.|. Sei La Mia Speranza  .|.

2. L'Uomo dagli Occhi Tristi

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Sentiva le guance calde, la pelle sfiorata da una corrente fresca.

Incoraggiato da quella piacevole sensazione, sollevò le palpebre. La cosa gli costò una notevole fatica, ma anche se ancora intontito dal sonno riuscì a mettersi seduto su quello che, a tutti gli effetti, sembrava essere un letto.

Osservò le lenzuola bianche, che profumavano di pulito. Impreziosite da un orlo cremisi e argentato gli coprivano le gambe, ed al tatto erano morbide, lisce come seta. Anzi, molto probabilmente lo erano.

Si chiede stupito come mai non si trovasse in una cella buia o, peggio, incatenato al muro di una prigione. Non aveva scordato ciò che era accaduto quella notte. Sentiva la punta della spada comparsa nell’oscurità sfiorargli ancora la pelle nuda del collo, la forza di quella spinta buttarlo a terra…

Deglutì, e nel ripensare al colpo che aveva preso picchiando la testa contro Nimloth il dolore si riaccese. Si toccò il capo stringendo i denti, ma sempre più sorpreso si accorse che era stato fasciato.

Non riusciva a capire… perché tutti quei trattamenti di favore?

Fece qualche passo per la stanza. Proprio come aveva intuito sentendo quella piacevole corrente al suo risveglio, a pochi metri da lui una grande vetrata semiaperta si affacciava su un giardino pieno di alberi e coperto da aiuole di fiori diversi, che a grandi macchie colorate spiccavano nel verde reso brillante dal sole.

Riuscì a guardare sotto di sé per qualche secondo, ma poi socchiuse le palpebre, infastidito. La luce intensa di quella mattina era ancora troppo forte per i suoi occhi chiari rimasti immersi nell’oscurità un’intera notte. Perlomeno, adesso, era praticamente certo di trovarsi fra le mura del castello misterioso dell’isola. Vista l’altezza, non potevano esserci dubbi.

Da Valánen, infatti, non aveva notato su Ambalmíre la presenza di un’altra costruzione ugualmente imponente, ed oltretutto le pareti della stanza in cui era rinchiuso erano di scura pietra grezza.

Per il resto la camera era piuttosto sobria, anche se elegante. In un angolo faceva la sua bella figura un piccolo, delizioso camino, e dalla parte opposta, appena di fianco ad un’altra vetrata decorata, su di un mobile all’apparenza molto antico erano posati una bacinella con dell’acqua, dei teli ripiegati e un grande specchio argentato.

Vi si avvicinò. Lo inclinò in modo da potersi riflettere, e rimase a fissarsi per qualche istante.

I lunghi capelli biondi gli ricadevano sulle spalle come sottili fili dorati, ed il viso, pallido ma bellissimo, era illuminato da due profondi occhi blu. Erano stanchi, ma non avevano perso il loro magnetismo. Le sopracciglia disegnavano due archi perfetti, e la fronte alta era ricoperta dalla benda bianca della fasciatura. Addosso aveva i suoi abiti da viaggio, ovvero una casacca verde e dei pantaloni poco più scuri.

Recuperò gli stivali abbandonati ai piedi del letto, ma non trovò né la borsa, né il mantello. Chi l’aveva aggredito, e forse anche inspiegabilmente soccorso, glieli aveva senz’altro portati via.

“Uff… devo trovare il modo di andarmene…”, disse quindi, dirigendosi verso il portone chiuso della stanza. Fece per tirare la maniglia, ma al di là dello spessore di legno dei passi veloci si stavano inequivocabilmente avvicinando.

Il ragazzo si voltò, allarmato. Doveva procurarsi un’arma. Un bastone, qualsiasi cosa. Non gli andava l’idea di essere minacciato una seconda volta, ed anche se gli erano state offerte delle coperte di seta al posto di una serie di sbarre qualcosa gli diceva che, in ogni caso, non conveniva fidarsi.

Si avvicinò al camino. A lato, una serie di attrezzi erano appesi a dei ganci fissati alla parete, ed uno di essi sembrava proprio fare al caso suo. Sottile ma in ferro e dalla punta arcuata, era più di quanto sperasse trovare.

Tornò accanto alla porta, ed aspettò. Quando finalmente si aprì ed un’alta figura fece un passo nella stanza, abbassò l’asta con tutta la forza che aveva. Ma le cose non andarono come aveva sperato, e l’uomo gli bloccò il braccio senza difficoltà, costringendolo a lasciare la presa.

