.|. The End .|.

Interludio - Farewell

(scritto da Lady Ninde.... grazie tesoro)

~

Andarmene. Era quello che dovevo fare, da fin troppo tempo. Anche se mi ucciderà dell’assurda morte degli elfi, che dissolve lentamente il cuore senza impedirgli di soffrire di più. Anche se non era questo che ti avevo promesso, quella notte di tanto tempo fa.

Sono io che ti ho lasciato, alla fine. Strano, a pensarci: io. Proprio io che non ti avevo chiesto mai nulla, che passavo le mie notti in silenzio senza averti e i miei giorni a dividerti in pubblico con tutti quelli che ne avevano più diritto di me. Che avevo rinunciato, perché continuassi a tenermi, a tutto quello che mi aveva fatto amare da te. E avevo dimenticato il coraggio, la decisione e i gesti di quand’ero un guerriero, per apprendere poco a poco, un giorno per volta, la dolorosa arte della pazienza.

Non so cosa mi stia dando la forza, adesso, cosa muova i passi delle mie gambe e il cuore nel mio petto, e perché, mentre mi allontano da te, io continui assurdamente a respirare. Non so perché stia continuando a sentire che sono vivo, con questo male feroce che si espande dentro e schianta tutto quello che incontra, e soffoca quel poco che resta dell’anima, la memoria cui mi aggrappo senza capire, e i miei ricordi disperati di te.

Eppure me ne sto andando.

 

Perdonami, ti sto facendo soffrire.

Ma no, no. Perché?

Perché ti sto chiedendo di perdonarmi? Perché mi sento in colpa io, adesso, e vorrei provare al tuo posto questo dolore, purché non lo provassi tu?

Eppure è così, mi sento in colpa. Dopo la sofferenza e i tuoi sguardi, dopo il pianto e la sete riarsa del cuore, dopo il modo in cui mi facevi sentire inutile anche solo dicendomi che mi amavi. Dopo lo strazio delle tue carezze, delle nostre lacrime, dell’aspettarti sempre e comunque, anche sapendo che non saresti venuto. Anzi, proprio per questo, di più.

Dopo l’amore, e la pelle contro la tua, e la tua bocca, i tuoi baci, il tremito sommesso del tuo respiro, e il tuo piacere, e te.

Dopo quanto ti ho amato e ti amo, mi sento in colpa.

 

Lo so, non ne sei responsabile.

Non potevi fare diversamente.

Hai un dovere da compiere, delle attese da soddisfare.

Me lo sono ripetuto infinite volte.

Ma perché, perché tutto questo non ha più alcun senso, per me? Ogni volta che me lo ripeto mi sembra più vuoto , e me ne importa di meno.

Non m’importa del tuo dovere, del tuo destino, della discendenza, del tuo ruolo di re. Che si fottano tutti quanti.

Non ha senso. Non capisci che non ha senso?

Non puoi scegliere ciò che non ha valore.

Non c’è niente che abbia valore, se non prevede te e me.

 

Andarmene. Dovevo andare, per liberarti; e per liberarmi. Non posso guardare ancora il tuo viso esausto, il tuo sonno inquieto e senza conforto. Non posso sopportare che tu paghi ogni bacio che mi dai facendo compromessi con il tuo cuore, con la rinuncia a un piccolo pezzo di te stesso e della tua dignità. È per la tua lealtà che ti ho amato, e non voglio che amare me la distrugga. Ti ho amato per il tuo spirito puro, e tu lo hai consumato per me.

 

Perdonami. Perdonami per stanotte. Volevo appartenerti e volevo che appartenerti mi facesse star male. Come me ne fa ogni giorno, da troppo tempo. Volevo il dolore e i segni del tuo corpo sul mio per cancellare le ferite tagliate dentro dal bisogno di te. Volevo nascondermi tra le tue braccia, e sentirti morire nella mia carne. Ancora una volta, per l’ennesima volta, anche sapendo che non ci avrebbe saziato sbatterci sopra un letto e stare uno dentro l’altro gemendo, cercando di annullarci un istante come se bastasse ad essere insieme davvero, a scordare tutto.

