.|. Wound (il Dono degli Uomini) .|.

5. Unmei

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“Continuerò sul sentiero intrapreso. Stiamo ormai giungendo all’orlo del burrone, ove speranza e disperazione sono sorelle, ed esitare significa cadere. Se le porte di Minas Tirith sono state distrutte le ricostruiremo, ma sono gli uomini la vera difesa delle città. Dobbiamo marciare contro Sauron, anche se questo significa camminare a occhi aperti verso la fine”.

 

Aveva detto queste cose, quel giorno, durante la discussione dei capi. Ed era stato per le cose che aveva detto che l’esercito si era radunato di nuovo e aveva sfidato l’Oscuro Signore, schierandosi di fronte al Cancello Nero. Erano rimasti a lungo a guardare, infreddoliti e infelici nella grigia luce del primo mattino, le torri e le muraglie possenti che non potevano sperare di conquistare. L’estrema fine della loro follia.

 

Mille volte si era chiesto, nel tempo venuto dopo, se quelle parole le avrebbe pronunciate ugualmente, conoscendo ciò che stava per accadere. In questo modo si tormentava il suo cuore, generoso con gli altri e implacabile con se stesso.

Ma non aveva mai potuto impedirselo, mai. Perché ogni volta che si era fatto questa domanda aveva assistito rassegnato e sgomento alla risposta che vi aveva dato la sua coscienza.

E si era sentito, allora, come se il disegno della sua vita fosse stato interamente tracciato, fin dall’inizio, e lui l’avesse passata tutta a inseguire e scegliere ciò che il destino gli avrebbe imposto. A rendersene responsabile. A portarne il peso.

 

Era un peso così gravoso.

 

Intollerabile, quando gli venivano in mente i suoi occhi fiduciosi e seri, le sue dita intrecciate. E quello sguardo, lo sguardo sul suo viso nell’attimo in cui aveva capito che era finita, che stava morendo. E il sorriso che gli aveva rivolto all’ultimo, mentre tra le sue braccia già impallidiva e respirava a fatica, che doveva essergli costato uno sforzo immane. E la lacrima che era nata all’angolo delle ciglia, per il dolore del suo dolore.

“Non è una tua colpa, Estel...”

Era stata questa la prima cosa che aveva detto, mentre lui lo stringeva sconvolto, senza credere a cosa stava avvenendo, e la vista stupefatta e straziata cancellava di colpo ogni cosa intorno, e dal cuore gli saliva alle labbra la fatica lacerante di un grido che riusciva ad articolarsi appena nel sussurro muto di un “no”.

“Non è una tua colpa. Io so che mi ami più della tua vita...”

“Oh no... no, Legolas! No, ti prego... ti prego...”

“E anch’io... anch’io ti amo... tanto...”

“No... tu non morirai... non morirai...”

Lo aveva tirato a sé, ricordava, e aveva gridato aiuto come un pazzo in mezzo al campo di battaglia cruento di caduti e feriti. Aveva chiamato uomini, ordinato cure. Io sono il re, aveva detto, obbedite al re.

“Estel... non gridare, ti prego...”

“No, tu guarirai! Tu guarirai, io ho bisogno di te...”. Aveva pianto così, ad alta voce, disperato e incurante. E lo aveva supplicato: “Non morire... non adesso... Abbiamo vinto, Legolas... abbiamo vinto, lo senti?”

Legolas aveva sorriso, allora, e aveva dato un breve sospiro. Contento.

“Sì. Sì, abbiamo vinto, Estel”.

 

*

 

Camminare a occhi aperti verso la fine. Gli era venuto in mente ogni giorno, da allora. Davvero, si era chiesto, davvero sapeva cosa questo voleva dire?

Lo sapeva quando aveva deciso di mettere in gioco la vita di Legolas, e l’aveva perduta?

 

Perduta.