Mentre l’arma cadeva con un rumore metallico contro il pavimento in pietra, l’individuo lo spinse contro la parete per poi portarlo con la schiena a terra. Le mani dell’uomo gli serrarono le braccia in una morsa ferrea, ed ogni suo disperato tentativo di liberarsi risultò inutile.

Era di sicuro lui. L’aggressore di quella notte.

“La… lasciami…”, mormorò allora il giovane, fissando l’altro con occhi pieni di collera. Questi, però, inginocchiato sopra di lui con le gambe strette contro i suoi fianchi per impedirgli ogni movimento, non disse nulla. La bocca ben disegnata, contornata da una leggera barba incolta, si allargò solo dopo qualche istante in un piccolo, sarcastico sorriso.

“Perché dovrei? Mi pare avessi tutta l’intenzione di spaccarmi la testa…”.

“Ah, si?”, ribatté allora il ragazzo, sempre più irritato. “Forse perché potrei benissimo pensare che tu sia venuto qui a spaccarla a me, per la seconda volta”.

L’uomo scosse il capo.

“Mhh, non sono un tipo violento”.

“Ma davvero?”.

Continuò a fissare il suo ironico interlocutore, ma questi non sembrava per nulla intenzionato a lasciarlo andare. I suoi trasparenti occhi azzurri lo stavano invece guardando a sua volta, con la differenza che però non c’era né rabbia né risentimento in quello sguardo. Anzi, possedeva un qualcosa di carezzevole, quasi impossibile da definire chiaramente, dolce e lontano come una melodia amata e dispersa dal vento di un tiepido pomeriggio estivo.

Quelle iridi chiare parevano essere fatte della stessa sostanza delle acque del lago, ma la malinconia struggente del loro mormorio non era nulla paragonata a quella che intravide, in quel momento, negli occhi dello sconosciuto.

Occhi tristi. Bellissimi, e tristi.

Allentò la presa sui suoi polsi, senza sapere bene cosa l’avesse davvero spinto a farlo.

“Ok. Se mi lasci prometto che non ti romperò la testa, ma a patto che anche tu mi assicuri che non ci riproverai con me”. Lo guardò speranzoso. “Che ne dici?”.

L’uomo stette un attimo in silenzio, poi si rialzò improvvisamente.

“Dico che non mi piacciono i ficcanaso”. Fece qualche passo per la stanza, avvicinandosi alle finestre. Diede un’occhiata fuori, quindi si girò di nuovo.

“Ma non son stato io a darti un colpo in testa, mi pare. Hai fatto tutto da solo”.

A quelle parole, il ragazzo si risollevò di scatto. Roteò gli occhi, esasperato. Malinconico ma decisamente odioso…

“Se qualcuno non mi avesse ben poco gentilmente buttato a terra, forse non avrei sbattuto…”, riprese pacato, cercando di contenersi. “Devo dire che sei un tipo pieno di contraddizioni. Dici che non sei violento e mi aggredisci per ben due volte… ed anche se sono tuo prigioniero mi medichi facendomi dormire in una stanza come questa…”.

L’uomo sembrò studiarlo, socchiudendo gli occhi.

“E chi ti ha detto che sei mio prigioniero?”.

Lui incrociò le braccia.

“Perché, non lo sono?”.

“Non l’ho ancora deciso”.

Il giovane si limitò a spostare lo sguardo a lato, e scuotendo la testa andò a sedersi sul letto.

Certo che era proprio strano. Prima lo minaccia e poi non sa dirgli se è suo prigioniero o no?

Ripensò alle ultime parole che aveva sentito pronunciare dall’uomo, quella notte, prima di cadere svenuto.

Non mi aspettavo una visita dopo tanto tempo.

Sei venuto a controllare che faccia il bravo?

Fissò il pavimento freddo, poi i propri piedi.

C’era qualcosa che non andava. Gli aveva appena detto che non gli piacevano i ficcanaso, ma quando l’aveva trovato davanti a Nimloth gli aveva dato l’impressione che l’avesse confuso con qualcuno. Successivamente, guardandolo meglio, si era ovviamente reso conto dello sbaglio ma prima, discutendo dell’aggressione, non aveva più accennato alla cosa. Forse non gli andava di chiarire l’equivoco, certo. O forse aveva sperato che lui non se ne ricordasse, per evitare di parlare di qualcosa che non voleva fargli sapere.