 

Non pensarmi, non desiderarmi, non venirmi a cercare... non farlo, ti prego, io non voglio più niente. Noi non potevamo amarci, non dovevamo amarci. Basta, è brutale e semplice, è tutto qui.

 

Strano, sono stato io a lasciarti, stanotte. Proprio io che avrei dato qualunque cosa per non perderti, che aspettavo la tua decisione impossibile per paura di dover decidere io. Parole che non avresti mai detto, gesti che non avresti compiuto, l’abbandono e la gioia completa del riconoscerci, finalmente, senza muri da scalare ogni istante aggrappandosi con le dita ferite, e voragini in cui saltare dimenticando che una luce esisteva, ma molto lontano da noi. L’ho fatto perché dovevo, e non mi sento più forte, più sensato, adesso. L’ho fatto senza che potesse rimanermi addosso il conforto di aver avuto coraggio, almeno. Non c’è coraggio nel compiere una scelta cui ti hanno costretto, alla fine, eventi contro i quali hai lottato con tutta la rabbia che avevi.

Ho lottato, ho perso, ti ho perso. È estremamente semplice da spiegare.

 

Eppure è impossibile da comprendere. Perché comunque, qualunque cosa io cerchi di fare per sopportarlo, non potrò accettare veramente quanto è successo. Non potrò atteggiare le labbra a un sorriso, fingere un distacco che non possiedo, stringermi una mano sul petto e, semplicemente, strapparti via.

Non posso fare come se non ti amassi. Non posso desiderare di darti un dolore prendendomi una meschina vendetta. Non posso smettere di cercare il profumo che il tuo corpo ha lasciato sui miei vestiti.

Non posso non amarti: posso soltanto costringermi a stare senza di te.

 

Ma questo puoi farlo anche tu, se io posso.

Si tratta soltanto di dire basta.

Chiudi i tuoi occhi, amore, adesso ascoltami, e smettila di pensare. Chiudili, ora dimentica, è solo questo. Devi soltanto impegnarti per dimenticare. Non voglio che tu soffra per avermi fatto del male: non è stata soltanto una colpa tua. Lo so che ti ho fatto male, amandoti. Lo sapevo anche prima. Ma non ho potuto impedirmelo, non ho saputo resistere. Non ho resistito più a niente, da quando ho trovato te.

 

*

 

È tardi, ed è buio lungo questo sentiero. L’aria fresca della notte nel bosco non è come stare tra le tue braccia.

Stare con gli occhi chiusi dentro al tuo abbraccio.

Adesso ho freddo, e questo freddo di foglie e vento io non lo so riconoscere più. Non conosco più niente della strada che sto facendo.

 

Ma non importa, qualunque strada va bene.

Mi porterà dove deve.

 

Capitolo Nove

~

Cercava di pensare lucidamente mentre attraversava a grandi passi il cortile del castello, in direzione delle stalle. Non sapeva per quanto aveva dormito, non sapeva da quanto tempo se ne era andato, ma sapeva che bastava poco perché Legolas facesse diventare incolmabile la distanza che li separava. Era un Elfo Silvano: conosceva strade e sentieri nei boschi che lo avrebbero reso invisibile a tutti, anche a lui.

 

Aveva le mani che gli tremavano mentre sellava Brego, non sapeva se per la rabbia, per la paura o per il dolore. Doveva raggiungerlo e riportarlo indietro. Questa era l’unica cosa che la sua mente riusciva a focalizzare.

Infilò un piede nella staffa e, all’improvviso, qualcosa gli bloccò il polso facendogli male. Si girò di scatto per vedere chi osava un gesto del genere e rimase paralizzato davanti al volto sconvolto del suo Primo Consigliere.