All’improvviso, nel vuoto senza rumore in cui era sprofondato tenendolo a sé, mentre tutti intorno correvano, e si affannavano, e uccidevano e venivano uccisi, all’improvviso le linee della sua schiena adagiata tra le braccia tremanti gli erano balenate alla mente com’erano state la notte prima. Come le aveva baciate, dolcemente, a lungo, percorrendole con le labbra, e come aveva assaporato il brivido trascorso sulla sua pelle, l’inarcarsi e il trasalire leggero della curva delle scapole, carezzate dalla sua lingua. Aveva baciato un punto, un punto preciso tra la nuca e il collo, scostando di lato, con delicata passione, il morbido nodo dei suoi capelli. Ne aveva aspirato il profumo, il viso al sicuro, accolto come in un rifugio.

La sua schiena flessuosa e snella, e delicata, e forte. E abbandonata, adesso, tra le mani che la reggevano. Ne sentiva ancora il peso e l’irrigidirsi pieno di fatica, e di dolore, nella sua stretta, e il corpo che scivolava giù, il moto del suo capo che perdeva l’appoggio e ricadeva indietro, e come l’aveva fatto posare sulla sua spalla, col cuore che gridava. E lo strazio con cui aveva dovuto adagiarlo piano sul terreno, perché diceva che era stanco, e che aveva freddo.

 

Quali infinite profondità, quante diverse sfumature poteva assumere quel dolore. Nel momento in cui lo aveva provato. Nel ricordo. Nel ricordo di ogni volta che lo aveva riportato alla mente. E ogni volta gli era parso di rivivere lo stesso momento con un diverso tipo di sofferenza. Con visioni mutate, anche, come se senza fine fossero state le prospettive possibili del suo volto che impallidiva, del suo sguardo azzurro che perdeva la luce, delle dita che si stringevano in un ultimo doloroso sforzo intorno al suo braccio. E sentire il cuore schiantarsi mille volte, senza morire mai.

 

“Tu non hai mai visto morire un elfo”.

Quando, quanti anni prima lo stregone Gandalf gli aveva detto questo? Era un ramingo, ancora. Eppure, senza che lo avesse scelto, dagli abissi perduti della memoria proprio quella frase era risalita, annientandolo con la sua crudeltà.

Un elfo che muore, e la luce dei suoi occhi che trascolora e perde lentamente la vita, mentre mille anni l’assalgono, uno a uno.

“Tu non hai mai visto il cuore di un elfo riversarsi tutto nel suo sguardo, per un unico istante. È una cosa che può distruggerti”.

 

Soprattutto se tu lo ami.

 

*

 

Era stata cupa e difficile, la notte che aveva preceduto lo scontro: tutti sentivano, sapevano, che si era al passo risolutivo. Una disperazione quieta, di spirito non piegato, albergava in loro.

Eppure, ricordava bene, avevano perfino riso, a cena.

Avevano bevuto tutti insieme, come se quello fosse un giorno qualsiasi, e Merry e Pipino si erano lasciati prendere in giro per la loro statura aumentata grazie all’acqua degli Ent.

“Non vi riconosceranno più, nella Contea”, aveva detto Gandalf.

“Vorrà dire che se crescerete ancora un po’ vi porterò con me nel Bosco Atro - aveva scherzato Legolas -, e vi farò nominare elfi onorari”.

A Pipino l’idea non era dispiaciuta affatto, e sembrava piuttosto preoccupato di come mimetizzare i piedi, nel caso.

Era stata una cena allegra.

Anche se, sentendo parlare Legolas di ritorno nella sua patria, gli si era stretto all’improvviso il cuore: e per tutto il resto della sera non era riuscito ad articolare parola. Più di quando non fosse mai avvenuto prima, aveva pensato che diventare re non gli importava affatto, che voleva soltanto non perderlo, e restare con lui. E gli era sembrato, di colpo, che tutta quella guerra immane non avesse senso, e che anche un’inaspettata vittoria non sarebbe stata motivo di alcuna gioia.

 

Forse era stato quello il primo presagio

 

Aveva semplicemente scacciato il pensiero, rifiutando di dedicarvisi. Troppe erano le cose di cui aveva il dovere di preoccuparsi in quel momento. Dopo cena si erano ancora riuniti insieme coi capi e avevano studiato la strategia disperata dell’attacco al Cancello Nero.

