accoglienza della mia gente, principe…” “Legolas!” soggiunse l’altro. A quel nome gli occhi di Aragorn si spalancarono e il brivido che l’aveva invaso poco prima, lo percorse ancora, questa volta più rapido e più violento. Si guardarono nuovamente, e nuovamente entrambi ebbero l’impressione di conoscersi da sempre. Nello stesso istante, il senso d’incompletezza e di malinconia che aveva pervaso l’animo del re durante tutta la giornata sembrò estinguersi lentamente. “Mi gioverò con estremo piacere della tua accoglienza e di qualsiasi cosa tu voglia mostrarmi, Estel…” sorrise “Se mi è consentito chiamarti così…” Aragorn rispose a quel sorriso chinando la testa in segno d’assenso, e senza capirne la ragione precisa, sentì un senso di dolcezza e di familiarità avviluppargli il cuore. “Sono venuto qui per guardare e per conoscere un popolo di cui ho soltanto sentito parlare e che mi è stato impedito di incontrare per lunghi, lunghissimi anni… non posso che essere felice di ricevere la tua ospitalità!” Il re sorrise a sua volta, senza staccare gli occhi da lui. “Ed io…” gli poggiò una mano sulla schiena per accompagnarlo verso il palazzo “sono ben felice di accordarvela, principe…” L’elfo si voltò di scatto, catturando i suoi occhi con una dolcezza infinita. “Legolas, ti prego… chiamami Legolas!”
Quando l’elfo fu accompagnato nella sua stanza e la porta fu richiusa alle sue spalle, Aragorn rimase per qualche istante immobile, appoggiato contro di essa, le dita serrate sul pomo della maniglia, il respiro veloce ed affannoso, le gambe tremanti, lo sguardo rivolto al vuoto. La sua mente aveva iniziato a ricordare. E gli sforzi per schiacciare ancora una volta quei pensieri lontani nel tempo sembrarono del tutto inutili. Ma non doveva. Non poteva ricordare. Doveva costringersi, ancora una volta, a cancellare o quanto meno nascondere quelle immagini del suo passato, doveva immediatamente rinominarle, chiamarle “pensieri di un bambino” o “sciocchezze di gioventù”. Doveva poi stringersi nelle spalle e riderci su, pensare al suo presente, alla nuova persona che era, a ciò che possedeva. Era cambiato. Lui era cambiato da quegli anni. Tutto era cambiato. “Ne sei proprio sicuro?” sembrò sussurrare una vocina, insinuandosi tra i suoi capelli e raggiungendo le sue orecchie. “Non può essere! Non può continuare così!” esclamò d’un tratto, staccandosi di colpo da quella porta e avviandosi a grandi falcate per il lungo corridoio, ansioso di raggiungere la sua stanza, vedere la sua sposa, baciarla, abbracciarla, fare l’amore con lei. Oppure tornare nei giardini, ascoltare la notte, respirare aria fresca e rigenerante. Fare qualsiasi cosa pur di ricacciare indietro quei pensieri e lasciare che il giorno dopo Legolas, il principe Legolas, apparisse ai suoi occhi come una persona qualunque, un normale ospite, come tutti quelli che, fino ad allora, avevano raggiunto Minas Tirith.
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