 

“Erestor....”

 

L’Elfo era pallido, ma di un pallore diverso dal solito, reso ancora più evidente dagli occhi arrossati e dai cerchi scuri che li contornavano. Avrebbe voluto parlargli, dirgli che non era colpa sua, che lo avrebbe riportato indietro a tutti i costi, ma qualcosa nell’espressione stranita di Erestor gli bloccò le parole in gola.

 

“Dove credi di andare?” Il tono di voce era basso e controllato, ma Aragorn percepì chiaramente il risentimento contenuto in quelle poche parole. Cercò di recuperare la dignità del suo ruolo e, con uno strattone deciso, liberò il polso dalla morsa della mano dell’altro.

 

“Vado a riprenderlo, non permetterò che--”

 

“TU non vai da nessuna parte.”

 

Il tono di voce non era cambiato ma Erestor aveva ridotto con un passo la distanza fra di loro e si ritrovarono di colpo faccia a faccia. Per un attimo Aragorn pensò all’assurdità di quella situazione: dovevano essere uniti in un momento come quello e invece sembravano due lupi selvatici sul punto di saltarsi alla gola.

Si girò cercando di ignorare la presenza minacciosa dell’altro ma Erestor lo afferrò per le spalle, facendolo voltare di scatto e intrappolandolo contro il muro.

 

“Non ti sembra di avergli fatto già abbastanza male? Non capisci che se lo riporti qui finirai per ucciderlo? È un guerriero, Aragorn, un combattente. Qui stava perdendo tutto, la sua identità sopra ogni cosa...”

 

Erestor sapeva che quello che stava facendo era una follia: sfidare il suo re in modo così diretto... ma non era riuscito ad impedirselo. Il dolore che provava era troppo forte e, in quel momento, quella era l’unica cosa che lo aiutava a sopportarlo.

 

“Erestor... io e Legolas siamo legati per l’eternità, lo sai meglio di me che è proprio spezzando questo legame che può morire...”

E io non posso sopportare di perderlo.

 

“Ma può anche decidere di salpare per Valinor,” non aveva allentato la presa su Aragorn ma la rabbia si era affievolita e stava lentamente lasciando il posto alla disperazione: voleva tanto che l’uomo capisse... “e non sarebbe comunque una morte peggiore rimanere qui, a guardarti da lontano mentre porti avanti la tua vita, mentre ci sarà sempre una priorità, un dovere da rispettare, un ruolo da seguire, che ti terranno lontano da lui? Non sarete mai liberi di amarvi, Aragorn, e questo lo sai, e lo sa anche lui. Dovrete sempre rendere conto a qualcuno o a qualcosa; sarete sempre costretti a nascondervi dagli occhi di chi non capisce o non vi accetta. E, per quanto possa essere grande il vostro amore e forte il legame che vi unisce, finireste per farvi ancora più male fino a che, un giorno, tu morirai e lui rimarrà da solo a sopportare il peso di un’esistenza tutta sbagliata e si renderà conto di avere rinnegato sé stesso, ma per cosa? E allora sì che morirà, di dolore, di solitudine e non ci sarà nessuno a consolarlo...”

 

Le ultime parole gli si spensero in un singhiozzo soffocato.

Aragorn rimase come paralizzato a fissare l’Elfo: le sue parole lo avevano travolto ma la cosa che più lo sconvolgeva era la disperazione non più celata con cui erano state pronunciate. Era come se vedesse Erestor per la prima volta, dietro la maschera che portava tutti i giorni.

 

“Devi amarlo molto vero?”

 

“Più di quanto tu possa immaginare. Ti prego Aragorn, non costringermi a fermarti.”

 

Per un attimo, l’uomo vide qualcosa luccicare nella mano dell’altro e si accorse che era un piccolo pugnale. Riportò lo sguardo sul volto di Erestor e capì che non avrebbe esitato ad ucciderlo se avesse provato anche solo a montare a cavallo

 

“ERESTOR!”

