.|. Sei La Mia Speranza .|.
1. Un Gioiello Proibito
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Il paese,
quella mattina, si era risvegliato sotto ad un sole caldo e gentile. I
pescatori avevano buttato le reti nell’acqua quando ancora i muri di
pietra delle case erano illuminati dai tenui raggi rossi dell’alba e la
brezza tiepida, che in quel momento stava increspando appena la
superficie cristallina, non si era ancora alzata.
La passeggiata
che costeggiava il lago, invece, si era riempita di persone poco più
tardi. I bambini, accompagnati dalle madri, correvano verso la piazza
del mercato festosi, facendo felici i commercianti e gli artigiani che
speravano, come ogni settimana, di attirare soprattutto loro, i clienti
più giovani, da sempre anche i più redditizi.
Un sentiero in
lastre di pietra tagliate ed incastonate a mosaico fra sassi di varia
forma e dimensione si stendeva per l’intero paese. Nelle vie fresche,
adombrate dalle alte facciate costruite alla maniera antica di Valánen,
gli abitanti camminavano senza fretta alzando di tanto in tanto lo
sguardo verso gli spicchi di cielo terso visibili tra casa e casa. Ogni
cosa era avvolta da una tranquillità quasi irreale. Un silenzio che non
era qualcosa di opprimente o cupo ma anzi, al contrario, pareva
l’essenza di una serenità pura fatta di piccole cose, dalla pace della
quotidianità al suono incessante del lago.
Alle sue
piccole onde, che si infrangevano sulle sponde ora rocciose e scoscese,
ora verdi e basse.
Quel dolce
mormorio, sempre. Confortante, rassicurante.
Furono questi i
pensieri che gli attraversarono la mente, quando entrò nel paese.
Coperto da un
mantello verde scuro, teneva il cappuccio abbassato sul viso. Non che
avesse qualcosa da nascondere. O meglio… ce l’aveva, ma nel suo caso era
più appropriato dire che non desiderava attirare eccessiva attenzione.
In quella
tenuta era sicuro che non avrebbe avuto problemi. Gli abitanti erano
abituati, ormai, ai molti viandanti che si aggiravano per Valánen.
Spesso si fermavano per una notte o due in una delle locande della
piazza e poi, il mattino seguente, ripartivano per mete sconosciute
abbandonando, forse insieme ad un pezzo di cuore, quel luogo di rara
bellezza.
Valánen, le
Acque degli Dei. Già, era questo che significava…
Chissà perché
ogni volta tendo a dimenticarlo?
Scosse il capo
con un lieve sorriso, rimanendo un attimo fermo ad osservare un gruppo
di donne che stavano conversando sulla soglia di una bottega.
Quella pace era
perfetta, non c’erano dubbi. Ma loro sapevano quanto lui che non era
infinita. Che quell’apparente serenità era solamente una maschera, un
miraggio ben costruito e perfezionato, ormai, da anni. Allegria e pace
per avere meno paura, nelle notti in cui lo splendore delle acque del
lago non rischiarava le loro anime angosciate.
Per non
sentirsi completamente abbandonate, quando i loro figli gridavano
terrorizzati…
Riprese a
camminare speditamente. No, si era ripromesso di non pensarci. Anche
solo per un po’. Adesso che era lontano da tutto, adesso che poteva
godersi la tranquillità che aveva cercato da sempre, non ci avrebbe
pensato.
Passò accanto
ad alcuni banchi del mercato, facendosi strada fra la piccola folla che
riempiva la piazza fino ad arrivare vicino a una panca in legno,
ombreggiata dai rami frondosi degli ippocastani allineati dietro di lui.
Era rivolta verso il modesto e grazioso molo d’attracco delle barche
della cittadina, ma nonostante la sua prima intenzione di sedersi
davanti al lago, non lo fece. I suoi occhi chiari, più profondi delle
acque blu di quello specchio calmo, presero a spaziare davanti a sé,
soffermandosi infine su un punto preciso all’orizzonte.
“E’ bella, non
è vero?”.
Sbatté un paio
di volte le palpebre. Qualcuno gli aveva appena rivolto una domanda.
“Scusate, come…
avete detto?”.
Girò la testa,
abbassando lo sguardo su un anziano pescatore. Il volto coperto dalle
rughe era abbronzato, ma malgrado la tarda età due piccole iridi scure e
vivaci, affossate sotto le sopracciglia aggrottate, lasciavano intuire
una mente ancora lucida e attenta.
“L’isola,
forestiero. Non è un gioiello?”.
Lui annuì
lentamente, concentrando ancora la propria attenzione sul lembo di terra
indicato dal vecchio con un braccio teso.