E poi, se l’aveva scambiato con un’altra persona, doveva assomigliargli davvero molto…

Girò la testa verso l’uomo, ancora fermo davanti ai vetri. Indossava una tunica blu leggermente sbottonata sul davanti e sopra una giubba che, sugli stessi toni, lo copriva fino a metà coscia. I lacci di corda, slacciati, pendevano disordinatamente sulla stoffa ormai logora, ed i pantaloni aderenti erano interrotti al ginocchio da degli stivali alti e comodi. Sotto gli ondulati capelli castani, infine, un lungo mantello nero lo faceva apparire ancora più alto di quello che già era.

Il profilo del volto era fiero, elegante. Le ciocche scure, che gli scendevano lungo gli zigomi pronunciati fin sulle spalle, facevano risaltare le iridi azzurre e limpide che fino a poco prima si era ritrovato a contemplare, rapito.

Non aveva mai visto una persona così. Enigmatica, chiusa, ma stranamente rassicurante. E di una bellezza allo stesso tempo regale e selvaggia, così evidente nei suoi lineamenti nobili ma decisi.

Si chiese se fosse il caso di chiedergli spiegazioni sulle frasi misteriose di quella notte, ma proprio in quel momento qualcuno spalancò la porta della stanza, facendoli voltare entrambi.

“Scu… scusaci…”.

Trafelati da una probabile corsa, due uomini alti poco più di un metro erano appoggiati allo stipite di legno. Piccoli, dai visi più simili a quelli di un bambino che di un adulto si passarono le mani nei folti capelli arruffati, guardandosi prima tra loro e poi volgendo gli occhi sul padrone di casa.

Lui alzò lo sguardo, rassegnato, ma prima che potesse parlare i due continuarono.

“Lo so che ci avevi detto di andare a controllare se il ragazzo si era svegliato, ma… ecco, è che... che stavamo preparando il pranzo in cucina!”, esclamò quello a sinistra, muovendo freneticamente le mani in cerca di parole che non gli venivano. Magro ed esile, aveva dei lineamenti un po’ affilati, le labbra sottili e gli occhi piccoli e vivaci. Proprio come l’amico, le corte gambe gli terminavano in due grandi piedi ricoperti da una leggera peluria che, scalzi, aderivano al pavimento gelido della stanza come se fosse la cosa più normale del mondo.

“Insomma… stavamo assaggiando il sugo e… poi siamo usciti a cercare le erbe che mancavano…”, continuò, incerto. Fissò il compagno in cerca di aiuto e quello, leggermente più robusto e con una bocca che si piegava sempre in una buffa espressione, annuì energicamente.

“Sisi, verissimo!! E poi il fuoco nel forno non si accendeva, e…“.

“… e la porta della dispensa si era bloccata…”.

“Pipino, Merry, basta così”.

L’uomo fece cenno loro di smettere, e i due si zittirono immediatamente. Puntarono gli occhi a terra, imbarazzati.

“Le vostre scuse son sempre più penose…”. Scosse la testa con un sospiro. “… ma comunque, per vostra fortuna sono arrivato io. La prossima volta cercate di ricordarvi delle cose che vi chiedo di fare…”.

Pipino e Merry rialzarono la testa, stupiti dal tono calmo e pacato del loro padrone. La maggior parte delle volte non si preoccupava nemmeno di commentare i loro ritardi o dimenticanze, limitandosi ad andarsene sbattendo porte, oppure fissandoli in gelido silenzio.

I due si scambiarono un’occhiata, ma quando finalmente si voltarono per salutare l’ospite ancora seduto sul letto, i loro visi assunsero un’espressione indefinibile. Il ragazzo, invece, sin da quando erano entrati non aveva smesso di fissarli un attimo. Inoltre, sembrava essere diventato ancora più pallido del solito…

“Ma… ma… ”. Balbettando incredulo, Pipino alzò un braccio verso di lui, imitato da Merry. L’altro, però, si sollevò d’improvviso dal materasso, prima che il piccolo uomo potesse proseguire.

“E quindi cosa dovrei fare?”, domandò il giovane con aria scocciata, rivolgendosi all’uomo che, nel tentativo di capire cosa stesse provando a dire Pipino, stava ancora fissando i due servitori. “Considerarmi un ospite?”.

“… Cosa?”.

“Oppure devo rimanere chiuso qui dentro controllato da questi due?”.

Il ragazzo dai lunghi capelli biondi si mise le mani sui fianchi, in attesa.

Il suo interlocutore, invece, restò a guardarlo per un po’. Abbassò gli occhi azzurri sulle pietre del pavimento ed infine, lentamente, si incamminò verso la porta.

“No, sei libero di andare dove vuoi. Non ti tratterrò”.

Non aggiunse nient’altro, e dopo che Merry e Pipino si furono scostati per farlo passare appoggiò le dita sulla maniglia del portone. La spinse, ma in quel momento il ragazzo riprese a parlare.