 

La voce potente li fece sobbalzare entrambi. Erestor si girò di scatto, lasciando cadere il pugnale.

 

“Erestor! Ma cosa credi di fare? Sei impazzito?”

 

Glorfindel raccolse il pugnale e guardò il suo compagno, incredulo. Poi, lo mise al sicuro nella sua cintura e si voltò verso Aragorn.

 

“Ti prego Estel, perdonalo, è fuori di sé...”

 

“NO! Non sono fuori di me, Glorfindel, so benissimo quello che sto facendo, e lo sai anche tu che--”

 

Glorfindel lo afferrò per le spalle, facendogli male, un’espressione indecifrabile gli oscurò il viso.

 

“Ora basta, ‘Res, stai perdendo il senso della ragione. Legolas non è tuo figlio, non lo è mai stato e non lo sarà mai. Devi smetterla di pretendere di sapere quello che è meglio per lui, perché non lo sai. Cosa ne sai che invece, forse, non è proprio quello che vuole, che Aragorn vada a riprenderlo? Cosa ne sai che magari non sta morendo, da solo, lontano da tutti?”

 

Si rese conto che forse stava esagerando, vedeva Erestor scuotere la testa con forza, ma non riusciva a fermarsi. In un angolo, Aragorn osservava la scena come in un incubo, registrando appena lo scambio fra i due. La sua mente stava febbrilmente elaborando quello che gli aveva detto Erestor e, dolorosamente, si stava rendendo conto che aveva ragione.

 

“No Fin, lo sai che ho ragione. Ma forse ti fa comodo così, forse non hai mai sopportato il legame che c’era fra me e Legolas perché ti sentivi escluso e non potevi avermi tutto per te, come del resto deve essere ogni cosa che ti riguarda: tua e di nessun altro. Adesso hai la tua grande occasione di liberarti per sempre di lui. Non è così?”

 

Ansimava e sentiva il cuore martellare nel petto mentre sputava quelle parole come per liberarsi di un veleno troppo a lungo in circolo: non credeva ad una sola sillaba di quello che usciva dalle sue stesse labbra, ma, ugualmente, dirlo lo faceva sentire meglio. Aveva bisogno di indirizzare la sua rabbia verso qualcuno, e quel qualcuno era Glorfindel.

Vide lo sguardo incredulo di Glorfindel e le sue mani abbandonare di colpo la stretta sulle sue spalle.

 

“Erestor... ma cosa stai dicendo... lo sai che voglio bene a Legolas tanto quanto te--”

 

“Dici?” Erestor lo fissò con uno sguardo di gelido distacco, uno sguardo che Glorfindel credeva di avere dimenticato. “Allora, se è così, proibisci a quell’uomo di andare a cercarlo, perché, altrimenti, puoi anche fare a meno di farti rivedere.”

 

Non aggiunse altro, si girò di scatto e uscì a grandi passi dalla stalla. Glorfindel rimase a lungo a fissare la figura che si allontanava fino a che non sparì nel colonnato che portava  al suo studio. Le parole di Erestor lo avevano ferito profondamente, non solo perché non erano vere, ma perché, per la prima volta, si era sentito messo in disparte. Il cuore di Erestor non era mai stato di suo totale appannaggio, ma, rendersene conto così brutalmente gli fece male.

Sospirò profondamente e si ricordò di Aragorn.

 

“Estel... io... mi dispiace, credimi.”

 

Il re sorrise, ma era un sorriso amaro e triste.

 

“No, Glorfindel, non c’è niente di cui scusarsi. Erestor ha ragione. Se lo vado a prendere e lo riporto qui lo obbligo ancora una volta a sottomettersi ad una scelta che non è sua. Se lo lascio andare, almeno gli dimostro di avere rispetto per la sua decisione. E poi, forse, potrebbe decidere di tornare di sua volontà.”

