.|. The End .|.

Capitolo Quattro

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“Si sta dissolvendo, Estel, l’ho visto nel sogno.”

 

“Ma era solo un sogno, come fai--”

 

“Lo sento! L’ho visto...”

 

Aragorn rimase in silenzio, l’angoscia e la rabbia con cui Legolas aveva vomitato quelle poche parole lo avevano spiazzato.

 

Prostituta di corte. Passatempo del re. Disonore della sua stirpe. Indegno del sangue Sindarin.

Con queste parole, Thranduil aveva rinnegato per sempre il suo unico figlio, incapace di accettare il suo amore per un umano e, ancora di più, il suo ruolo di amante confinato.

 

Aragorn non aveva biasimato Thranduil per non essere riuscito a comprendere la scelta di Legolas e, in cuor suo, aveva perfino segretamente sperato che le parole del padre lo portassero a prendere una decisione che, seppur straziante per entrambi, avrebbe risparmiato almeno all’Elfo il tormento di vivere un’esistenza nell’ombra.

Ma Legolas aveva abbandonato tutto pur di stargli accanto: suo padre, il trono a cui aveva diritto, la sua terra e il suo popolo, accettando il ruolo di Capitano degli Arcieri e accontentandosi delle briciole del suo tempo, dei pochi momenti rubati ai suoi doveri di sovrano e a quelli di consorte.

“Tu non capisci, Aragorn, non posso lasciarti, sono legato a te e non posso spezzare questo legame.”

E invece lui, Aragorn, capiva eccome: quello stesso legame con cui molto tempo prima Arwen si era legata a lui e che lui non osava spezzare per paura di condannarla a morte.

Da quel giorno, Legolas non aveva più parlato di suo padre ma un po’ della luce dei suoi occhi si era spenta per sempre.

 

“Perché non provi a scrivergli? Abbiamo messaggeri che passano per Mirkwood molto di frequente.”

 

“E perché dovrei? Non risponderebbe. Io per lui sono morto, ricordi?” Lo disse senza voltarsi. Se lo avesse fatto, Estel si sarebbe accorto delle lacrime che gli bruciavano gli occhi e lui non voleva questo.

Aragorn non rispose e si limitò a cingerlo con le braccia, appoggiando la fronte sui suoi capelli. In quei momenti le parole non sarebbero servite a nulla.

 

Qualcuno bussò alla porta. “Mio Signore.” Aragorn chiuse gli occhi maledicendo chiunque fosse. Strinse Legolas ancora più forte, come per aggrapparsi a qualcosa che lo costringesse a rimanere, ma lo sentì irrigidirsi e poi, lentamente, svincolarsi dal suo abbraccio.

 

“Vai, Aragorn.” Sempre senza voltarsi.

 

“Legolas...”

 

“Mio Signore, vi prego, è urgente...” La voce era esitante, quasi spaventata. Chiunque sapeva che quando era in quell’ala del palazzo non doveva essere disturbato, a meno di un fatto grave.

 

“Ritorno il prima possibile. Questa sera ci faremo servire il pasto qui e continueremo a parlare.”

Sentì la colpa nelle proprie parole e non se ne vergognò; era una sensazione a cui aveva fatto l’abitudine: ogni momento che non passava con lui, ogni notte in cui non erano insieme era per colpa sua, non certo di Legolas che lo aspettava, in silenzio, senza dire nulla, senza mai protestare.

Ti sto facendo del male.

 

“Vai Aragorn, io ti aspetto.” Si voltò per guardarlo e gli sorrise, cercando di mascherare ancora una volta la delusione per il poco tempo che potevano passare insieme. Ma lui non aveva diritti.

 

Aragorn lo baciò sulla fronte, soffermandosi per un attimo sulla meravigliosa sensazione della sua pelle tiepida contro le labbra e si alzò con il cuore pesante. Aveva imparato a leggergli dentro e, dietro quel sorriso rilassato e condiscendente, sapeva che si nascondeva una sempre maggiore inquietudine.

 

“A dopo, allora.”

 

“A dopo.”

 

Uscì dalla porta e fissò con rabbia il povero messaggero che era stato spedito a disturbarlo. Era solo un ragazzino, con le lentiggini, pallido come la morte e terrorizzato. Sentì la rabbia sciogliersi lentamente; che colpa ne aveva il ragazzo, giravano storie di servitori ammazzati e donzelle rinchiuse per sempre nelle segrete perché avevano osato disturbarlo mentre era con “l’Elfo”. Erano naturalmente storielle nate per spaventare i più giovani, di cui anche lui e Legolas avevano riso agli inizi.

 

“Spero che sia veramente importante.” Tentò di mantenere un tono serio e corrucciato ma il panico che vedeva negli occhi del ragazzo gli rendeva difficile l’operazione e sentì che stava per mettersi a ridere.

 

“Mi... mi dispiace...m...mio.. Signore...L...Lady Arwen... vi vuole vedere...s...subito. Dice che è importante. Che mi caccerà... se non vi... convinco ad andare da lei.” Le ultime parole uscirono tutte d’un fiato e il valletto abbassò la testa in attesa che il Re gliela tagliasse.

 

Aragorn cercò di controllare la rabbia feroce che gli stava montando dentro. Il ragazzino non c’entrava nulla. Ma Arwen... lei sapeva, quante volte ne avevano parlato.