 

La notte l’avevano avuta per sé, invece, lui e Legolas. Una breve notte, ma intensa, e veramente felice. Forse era stata la coscienza che tutto stava per finire, che il domani sarebbe stato decisivo ed estremo, a renderla così. Si erano detti molte cose, dopo aver fatto l’amore. Lui lo aveva stretto al petto e aveva parlato con voce sommessa mentre Legolas lo ascoltava in silenzio. Gli aveva raccontato della sua infanzia a Imladris, come non faceva mai con nessuno. Gli aveva detto dei sentieri, e dei boschi, e del piccolo insetto marrone con tante zampe che aveva trovato un giorno, e che aveva portato a sua madre Gilraen fierissimo della scoperta. Di come sua madre, invece, non ne fosse stata affatto entusiasta, e lo avesse costretto a liberarlo, ma il più lontano possibile dalla casa.

E della prima giovinezza, gli aveva detto, e quanto gli era mancato suo padre, anche se Elrond lo trattava come un figlio. Quanto avrebbe voluto ricordarlo, e quanti pomeriggi e notti si era sforzato inutilmente di riportare alla memoria i contorni del suo viso, qualche sua espressione. Che si era addirittura sentito in colpa per il fatto di non riuscirci, e nei momenti più tristi si era rimproverato di non essere stato un buon figlio, perché lo aveva dimenticato, e che quella era la punizione meritata per uno come lui.

E siccome, nonostante tutto, sembrava che quasi lo pensasse ancora, Legolas gli aveva carezzato il petto, e con poche delicate parole gli aveva ricordato che aveva solo due anni quando aveva perso suo padre. Allora aveva sospirato, e aveva sorriso con un po’ d’amarezza di se stesso e di quella sua fragilità, che Legolas aveva compreso solo da un accenno.

Ai suoi viaggi, alla lunghissima sofferenza di tutte le sue partenze, alle soste in terre inospitali e ai mille nomi diversi che si era dato e gli avevano dato non aveva accennato. Ma il suo compagno lo sapeva, questo: li aveva scritti negli occhi, i racconti che si facevano su di lui.

Ricordava di averlo sentito stringersi al suo petto ancora di più, di averlo allora tirato a sé, contemplando il suo sguardo chiaro velato dalla commozione. Di averlo baciato a lungo, lentamente, e di essersi girato su di lui, rifugiandosi in quel contatto, nascondendo il viso sotto il suo braccio.

“Io starò con te - aveva mormorato poi -. E se tu tornerai nella tua patria io ti seguirò, e farò di nuovo il ramingo per essere libero di amarti”.

Legolas aveva sorriso, scuotendo il capo. Poi, invece di rispondere seriamente, lo aveva preso un po’ in giro: “Quindi dovrò aspettare i tuoi ritorni da lunghi viaggi, per poterti vedere?”

“Ma io tornerò spessissimo...”

“Allora farai il ramingo in una zona circoscritta - aveva detto ridendo -. Vediamo... il centro del Bosco Atro potrebbe andar bene?”

Anche lui aveva riso, allora, mentre una lacrima gli bagnava gli occhi.

“Vagherò nel giardino di casa tua”.

 

*

 

Ricordare questo, e pensare che solo poche ore dopo lo aveva visto morire, era un dolore di un’atrocità insopportabile. Il viso sorridente e quello che tremava, sperduto. Le mani che lo carezzavano e le stesse mani contratte disperatamente nello sforzo di aggrapparsi al suo braccio. La bocca morbida, dischiusa, e le labbra tese, sottili, pallide. Il respiro appassionato e languido nel piacere. E il respiro, lo stesso respiro, che sfuggiva debole per l’ultima volta da lui.

 

Ricordare questo, ancora, nonostante gli anni trascorsi, gli dava lo stesso sentimento invincibile che aveva provato allora. Un desiderio spasmodico di uccidersi, di porre fine a quella sofferenza e di seguirlo.

 

La stessa cosa che aveva sentito allora. Andare con lui.