 

Mentre lo diceva, si rese conto che era una pietosa bugia detta a sé stesso per rendere più sopportabile il dolore. Si appoggiò pesantemente contro il muro e scivolò a terra. Rimase a fissare il vuoto mentre le lacrime gli annebbiavano la vista.

Senza dire nulla, Glorfindel gli si inginocchiò di fronte, lo circondò con le braccia e lo attirò a sé, lasciando che piangesse tutta la sua disperazione col viso nascosto sulla sua spalla.

 

***

 

“È vero allora?”

 

Faramir osservò con ansia il volto teso e preoccupato del suo compagno. Éomer fece un cenno di assenso con la testa e si lasciò cadere stancamente sulla poltrona vicino al camino.

Senza parlare, Faramir si alzò dal suo posto vicino alla finestra e andò a sedersi al suo fianco, abbracciandolo. Rimasero per un attimo a fissare le fiamme, entrambi chiedendosi cosa sarebbe successo ora.

 

“Ho provato a parlare con Aragorn, ma non vuole vedere nessuno. Si è chiuso nella sua stanza da questa mattina, solo Glorfindel è entrato. Ho incrociato Arwen, aveva un’espressione di trionfo... avrei tanto voluto colpirla...”

 

Faramir sorrise e lo baciò sui capelli, era tipico di Éomer reagire in quel modo alle cose: in questo erano così diversi loro due, come il giorno e la notte. Ma questa volta pensò che gli sarebbe piaciuto fare di peggio alla “cara” regina, solo che non lo disse.

Éomer sospirò e si accomodò meglio contro il corpo dell’altro.

 

“Mi chiedo perché ci hanno impedito di seguirlo e riportarlo indietro.”

 

“Ci sono delle cose che non dipendono da noi e altre che non si possono spiegare: in questo caso tutte e due. Sicuramente ci sarà un motivo dietro questa scelta e, comunque, anche se non ci fosse, non abbiamo il diritto di intrometterci. L’unica cosa che possiamo fare è stare vicini ad Aragorn. Forse dovremmo rimandare di un po’ la nostra partenza per Rohan.”

 

Éomer si voltò di scatto verso Faramir, gli prese il volto fra le mani e lo baciò con trasporto sulla bocca. Era dal momento stesso in cui aveva saputo della partenza di Legolas che meditava una cosa del genere: non se la sentiva di abbandonare Aragorn, non in quel momento; d’altro canto, da quando avevano deciso di tornare insieme nel Mark, Faramir era come rinato: aveva smesso di fare domande su quello che era successo, aveva ripreso a sorridere e a scherzare e non era passata una notte senza che avessero fatto l’amore.

 

“Lo sai che ti adoro, vero?”

 

Lo baciò ancora sulle labbra e rimase a guardare il bel viso di Faramir aprirsi in un sorriso sereno.

 

“Certo che lo so! Ma non penserai certo di cavartela con questo, vero?”

Gli occhi si erano socchiusi e la bocca si era piegata in una smorfia che Éomer conosceva più che bene. Era l’inizio di un gioco che gli piaceva particolarmente.

 

“No, certo che no. E cosa devo fare, mio signore, per dimostrarti quanto ti sono grato?”

La sua voce era diventata bassa e sottomessa e, mentre parlava, era scivolato dal suo posto, mettendosi in ginocchio davanti a Faramir.

 

“Tanto per cominciare, potresti liberarti di un po’ di quegli inutili abiti e mostrare al tuo signore il tuo bel corpo.”

 

Senza parlare, Éomer si alzò, senza staccare gli occhi da quelli dell’altro, si spogliò lentamente, lasciando scivolare a terra gli indumenti uno per uno. Poi rimase immobile di fronte a lui, con le gambe leggermente divaricate e i fianchi spinti all’infuori.