“Già… ”,
mormorò con aria trasognata. Fece un profondo respiro.
Da sempre
conosceva l’isola Ambalmíre. Un’autentica pietra preziosa plasmata, come
diceva il suo stesso nome, nella roccia grezza. Piccola, da poter essere
abbracciata con un unico sguardo ma abbastanza grande da non riuscire a
capire esattamente cosa e quanto fosse in grado di nascondere. Le fronde
dei salici ricurvi verso l’acqua, mosse piano dal vento che spirava dal
nord, lasciavano solo intravedere dei muri grigi ricoperti da edere e
muschi di un verde brillante mentre più su, nascosto in parte da un paio
di magnolie bellissime ed incorniciato da decine di grappoli di glicine
dal profumo stordente, il basso colonnato di una terrazza rimaneva,
solitario, a guardare l’acqua e il cielo. Tutti gli argini parevano
ripidi, rinforzati da pietre e massi addossati contro i tronchi e la
terra scura ricoperta di viole, ma verso sud l’isola scendeva in una
piccola spiaggia di sabbia e ciottolato, naturalmente adombrata dalle
chiome basse di piccoli e graziosi alberi che circondavano l’angolo
rendendolo non meno misterioso del resto dell’isola.
Il sole la
faceva brillare. E circondata da uno specchio ugualmente scintillante,
poteva essere paragonata al pendente di un monile sul collo di una
donna, capace di catturare ogni luce si riflettesse nelle sue infinite,
levigate sfaccettature.
“Ogni mattina
vediamo questo spettacolo”, disse quindi il pescatore, con una piccola
risata. “Posso dire che ormai siamo abituati. Voi stranieri, invece,
avete sempre lo stesso stupore meravigliato negli occhi, quando la
vedete per la prima volta”.
L’altro
sorrise.
“Non fatico ad
immaginarlo. Potete godere di un tesoro molto prezioso, buon uomo.
Questa è la prima volta che la ammiro da così vicino, ma in realtà
conosco Ambalmíre da parecchio tempo”. Fece una pausa, tornando ancora
una volta con lo sguardo sull’isola.
Non sarebbe
stata poi una così cattiva idea andare a darci un’occhiata. Certo,
sapeva che era rischioso, ma sapeva anche che era un suo diritto
metterci piede. Controllare… come le cose stessero davvero.
Anche se lui
era contrario.
Anche se glie
l’aveva proibito.
Si rivolse
ancora all’uomo.
“Sentite, voi…
mi ci potreste portare?”.
A quella
richiesta, il viso del vecchio si tese. Gli occhi scuri, d’un tratto
ancora più piccoli sotto le sopracciglia arcuate, si riempirono di
timore e sospetto.
“Portarti? Io…
portare te sull’isola? Dici di conoscerla bene, giovanotto. Ma forse ti
è sfuggito il piccolo dettaglio che Ambalmíre è sacra. Nessuno di noi
può approdarvi, o avvicinarsi troppo ai suoi argini. Da quando la luce
di Nimloth si è estinta, poi, il divieto degli Dei si è fatto ancora più
rigoroso”.
Il giovane, da
sotto il cappuccio, sospirò.
“Oh, certo. Ma
allora cosa mi dite del castello nascosto dalla vegetazione? Se c’è
un’abitazione ci sarà pur qualcuno…”.
“Sono solo
delle rovine abbandonate”, lo interruppe l’altro, secco. “Una volta si
diceva ci vivesse un uomo di nome Beren, il quale era anche il custode
dell’isola e di Nimloth. Ma alcuni dicono sia solo una leggenda… di
molti, moltissimi anni fa”. Rivolse un breve sguardo alla sagoma nitida
di Ambalmíre per poi tornare a fissare, torvo, il viandante.
“Ora, però, non
c’è nessuno fra quelle mura. Te lo posso assicurare”.
Lui fece un
passo in avanti, pensieroso.
“Beren… ”,
ripetè. “Non avevo mai sentito questa storia. Strano… ”.
“Beh, mi
dispiace per te, figliolo, ma le cose stanno così”, replicò allora il
pescatore, guardandosi intorno per assicurarsi che nessuno stesse
ascoltando la loro conversazione. “E se vuoi un buon consiglio, credo
che faresti bene a non domandare a nessun altro quello che hai chiesto a
me. Qualunque cosa riguardi le rovine di Ambalmíre, Nimloth o il fatto
di raggiungere l’isola… sono argomenti tabù, qui. Soprattutto in bocca
ad un forestiero. Potresti ritrovarti cacciato da Valánen in men che non
si dica”.