Dovunque fosse: ci fosse un altro mondo dove andare, al di là, o nulla che li attendesse. Non importava.

Seguirlo. Sguainare il pugnale e premerlo contro il cuore, per impedirgli di soffrire di più.

 

Ma Legolas aveva capito, e proprio nel momento in cui stava per perdersi, ed impazzire, lo aveva fissato con una luce seria negli occhi, afferrando quel dolore con la sua volontà. Gli aveva sfiorato il viso in un gesto tenerissimo, senza mai abbandonarlo, e gli aveva impedito di naufragare per sempre. Mai più aveva potuto dimenticare il modo in cui aveva sorriso.

 

Quello che gli aveva detto dopo gli si era inciso nell’anima come fuoco, un fuoco che avvampava e abbracciava, di una carezza bruciante.

“Il tuo amore mi ha salvato, Estel. Tu mi hai salvato... non è vero che è un dono amaro... Estel, la morte non è questa... non è davanti a noi... è dietro... Dietro... in tutto ciò che non abbiamo avuto il coraggio di vivere quando non volevamo vederla...”

“Legolas...”

“... Ma tu mi hai salvato, Estel... tu...”

“Legolas, non parlare, basta...”

“Tu mi hai amato... e per amore io ho imparato a morire, e ho vissuto...”

“No, Legolas... io non posso andare avanti senza di te... non posso...”

“Oh Estel, tu devi... devi farlo per me... e per te... Io ho accettato di morire, ed è questo che mi ha dato il tuo amore... e mi ha reso felice... perché ho diviso il tuo destino... Tu devi dividere il mio, e devi vivere. Devi vivere...”

 

Queste erano le parole che aveva detto, con l’estremo respiro, un istante prima che la Torre Oscura crollasse. E sul suo capo reclinato e sul tremito del suo corpo morente si era levato altissimo dall’esercito l’urlo trionfale della vittoria.

 

***

 

Mille volte, nel corso dei lunghi anni venuti dopo, con la sera buia ad aspettarlo e troppo tempo per ricordare, mille volte aveva rivissuto quegli attimi, cercando di rappresentarli diversi. Al punto che, talora, le cose che immaginava soltanto si aggiungevano a quelle realmente custodite dalla memoria, e non riusciva più a distinguerle, a separarle.

E sempre aveva cercato, ogni volta, di riportare alla luce nuovi particolari di quella scena, di ricostruire nel pensiero e scoprire la traiettoria esatta del dardo che lo aveva ucciso.

Da dove fosse provenuto, quale strada esattamente nell’aria avesse percorso prima di trovare Legolas. Chi lo avesse scagliato.

Chi?

Non lo aveva mai saputo, quel nome. Chi fosse mai stato, dell’immenso esercito di Sauron, il responsabile della morte di lui.

Aveva cercato di immaginare il suo viso, l’espressione che aveva mentre tendeva la corda dell’arco, mentre prendeva la mira sul suo amore. Il sorriso trionfante che doveva aver fatto quando aveva capito di non avere fallito il colpo.

Chi mai poteva essere stato? Chi?

Era ancora vivo nella sua terra l’uccisore di Legolas? E forse lo aveva anche incontrato senza saperlo nel tempo venuto dopo, e magari adesso coltivava tranquillo i campi di una delle regioni pacificate, e godeva di quella vita serena che lui, con l’immane sacrificio di ogni cosa contasse al mondo, gli aveva procurato? Lasciando che si prendesse la vita del suo compagno, senza pagare?

Oppure era morto. Era morto quel giorno stesso, anche lui? Precipitato in una delle immense crepe che sul terreno si erano aperte al crollo della torre di Sauron?

O schiacciato da un cavallo in battaglia? Trafitto da un colpo di spada al cuore?

Non lo sapeva. Non sapeva chi.

Non era stato un orco, perché non era di orco quella freccia, che lui non aveva avuto la forza di strappare dal corpo senza vita di Legolas. E che aveva tolto Éomer, alla fine della battaglia, mentre Faramir lo costringeva a non guardare tenendogli il viso premuto sulla sua spalla.