“Volevo solo dirti che…”.

L’uomo si voltò. Il giovane aveva fatto qualche passo in avanti, e con le mani giunte sul ventre lo stava guardando senza ostilità. Un piccolo, timido sorriso gli si allungò sulle labbra.

“… che io… mi chiamo Legolas. Legolas Greenleaf. Come…”. Fece una piccola pausa, provando forse a leggere l’espressione dell’uomo. “… devo chiamare te, invece?”.

L’altro tornò di nuovo con gli occhi sulla porta.

“Aragorn”, mormorò. “Sono Aragorn”.

Uscì, e quando richiuse l’anta il suono echeggiò, amplificato, nella stanza spoglia.

I due piccoli uomini sollevarono, senza parole, gli occhi su Legolas, ma lui non aveva ancora staccato i propri dal punto in cui era appena scomparso l’uomo.

“Aragorn”, ripeté con un sussurro. “Allora… non sei tu, Beren”.

 

***

 

La cucina del castello era un ambiente vasto ed illuminato da una serie di vetrate alte, contornate da intelaiature in bronzo lavorato. Numerosi motivi floreali e astratti si stendevano per tutto il lato occupato dalle finestre, e a Legolas, quando vi entrò, tutto parve fuorché un luogo dove si cucinava.

“Okay, adesso fatemi capire… ” disse, sedendosi ad un lunghissimo tavolo in parte ricoperto di pentole, piatti e stoviglie. “… che diavolo ci fate qui? E’ un po’ insolito vedere degli Hobbit su Ambalmíre… anche se adesso capisco perché negli ultimi anni non vi vedevo più molto spesso in giro”.

Gettò un’occhiata inquisitoria a Merry e Pipino che, dall’altro lato del tavolo, stavano tentando di concentrarsi sul pranzo da preparare. Il primo posò malamente delle patate che aveva tirato fuori da un grande sacco di iuta, facendole rotolare lungo la superficie in legno.

Appoggiò quindi i gomiti al ripiano, giocherellando con le mani. Sapeva che doveva dargli una risposta.

“Ecco… Legolas… è che noi non potremmo… ”, iniziò.

“Dire nulla?”. Il ragazzo biondo sorrise. “Avanti, lo so chi vi ha mandato qui. Voglio solo capire perché”.

Proprio in quel momento Pipino gettò un piccolo urlo, portandosi subito un dito alla bocca. Mentre cercava di fermare il sangue che fuoriusciva dal taglio causato dal coltello con cui stava sminuzzando dell’ insalata, sollevò gli occhi su Legolas.

“Pipino… ”, lo richiamò Merry, scuotendo la testa. “Se non sei capace di usare un coltello in modo logico, lascia fare a me… ”.

Ma l’altro, dopo avergli rivolto un piccolo sguardo offeso, si girò verso il giovane.

“Noi… siamo qui per controllare Nimloth”, mormorò con un filo di voce.

Merry si girò di scatto.

“Ma c’è una volta in cui apri la bocca per dire qualcosa di giusto e non per farle prendere aria?!”, esclamò, fissandolo. “Sei senza speranza!”.

Pipino guardò l’amico, afflitto.

“Ma lui è Legolas… ”.

“Lo so anch’io, ma un ordine è un ordine. Sai cosa ci succede se scopre che l’abbiamo detto a qualcuno?”.

“Ma non capisco… è così importante che nessuno lo sappia?”.

“Lo trovo assurdo anch’io a dire il vero, visto che tutto Valánen sa perfettamente che l’Albero Bianco ha perso la sua luce. Però, adesso che ci penso… ”.

Merry e Pipino si girarono all’unisono verso Legolas, che intuì subito ciò che i due Hobbit stavano pensando.

“Oh… no, no. Lui non sa che sono qui”. Scosse il capo, alzando una mano. “Ma vi prego… non rivelateglielo. Mi ha sempre proibito di visitare Ambalmíre, ma io l’ho fatto solo perché volevo… vedere con i miei occhi ciò che era accaduto a Nimloth. Lo so, è passato tanto tempo… e fino a pochi anni fa, comunque, non avrei mai avuto abbastanza coraggio per riuscire a mettere piede qui. Mi sarei tenuto lontano da questa zona, come ho sempre fatto. Ma ora… son cambiate tante cose. Sono cambiato io”.

Fece una pausa, e sorridendo tristemente puntò gli occhi sulla superficie del tavolo. Iniziò a passare le dita sottili sulle venature ruvide che lo ricoprivano.