Faramir lo studiò dalla testa ai piedi; vide le mani muoversi nervosamente lungo i fianchi e il suo sesso che cominciava ad indurirsi. Allargò un po’ le gambe sulla poltrona e appoggiò la mano sul rigonfiamento che già premeva contro i pantaloni, massaggiandolo.

Éomer si inumidì le labbra, quella sola immagine già era bastata per accrescere il desiderio.

 

“Toccati, fallo per me.”

 

Avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui.

 

Éomer chiuse gli occhi e portò una mano sul collo, la fece scivolare lentamente sul torace e cominciò a massaggiarsi con il pollice i capezzoli, prima l’uno, poi l’altro, lentamente, in un modo che, lo sapeva, faceva impazzire entrambi.

Portò l’altra mano in mezzo alle gambe e la chiuse intorno alla propria erezione, muovendola molto lentamente; sapeva che se avesse accelerato il rimo avrebbe resistito molto poco.

 

“Bravo, così... continua....”

 

La voce roca di Faramir, le sue parole, gli arrivarono direttamente al basso ventre, strappandogli un gemito. Aprì gli occhi e vide che Faramir aveva sciolto i lacci dei pantaloni e ora la sua mano si muoveva all’interno, con la stessa lentezza con cui si muoveva lui. Éomer sentì un’altra ondata di desiderio, più intensa, e dovette fermarsi per non venire subito.

Senza parlare, Faramir allungò una mano verso di lui e lo invitò ad avvicinarsi; lo guidò nei movimenti, facendogli appoggiare le ginocchia sul divano, a cavalcioni delle sue gambe, poi lo afferrò per i glutei e lo sollevò fino a che la sua bocca non si trovò a pochi centimetri dal suo sesso. Sentì le mani di Éomer aggrapparsi alle sue spalle e sorrise quando lo vide completamente abbandonato, con gli occhi socchiusi e persi e la bocca appena aperta.

Abbassò la testa e soffiò sulla punta umida del pene; lo sentì sussultare ed emettere un gemito, più profondo e prolungato. Faramir sorrise fra sé, adorava farlo impazzire in quel modo. Cominciò a circondare la punta gonfia con punta della propria lingua e sentì l’altro lottare con forza contro l’istinto di spingersi nella sua bocca. Fece scorrere la lingua lungo tutta la lunghezza, soffermandosi sulla piccola apertura, aprendola appena e succhiando il liquido leggermente salato che comincia ad uscire in maniera profusa.

 

“Faramir....”

 

Éomer cercò di allontanarsi, sentiva che stava per venire e non voleva, non ancora. Cercò di allentare la tensione con una risata nervosa.

 

“Ehi... così non vale...”

 

“Ah no? Credevo di essere io a dettare le regole.” Ma il tono era scherzoso, non voleva torturarlo, non più del dovuto. Fece per sfilarsi i pantaloni ma fu preceduto dalle mani di Éomer; inarcò i fianchi per consentire all’altro di spogliarlo completamente, lasciò che lo aiutasse ad alzarsi e lo seguì sul grande tappeto davanti al camino.

Si sdraiarono l’uno di fronte all’altro; Éomer passò una mano nei capelli del compagno poi lo prese fra le braccia, baciandolo con una tenerezza infinita, muovendosi contro di lui. Solo per un breve istante il pensiero di quello che era successo lo fece rabbrividire, subito scacciato dal corpo forte e caldo di Faramir che si spingeva contro il suo.

Poi, Faramir si staccò e lo guardò dritto negli occhi.

 

“Voltati.” Non era più un ordine, ma una richiesta dettata dal desiderio fortissimo...