Forse un uomo del Sud, schiavo del potere di Sauron. Qualcuno obbligato a combattere in quella guerra, un uomo senza più coscienza, né volontà.

O un mercenario, una canaglia, un bandito, pieno d’odio e rancore. O forse neppure questo. Solo un folle con la mente sconvolta dal terrore della fine, che non sapeva nemmeno di avere ucciso. Di aver posto termine alla vita dell’essere più perfetto che avesse calcato quella terra lurida. Che aveva lanciato a caso, senza prender la mira, accecato dalla collera oscura della guerra, in mezzo a migliaia di altri folli che credevano di morire.



Senza motivo.

*

 

Lo aveva guardato per un tempo che gli era sembrato fuori dal tempo, il corpo senza più vita di Legolas. Continuando a tenerlo tra le braccia, senza poter credere a quello che vedeva, al pallore infinito del suo viso immobile, al peso improvviso del suo capo, al calore che se ne andava rapido, agli occhi che morendo aveva chiuso piano. Ai suoi capelli, che più di tutto il resto, invece, sembravano uguali a prima, ed erano scivolati morbidi sul suo braccio, e quasi gli avevano dato, con quel movimento, l’illusione che fosse stato lui ad adagiarsi poco a poco in quel modo, affidandosi alla sua cura.

 

Ma non era così. Non era così. Non sarebbe mai più stato così.

 

E quando aveva dovuto accettare questo, quando quel momento sospeso oltre la coscienza era terminato, e fievole lentamente e poi in tutto il suo clamore gli era ritornata agli orecchi la voce della battaglia; quando aveva sentito gli amici avvicinarsi alle sue spalle, comprendere che cos’era accaduto, esitare per non ferirlo, allora non aveva potuto sopportare per un istante lo stato in cui si trovava, e aveva stretto gli occhi con tutte le forze, chiudendosi sul suo amore per scacciare ogni cosa intorno. E portandolo a sé con tutta la delicatezza del mondo aveva levato un grido atroce, nero, che aveva lacerato l’aria spezzandogli il cuore in petto.

E intorno a loro, sulle labbra degli uomini, si era steso all’improvviso il fragore immobile del silenzio.

 

***

 

Si era intrecciato i capelli in modo diverso, dietro la nuca.

E non aveva mai combattuto come quel giorno.

Nella giornata estrema il suo valore era arso come fiammeggiare di lampi in mezzo alla tempesta che incalza.

Avevano lottato spalla contro spalla, al centro della mischia. Legolas lo aveva seguito quando impugnando la spada invincibile si era voltato, e si era lanciato alla testa dei soldati, da solo. Non si erano guardati, ma era come se i movimenti dei loro corpi fossero uniti in un fluire armonioso e rapido.

Spietato, feroce come l’ultimo giorno concesso. Insostenibile e travolgente come l’unico respiro rimasto.

 

Nessuno aveva più osato avvicinarsi a loro.

E quando intorno si era creato il vuoto e il nemico aveva avuto paura, quando all’improvviso i Nazgûl si erano arrestati ed erano fuggiti, richiamati  dal terribile grido della Torre di Sauron, quando il potere dell’Oscuro signore era stato sopraffatto e distrutto dalla fine dell’Anello nel Monte Fato, e gli eserciti di Mordor avevano tremato vedendo nei soldati di Gondor la morte; quando tutto era finito e avevano compreso che la loro speranza folle si era avverata, e che avevano vinto, avevano vinto per tutti, allora lui e Legolas si erano trovati con gli occhi voltandosi per la prima volta uno in cerca dell’altro. E i loro sguardi intenti si erano intrecciati in un silenzio pieno di parole.

E Legolas si era fatto improvvisamente serio, come non l’aveva mai visto. E con le labbra serrate aveva dato un sospiro e aveva chiuso le ciglia, abbandonando il capo all’indietro.

Come se lo avesse saputo.

 

E in quell’istante, mentre lui era così, un rumore secco aveva attraversato l’aria, travolgendo i confini della coscienza.

E una freccia senza padrone lo aveva colpito di schianto, trapassandogli il petto.