“Sapete… darei tutto per riuscire a far rifiorire l’Albero. Per evitare che altra sofferenza si abbatta su delle persone innocenti… “, disse piano. La voce gli tremò leggermente, e i due piccoli uomini si guardarono, dispiaciuti.

Erano a conoscenza delle ferite che Legolas nascondeva nel proprio cuore. Profonde ed incancellabili, l’avevano segnato per moltissimo tempo, anche se lui era sempre stato bravo a mascherare il suo logorante dolore dietro ad una serenità insospettabile. Fortunatamente non aveva mai perso quella voglia irrefrenabile di conoscere e di esplorare che l’aveva sempre contraddistinto, e per tutti quegli anni aveva tentato di dimenticare ogni cosa vagando per le colline situate più a nord. Stando lontano da un luogo, la sua casa, che da quel terribile giorno aveva cominciato a considerare solamente una prigione. Una prigione piena di ricordi, e vuota di speranza.

Merry e Pipino sapevano anche perché desiderava salvare Nimloth. O almeno, lo immaginavano. Ma come non era mai riuscito a fare qualcosa lui, dubitavano che Legolas ce l’avrebbe fatta.

Già, l’Albero. Protettore di vite e sorgente di forza per più di cinque secoli, adesso non era nient’altro che un bellissimo ornamento spoglio per un’isola caduta nell’oblio. Il segreto della sua magia non era mai stato rivelato, e quando la luce delle fronde argentate che lo avevano sempre ricoperto si era improvvisamente spenta, le Ombre avevano potuto invadere il lago senza che nulla intervenisse a frenare la loro sete di sangue.

Tutti quegli anni, vissuti nella paura.

Vissuti nell’impotenza di fronte al male.

“Coraggio, non volevo rattristarvi”.

Legolas si alzò dalla sedia, e dopo aver rivolto un largo sorriso ai mezz’uomini per rincuorarli, prese a gironzolare per gli scaffali ed i fornelli.

“Ma a parte Nimloth…”, riprese. Si voltò, e con le braccia dietro la schiena si fermò un attimo. “Perché servite questo… Aragorn? Chi è?”.

Merry alzò le spalle.

“Ti sembrerà assurdo… ma non lo sappiamo nemmeno noi. Fra i nostri ordini c’era anche quello di rimanere al fianco del… padrone dell’isola. Sinceramente non avevamo idea che ci abitasse qualcuno, in questo posto”.

“Capisco. Nemmeno io ne sapevo nulla. E… da quanto siete al servizio di Aragorn?”.

“Oh, da almeno vent’anni. Qualche volta siamo anche tornati a casa… insomma, nei periodi in cui ci incontravi. Ma abbiam sempre dovuto ritornare qui”.

Legolas li osservò senza capire.

“Possibile che lui non vi abbia mai detto perché dovevate farlo?”.

Pipino scosse il capo con decisione.

“No-no, assolutamente. E poi, ecco… il suo tono non ammetteva repliche. Non abbiamo mai avuto il coraggio di domandarglielo. Beh… lo conosci meglio di noi, in questi casi”.

Il ragazzo sospirò, stringendo le labbra.

“Già…”. Fece qualche altro passo per la cucina, e aprendo l’anta di una credenza per curiosare prese un tozzo di pane. Lo addentò.

“E’… misterioso, non è vero? Aragorn, intendo”, disse poi, dopo una lunga pausa. Tornò a sedersi di fronte ai due amici.

Merry riprese in mano il coltello, e strappando un ceppo d’insalata dalle mani di Pipino che aveva rischiato per la seconda volta di affettarsi un dito, annuì.

“Molto più che misterioso. Lui stesso non ci ha mai chiesto nulla. Né perché siamo qui, né perché lo serviamo. Io penso… che ne sappia molto più di noi, di tutto questo”.

L’Hobbit prese il mucchio di lattuga appena sminuzzata con entrambe le mani. Lo lasciò ricadere in una grande scodella in ceramica, davanti a sé.

“Ci ha dato l’impressione di avere… un mucchio si segreti, ecco”, riprese, con un vago tono di sospetto. “E poi Frodo dice sempre che pare una di quelle persone che vive solo di ricordi. Non parla quasi mai, concentra tutte le sue attenzioni sul giardino. E’… piuttosto strano, non trovi?”.

Legolas si appoggiò allo schienale della sedia, sbilanciandosi all’indietro.

“Strano e… triste”, mormorò, socchiudendo gli occhi nel ricordare l’infinita malinconia che aveva intravisto in quelle iridi azzurre, trasparenti ma distanti. “Vorrei… poterlo aiutare… ”.

A quelle parole, i due si bloccarono.