Detto questo il
vecchio si voltò, per avanzare verso uno dei pontili del molo. Slegò la
cima di una barca a remi fissata al pontile, poi guardò un’ultima volta
il ragazzo.
“Ah,
dimenticavo. Evita anche di parlare delle Ombre”. Sorrise. “E buona
giornata”.
Il giovane
dagli occhi chiari osservò l’uomo allontanarsi verso il largo,
scivolando con la piccola imbarcazione sull’acqua liscia. In realtà si
era aspettato una reazione simile, ma aveva voluto tentare lo stesso.
Scosse il capo.
La gente era davvero intimorita dagli Dei, forse troppo. Ma come dargli
torto dopo ciò che era successo trent’anni prima, ad
êlar?
Nessuno l’aveva
scordato, e nessuno l’avrebbe mai fatto. L’orrore era iniziato proprio
allora, per non allontanarsi più.
Madre…
Un velo triste
si posò sul suo bellissimo viso, ma fu solo per poco. Con un paio di
lunghe falcate si ritrovò nuovamente immerso nella confusione del
mercato, ed una volta tornato sul sentiero che attraversava il paese si
infilò in un viottolo secondario.
A quanto pare,
avrebbe dovuto arrangiarsi da solo.
***
Di notte,
l’aria di Valánen profumava di caprifoglio e gelsomino.
Seduto con la
schiena appoggiata contro il muro di una casa, teneva gli occhi chiusi.
Aveva assaporato per tutta la sera quell’odore, aspettando così,
silenzioso e immobile, il sorgere della luna e lo svuotarsi delle strade
del paese.
Come gli aveva
detto quella mattina il pescatore, era decisamente meglio che nessuno
venisse a sapere che voleva raggiungere l’isola. E soprattutto, era
meglio che nessuno lo vedesse mentre lo faceva.
Si alzò,
rimettendosi sulle spalle una specie di borsa che aveva sempre avuto con
sé, fino dal suo arrivo a Valánen. Nella parte alta sporgeva qualcosa
dalla forma non ben definita, coperta con una sorta di telo.
“Ok, andiamo”,
mormorò a se stesso.
Tenendo sempre
il cappuccio calato sul volto, si avvicinò piano all’argine contro il
quale si infrangevano, silenziose, le onde del lago. Era stata una vera
fortuna trovare quella piccola spiaggia nascosta tra le case del paese,
con in più una barca a remi adagiata sulla battigia di sabbia e pietra.
Slegò il nodo
della cima, legata ad un anello di ferro piantato nella roccia, e con un
agile salto preceduto da una spinta decisa si ritrovò ben presto al
largo.
La luce della
luna, quasi piena sopra di lui, splendeva chiara sulle acque del lago,
che catturava la sua immagine tramutandola in mille cristalli lucenti.
Si muovevano sulla superficie scura moltiplicandosi e brillando sotto
gli occhi del forestiero, per poi spezzettarsi ancora e scorrere via ai
lati dell’imbarcazione quando questa, avanzando verso l’isola, si faceva
strada nell’acqua appena mossa.
I remi si
immersero nei flutti più volte fino a che, simile ad un’enorme macchia
scura stagliata contro un cielo leggermente più chiaro, l’isola si fece
finalmente vicina. Chiunque sarebbe stato spaventato dall’idea di
avventurarsi da solo, in quel posto, a notte fonda, ma lui non provava
alcun timore. Anche se il vecchio non glie l’aveva detto esplicitamente
era certo che tutti, a Valánen, credessero che qualcosa esisteva ancora
su Ambalmíre. Strane presenze, o più probabilmente una maledizione.
Girò per un po’
intorno agli argini irregolari, mantenendosi ad una decina di metri di
distanza per cercare un punto dove attraccare. Alla fine si ricordò del
declivio che aveva notato dalla piazza del paese, e remando
energicamente puntò verso il lato più nascosto dell’isola.
Nonostante il
loro apparente rispetto e l’impeccabile devozione che mostravano per gli
Dei, infatti, da quando le Ombre erano comparse per la prima volta nella
zona tutti coloro che abitavano fra le colline che incorniciavano il
lago avevano cominciato a dubitare. A dubitare di ogni cosa, soprattutto
della benevolenza degli Dei. E a credere a certe storie, certe voci…
Nessuno
l’avrebbe mai ammesso. Ma adesso che era lì, lui voleva verificare
almeno ciò che era possibile. Vedere con i suoi occhi.
Se lo sapesse…
Non vorrei
causargli un dolore.
Ma le sue
parole vaghe, ormai, non mi bastano più.