 

“Per questa volta il tuo posto è assicurato e la tua vita è salva, anzi, dirò a... Lady Arwen che sei stato molto coraggioso.” E con queste parole se ne andò, lasciando il ragazzo a fissarlo sbigottito. Se si era accorto del veleno con cui aveva sputato il nome di sua moglie, non lo aveva dato a vedere e, in fondo, al Re, questo importava ben poco.

 

***

Legolas si alzò a fatica del letto, si coprì con una tunica leggera e si diresse verso la finestra che dava in uno dei giardini interni che Aragorn aveva fatto creare per lui. Appoggiò la fronte al vetro e pensò che a Mirkwood non esistevano vetri alle finestre, e che le finestre stesse erano ricavate in modo naturale dalla struttura dei rami degli alberi intorno ai quali era costruito il palazzo. Bastava allungare una mano per sentire il respiro della Natura accarezzare la pelle. Non come a Minas Tirith....

Scacciò quel pensiero, non voleva pensare a Mirkwood, non voleva pensare a suo padre. Voleva solo tornare a dormire e svegliarsi fra le braccia di Aragorn. Ma quella sera non sarebbe venuto da lui; quella sera c’era la festa in onore della delegazione di Rohan che era venuta rendere omaggi al loro re e a portare notizie sul suo Regno. Aragorn se ne era dimenticato, angosciato com’era del senso di colpa e desideroso di porre rimedio al fatto che lo stava lasciando solo ancora una volta. E Legolas non glielo aveva ricordato: non sarebbe servito a nulla se non a peggiorare l’infelicità di quel momento.

 

Lo scorrere dei suoi pensieri fu interrotto da un guizzare di nero e oro fra il verde delle piante. Legolas sorrise. C’era solo una persona che, come lui, apprezzava la tranquillità silenziosa di quello spazio nascosto, una persona che, come lui, aveva nel cuore la foresta di Mirkwood e che l’aveva vissuta e amata ancora prima, quando il suo nome era Greenwood.

Erestor e Glorfindel uscirono dalla macchia scura dei cespugli e camminarono piano verso lo stagno che stava sul fondo opposto del giardino, la chioma dorata del secondo che si confondeva con quella corvina del primo mentre si chinava a baciarlo sulle labbra.

 

Ancora una volta, Legolas rimase incantato a guardare il contrasto meraviglioso che creavano: alto, imponente, con i capelli colore dell’oro e la carnagione colorata dal sole Glorfindel, sottile, con i capelli corvini lunghi fino alla vita che incorniciavano un visto perfetto color della luna Erestor. Solare, sempre pronto al divertimento e ad una bevuta in compagnia il primo, silenzioso, quasi distaccato e misterioso il secondo. L’uno coraggioso capitano dell’Esercito Reale, l’altro astuto Primo Consigliere di Elrond prima e di Aragorn ora.

La loro insofferenza reciproca era stata quasi leggendaria, i mille scherzi e le frasi pesanti con cui Glorfindel si divertiva a mettere in imbarazzo Erestor di fronte agli altri erano altrettante famosi delle battute taglienti con cui Erestor lo riduceva al silenzio.

Poi, un giorno, all’improvviso, avevano sconvolto tutti annunciando pubblicamente che avevano celebrato privatamente il loro legame eterno.

Era un’epoca ancora lontana dalla guerra dell’Anello e Legolas aveva appena raggiunto la maturità; ma c’erano già da allora guerre da combattere e gli eserciti di Mirkwood e Imladris si erano uniti per fronteggiare l’invasione degli Esterling. La notte prima che gli eserciti si muovessero, Glorfindel, che li comandava entrambi, aveva fatto un discorso pieno di passione sulla morte e sul sacrificio per salvare la propria gente. Lui che già una volta era morto difendendo il regno di Gondolin ed era rinato per volere di Mandos, si era dichiarato pronto a morire di nuovo se fosse stato necessario. Nessuno, a parte Legolas, aveva notato gli occhi di Glorfindel posarsi per un istante brevissimo su Erestor, mentre parlava delle persone amate che sarebbero rimaste e sempre nessuno, a parte lui, aveva notato il tremito sulle labbra del Primo Consigliere a quelle parole, mentre la sua mano, involontariamente, stringeva la stoffa della tunica all’altezza del cuore.

Quella notte, come aveva saputo in seguito, Erestor era andato da Glorfindel. Quella notte, avevano celebrato il rito che li avrebbe uniti per sempre. Se Glorfindel fosse morto in battaglia, Erestor lo avrebbe seguito, in una molte molto più lenta e dolorosa: sarebbe morto di dolore.

 

Attraverso il vetro Legolas sentì le deboli proteste di Erestor ai baci sempre più appassionati di Glorfindel e sorrise: era felice per loro e, allo stesso tempo, li invidiava. Loro esistevano l’uno per l’altro, non dovevano nascondersi, non dovevano fingere di accettare una situazione di compromesso. A loro il giudizio degli altri non interessava. Loro non dovevano a tutti i costi mettere al mondo un erede.

Si staccò all’improvviso dalla finestra e si chiuse la tunica sul petto. Strinse le mani l’una nell’altra per evitare che tremassero. Aveva sentito qualcosa, qualcosa che non riusciva a definire, come se un soffio freddo lo avesse attraversato. Ma non c’era nessuno in quella stanza, a parte lui. Poi, chiaro, lo sentì, il dolore di suo padre, e lo lasciò senza fiato. Aspettò che passasse, come succedeva sempre, e, lentamente, cominciò a vestirsi.

 

***