“Aiutarlo?”, ripeté Merry. “In che senso?”.

Legolas rimase interdetto, e fermando il dondolio della sedia sentì un leggero rossore salirgli sulle guance. Perché mai, poi?

“Beh, non… non so…”, balbettò. Fece ricadere le quattro gambe in legno, appoggiandosi nuovamente alla tavolata. “E’ che… ho avuto la netta sensazione che in qualche modo siamo simili. Anch’io ho dei ricordi che vorrei cancellare… e poi, di sicuro, non gli fa bene rimanere sempre fra queste mura, in solitudine e lontano da tutti”.

“Mh, anche su questo aleggia un bel mistero”, intervenne Pipino. “Sembra che sia lui a non voler lasciare l’isola. Alcune volte abbiamo anche cercato di proporglielo… ”.

“… ma l’unica cosa che fa è risponderci con un’occhiataccia”, concluse Merry. “Quindi, insomma… non c’è proprio niente da fare”.

Legolas assentì in silenzio. Inspiegabilmente, quell’uomo lo incuriosiva. E nonostante il suo modo di fare brusco e la sua apparente freddezza, lui aveva percepito chiaramente del calore nella sua voce. Nello sguardo di Aragorn ardevano ancora dei sentimenti, forse oppressi dalla sofferenza che celava nel cuore. Non mancava nemmeno di ironia, vista la loro prima discussione…

“Prima avete parlato di Frodo”, disse però d’un tratto, cercando di spostare i propri pensieri su qualcos’altro. “Allora anche lui è qui?”.

“Certo, e anche Samvise”, sorrise Pipino. “Credo che adesso siano da qualche parte nel giardino del castello. Spesso aiutano Aragorn nei suoi lavori, o nella coltivazione dell’orto. Sam si diverte parecchio, sai?”.

Legolas sorrise. Samvise era sempre stato appassionato di botanica e giardinaggio, così come Merry e Pipino avevano sempre amato tutto ciò che riguardava il cibo. Ridacchiò.

“Eh eh, immagino. Spero di vederli presto”.

“Mhh, li vedrai di sicuro. Ma quindi vuoi dire che intendi fermarti?”.

Il giovane fissò l’Hobbit, senza sapere che rispondergli. In effetti aveva implicitamente affermato di voler restare, almeno per un po’. Anche se Aragorn aveva dichiarato che era libero di andarsene, lui non voleva farlo. E non solo perché aveva ritrovato dei vecchi amici…

Spostò lo sguardo sulla scodella lucida dell’insalata. La luce che inondava la grande cucina si rifletteva sulla superficie bianca come su di un bicchiere di cristallo. Il ragazzo rimase a fissarla, sorreggendosi il mento con una mano.

Allora perché?

Per… lui?

E’ che… non riesco a smettere di pensarci.

Quegli occhi. Non riesco a levarmi quegli occhi dalla testa.

“Mhh, qualunque cosa tu decida di fare… ”, disse ancora Merry, alzandosi per andare a controllare l’arrosto che cuoceva nel grande forno a legna situato in un angolo della cucina, “… siamo felici che tu sia qui. Ci farà solo piacere se rimarrai. E non preoccuparti, non diremo niente a chi… sai tu”.

Il mezz’uomo gli strizzò un occhio in segno di intesa, poi diede uno sguardo all’interno del vano in mattoni rossi in cui ardeva un piccolo fuoco. Sospirò.

“Spero solo che almeno oggi Aragorn abbia fame”, disse voltandosi verso Pipino, che alzò le spalle. “Ultimamente sparisce per intere giornate, e all’ora dei pasti è impossibile trovarlo”.

L’Hobbit spostò un poco l’arrosto con un lungo forchettone, dopodiché tornò verso gli altri, sfregandosi le mani con un sorriso soddisfatto.

“Oh, beh, comunque poco male. Al massimo ce lo mangiamo tutto noi. E’ quasi pronto”.

Pipino fece per annuire entusiasta, più che d’accordo con l’amico, ma Legolas si alzò di scatto.

“No, lo convincerò io a venire”, esclamò. “Vado a cercarlo”.

I due rimasero a fissarlo sorpresi, ma non fecero in tempo a dirgli nulla. In un attimo attraversò la cucina, per poi sparire dietro la porta aperta.

 

***

 

Nel lungo corridoio del castello i suoi passi risuonavano lievi. 

Alzò gli occhi, concentrando la propria attenzione sui grandi archi a sesto acuto che scorrevano, uno dopo l’altro, sopra la sua testa, a più di cinque metri d’altezza. Si domandò quanti anni avesse quel posto, e come Aragorn potesse viverci da così tanto tempo, completamente da solo.