Toccò terra con
un tonfo sordo. Una volta sceso, tirò l’imbarcazione verso un tronco
che, messo di traverso, occupava una parte del piccolo spiazzo fatto di
sassi ed erba, contornato da alberi dai grandi fiori color crema. Fissò
la barca ad un ramo che sporgeva dalla pianta morta, e rimesso sulla
schiena il fagotto misterioso si incamminò su un sentiero che
s’inoltrava fra i cespugli.
Dopo aver
proseguito nel piccolo bosco per una decina di minuti sbucò
improvvisamente su una stradina. Del tutto simile a quelle che
attraversavano Valánen, ma silenziosa e tristemente desolata sotto il
chiarore delle stelle, faceva sicuramente tutto il giro dell’isola.
Decise di
seguirla. Non aveva idea di dove si trovasse esattamente ciò che stava
cercando, quindi tanto valeva andare a caso. E comunque, era una buona
occasione per dare un’occhiata generale.
Non riusciva a
credere di essere il primo che, dopo chissà quanti decenni, metteva
piede su Ambalmíre. Soprattutto perché ogni cosa, dalle pietre levigate
del selciato alle rigogliose piante che adornavano l’isola, pareva
essere lì da pochissimo, oppure apparsa improvvisamente dal nulla. I
fiori e gli alberi, in particolar modo, davano l’impressione che una
mano gentile li avesse sempre curati e controllati, facendo in modo che
nulla fosse mai fuori posto. In giro non c’erano rami spezzati o mucchi
di foglie vecchie e ingiallite, né si vedevano cespugli cresciuti senza
controllo o piante rampicanti che invadevano la strada.
“Forse non
hanno tutti i torti… ” si disse, osservando sempre più stupito la
perfezione di quel luogo che credeva dimenticato. “Mi chiedo se non ci
sia davvero…”.
Si interruppe,
voltandosi di scatto. Un fruscio, poco più indietro.
Scostò
leggermente il cappuccio dal viso per controllare meglio la zona.
Sembrava tutto tranquillo. Si chiese se fosse il caso di prendere
qualche precauzione, ma girato l’angolo la comparsa dell’oggetto delle
sue ricerche lo colse di sorpresa, facendogli dimenticare ogni oscuro
presentimento.
Nimloth, il
leggendario Albero Bianco, si ergeva in tutto il suo splendore in
un’area erbosa circondata da salici piangenti e querce ombrose, che come
per proteggerlo custodendolo da occhi indiscreti si alzavano alti e
possenti verso la volta stellata.
Il tronco,
candido come il latte, brillava nell’aria così come i rami, sottili ma
forti, simili ad una corona d’argento posata sulla chioma scura della
notte.
Il ragazzo
sorrise. Allora esisteva davvero...
La sua gioia
stupita si tramutò però in tristezza quando notò che non c’erano né
foglie, né fiori su quelle braccia chiare. Probabilmente, non ne
crescevano da parecchio tempo…
E così è
accaduto.
Adesso che l’ho
visto anch’io, lo so…
Si avvicinò
lentamente, con un timore quasi reverenziale, alla corteccia candida. La
sfiorò, senza rendersi conto di una lacrima che, scendendogli lungo la
guancia, gli macchiò il mantello.
“… ma non posso
credere che non ci sia più nulla da fare…”, sussurrò a se stesso,
appoggiando la fronte contro l’albero. “… deve esserci un modo per farlo
rinascere, ed io lo troverò… ”.
Sollevò gli
occhi azzurri verso i rami nudi, per poi allungare le labbra,
malinconicamente.
“… te lo
prometto”.
Fece per
voltarsi, ma qualcosa di incredibilmente veloce lo afferrò d’improvviso
ad una spalla. Tenendolo per la chiusura del mantello la presenza
misteriosa lo buttò violentemente a terra, facendogli, tra l’altro,
picchiare la testa contro le radici dell’Albero Bianco. Il ragazzo si
portò subito una mano dietro al collo, in preda ad un dolore lancinante,
ma la punta lucente di una spada apparsa all’improvviso sotto il suo
mento lo persuase a rimanere immobile.
“Bene bene”,
disse quindi una voce maschile, con tono leggermente ironico.
“Sinceramente non mi aspettavo una visita dopo tanto tempo. Sei venuto a
controllare che faccia il bravo?”.
L’altro cercò
disperatamente di mettere a fuoco il viso dell’uomo, tentando anche di
aprire la bocca per rispondere a quella domanda che per lui non aveva
alcun senso, ma il dolore fu più forte della sua volontà.
Svenne, e
l’ultima cosa che vide fu l’intrico luminoso dei rami di Nimloth, una
rete d’avorio contro l’ebano liquido del cielo.
To Be Continued… |