Si avvicinò alle finestre, che si susseguivano di fianco a lui come una fila di quadri di luce.

“Perché la cosa dovrebbe sorprendermi tanto…”, mormorò, guardando al di là le superfici di vetro. “Dopotutto, anche io sono come lui. L’unica differenza è che io… continuo a fuggire. Aragorn, forse, ha semplicemente smesso di farlo… ”.

Si fermò un attimo, giusto il tempo per fare un profondo respiro nel tentativo di scacciare la tristezza. Ma quando, riprendendo a camminare, il suo sguardo si posò nuovamente sulla vegetazione del giardino, fu costretto a bloccarsi un’altra volta.

Oltre il davanzale, nascosto in parte da alcune file di alberi, il tronco candido di Nimloth spiccava fra le tante cortecce più scure delle quali era contornato. Il sole accecante di quella mattina lo rendeva difficile da individuare immediatamente.

Legolas si avvicinò alla finestra, stupito. Non si era reso conto che l’Albero Bianco fosse all’interno del giardino del castello, la sera prima. Anzi, per essere precisi non aveva assolutamente notato le mura in pietra, cosa che normalmente sarebbe stata impossibile. Forse era stata colpa dell’oscurità, o più probabilmente della meraviglia che aveva provato nel vedere Nimloth. Gli aveva fatto completamente perdere di vista tutto il resto, ed in particolare ciò che avrebbe potuto arrivargli alle spalle…

Si ritrovò, così, a pensare ancora una volta al particolare incontro-scontro avvenuto la notte precedente e, nello stesso momento, i suoi occhi si spostarono sul profilo della figura seduta a pochi passi dall’Albero Bianco, con la schiena appoggiata contro un altro tronco.

Quel qualcuno, col viso sollevato al cielo per assaporare i raggi caldi che gli accarezzavano la pelle,  era proprio il padrone dell’isola.

 

“Credo che tu sia in ritardo per il pranzo”.

Legolas aspettò di essergli arrivato vicino per parlare. Si era fermato poco più indietro del punto in cui si innalzava l’albero, alle spalle dell’uomo.

Lui, però, non si mostrò sorpreso dalla sua improvvisa apparizione. Di sicuro, aveva percepito la sua presenza da molto prima.

“Non ho fame”, disse con voce incolore, senza nemmeno muoversi per guardarlo in faccia. “Ma non c’era bisogno che tu venissi a cercarmi per farmelo sapere. Te l’han chiesto gli Hobbit?”.

Il ragazzo non fece caso al suo tono freddo, e passandogli accanto arrivò a sedersi fra l’erba, proprio davanti a lui. Sorrise.

“No. Però mi hanno detto che spesso salti i pasti. Non dovresti”.

Aragorn scostò dalle labbra la lunga pipa in legno scuro che stava fumando. Una leggera scia di fumo azzurrino si sollevò nell’aria, poi il suo sguardo chiaro si puntò su quello di Legolas.

“Non mi serve che qualcuno mi dica cosa devo fare”.

“Ma io non intendevo… ”.

“Se non mi sbaglio, ti avevo detto che eri libero di andartene”.

L’altro abbassò gli occhi sui ciuffi verdi, ondeggianti nel vento leggero, che spuntavano oltre le proprie ginocchia piegate. Avrebbe dovuto prevedere una risposta del genere, ma scioccamente aveva sperato di poter stringere amicizia. O di ricevere un minimo di cortesia.

“Scusa se cerco di essere gentile… ”, replicò calmo, tentando di nascondere la delusione ma non riuscendo a rispondergli in altro modo. “Ma se è ciò che vuoi, me ne andrò immediatamente”.

Si alzò. Girandosi verso Nimloth, però, non si accorse che Aragorn non aveva mai smesso di fissarlo. Stava seguendo attentamente ogni suo movimento ed inoltre, alle sue ultime parole, qualcosa di molto simile al pentimento era apparso sul viso bellissimo e fino a quel momento  impassibile dell’uomo.

“Ero venuto fin qui perché volevo… vedere di persona se davvero la luce di Nimloth si era estinta”, mormorò quindi Legolas. “Avevo i miei motivi per farlo”.

Aragorn rimase zitto, senza abbassare gli occhi dal giovane. Dal punto in cui era, poteva ammirare il corpo perfetto del ragazzo stagliarsi contro i rami lattei dell’Albero. Le lunghe gambe, sinuose ma muscolose al punto giusto, erano fasciate come da una seconda pelle dalla calzamaglia leggera che, poco più su di metà coscia, veniva coperta da una casacca verde bosco stretta alla vita da una cintura in cuoio e corda. Le spalle non erano troppo ampie, ma certamente erano forti, e parevano quasi fare da cornice alla lunga cascata di capelli d’oro del ragazzo, raccolti in una strana treccia a mezzacoda al centro del capo. Era attraversato in orizzontale dall’antiestetica linea bianca della fasciatura che gli aveva fatto lui stesso la sera prima, ma era molto facile non notarla nemmeno…

Fissò a lungo quella figura eterea.  Sì… un angelo. Non poteva negare che lo sembrasse davvero.

E soprattutto, quel viso…

Quelle labbra, il modo in cui le piegava.

Non è possibile…

Aragorn spostò di scatto gli occhi a terra, come infastidito. La sua mano, appoggiata sull’erba, si strinse a pugno.

Un fantasma… sembra… il suo fantasma…

“Insomma, non volevo invadere il tuo territorio… ”, continuò però Legolas, improvvisamente, voltandosi di nuovo verso l’uomo. “… ma non credevo ci fosse qualcuno. Davvero”.

L’altro alzò nuovamente il capo, lo sguardo ancora smarrito, disorientato.

Era… confuso.

Turbato.

Quel ragazzo… gli stava facendo qualcosa.

Ed anche se era ancora una sensazione lieve, era così piacevole…

Così… bella. Semplicemente bellissima.

Legolas non notò la sua espressione. Guardava invece di lato, verso il castello.

“… quindi perdonami. Adesso… vado a salutare Merry e Pipino. Poi tornerò alla spiaggia, e me ne andrò”.

Iniziò così a camminare da dove era venuto, ma prima che potesse allontanarsi per più di qualche metro Aragorn gli sbarrò la strada.

“Io… ”, balbettò il ragazzo.

A pochi centimetri da lui l’uomo lo stava osservando, come imbarazzato. Legolas fece un passo indietro, intimorito, ma questi gli mise le mani sulle spalle, costringendolo a restare fermo.

E per la seconda volta nella stessa giornata, Legolas sentì il proprio viso in fiamme.

Era… così vicino.

Così…

“… ti prego, resta qui. A farmi compagnia. Almeno… per un po’”.

Lo sguardo di Aragorn, adesso, era supplichevole.

A quanto pare, quello che aveva visto in lui non era mai stato orgoglio, ma solamente una sorta di difesa, verso tutto e tutti. In quei lunghi anni aveva certamente imparato a non avere bisogno di nessuno a parte che di se stesso, ed era quindi naturale che rispondesse come aveva fatto poco prima a qualunque ordine, o consiglio.

Vent’anni…

Era davvero rimasto per tanto, troppo tempo da solo.

Ed ora, forse, non voleva più esserlo.

Legolas si ritrovò a fissarlo, completamente stregato. Quell’uomo lo affascinava, e qualunque scusa si inventasse per convincersi che la cosa migliore da fare era andarsene, sapeva perfettamente, dentro di sé, che in realtà era l’ultima cosa che desiderava.

Anch’io… non voglio più restare da solo.

Deglutì, abbassando un attimo gli occhi. Quando però li risollevò, si limitò ad annuire. Un piccolo, impacciato cenno del capo.

Aragorn, invece, alla sua risposta affermativa sospirò sollevato. Lasciò le braccia di Legolas con un sorriso disteso, ed il ragazzo non poté fare a meno di notare che quello era il suo primo sorriso da quando l’aveva visto, quella mattina.

Contagiato dal buonumore dell’uomo, decise di rilassarsi. E soprattutto, di cercare di ignorare le proprie emozioni…

“E’ solo perché è simile a me”, pensò.E’ solo per quello…”.

Aragorn stette quindi in silenzio per qualche secondo, e nel momento in cui tornò serio il suo viso non assomigliava più a quello, freddo e distaccato, che Legolas aveva conosciuto.

“Sai…”, disse piano l’uomo, guardandolo. “Tu… assomigli molto ad una persona”.

L’altro ricambiò il suo sguardo, ma non si chiese nulla, né commentò le parole di Aragorn. Si accontentò invece di lasciare che quella frase, pronunciata con lo stesso calore di quei raggi che poco prima baciavano il viso dell’uomo, penetrasse in lui. Lentamente, dolcemente.

“Andiamo a mangiare, o Merry e Pipino finiranno anche la nostra parte”.

Fu quella l’ultima cosa che uscì dalle labbra di Legolas, prima che sfiorasse, delicatamente, le dita di Aragorn con le proprie.

 

To Be Continued…