 

 

***

 

Erestor aveva perso il conto delle volte in cui si era avvicinato alla finestra ed era tornato alla scrivania. L’ora di cena era ormai passata da un pezzo. Non che avesse appetito, ma non aveva più visto ‘Fin e aveva un bisogno disperato di parlargli, di scusarsi, innanzitutto, per le parole insensate che gli aveva urlato contro e di spiegargli il perché di quel suo gesto. Avrebbe dovuto poi chiedere perdono ad Aragorn, sempre ammesso che il re lo volesse ancora a corte... Cercò di scacciare quel pensiero dalla mente e si concentrò sul piazzale buio, nella speranza di vedere comparire Glorfindel.

Si chiese dove fosse Legolas, cosa stesse facendo e, soprattutto, dove stesse andando, anche se, in realtà, dentro di sé lo sapeva. Pregò con tutte le forze i Valar che lo proteggessero dai pericoli lungo il suo viaggio, ma, soprattutto, dal dolore e dalla disperazione. Avrebbe tanto voluto essere al suo fianco per confortarlo, ma questa volta non c’era nulla che potesse fare. Deglutì per scacciare il nodo alla gola che lo soffocava e appoggiò la fronte al vetro freddo.

 

Un leggero tocco alla porta lo fece sobbalzare come un’esplosione improvvisa.

“’Fin...”

 

Si diresse velocemente alla porta, cercando di ignorare quel pensiero disturbante che gli diceva che ‘Fin non bussava per entrare nella propria stanza, e l’aprì di colpo. La debole speranza si spense del tutto di fronte all’immagine intimidita di Melpomaen, il suo giovane assistente.

 

“Mel...” cercò di nascondere il disappunto nelle sue parole, fallendo miseramente “cosa ci fai qui? È successo qualcosa?”

 

L’altro si guardò le mani, nervosamente, poi, senza parlare, passò ad Erestor un foglio arrotolato.

 

“È... è di Glorfinde, mi ha detto di consegnartelo dopo il tramonto...”

 

Erestor sollevò il mento, tentando di simulare una sicurezza che non provava; poi, abbassò lo sguardo sul foglio che aveva in mano e lo aprì, con le mani che tremavano.

 

Erestor,

 

ho deciso di accompagnare i miei uomini in pattuglia per due settimane, o forse più.

Quando tornerò forse avremo entrambi le idee più chiare.

Sappi che quello che hai detto mi ha fatto molto male, credevo ci fosse fiducia fra di noi, e un amore speciale. Forse mi sbagliavo.

 

Abbi cura di te.

 

Glorfindel

 

 

Per un attimo Melpomaen credette di avere di fronte uno spettro, da quanto si era accentuato il pallore sul viso di Erestor. Perfino le labbra, solitamente rosse come il fuoco, sembravano essersi prosciugate dell’ultima goccia di sangue. Delicatamente gli appoggiò una mano sul braccio.

 

“Erestor... va tutto bene?”

 

L’altro alzò gli occhi di scatto, come ricordandosi all’improvviso della sua presenza. Mosse il capo nervosamente in cenno di assenso, abbozzando un sorriso teso. Mel capì che non andava affatto bene.

 

“Perdonami... ora devo andare.” Appena un bisbiglio. Rientrò nella camera chiudendosi la porta alle spalle.

 

Melpomaen avrebbe voluto dire o fare qualcosa ma aveva sempre avuto una soggezione che rasentava il terrore per il suo superiore e mentore. Rimase a fissare a lungo la porta chiusa, tendendo l’orecchio a un qualsiasi rumore che indicasse che qualcosa di allarmante stava succedendo in quella stanza. Poi, dopo un po’, si allontanò lentamente, con la testa piena di domande.

 

Appoggiato alla porta, Erestor rilesse quelle poche righe, percependo, dietro le parole secche e le frasi concise di Glorfindel, molto più di quello che era semplicemente scritto. C’era molta amarezza, e tristezza, ma soprattutto, e questo era quanto lo faceva stare peggio, una profonda e risentita delusione.

 

Si trascinò vicino alla finestra e si sedette sui cuscini; la sua mano incontrò la stoffa vellutata delle ricoperture e, per un istante, gli sfuggì un sorriso al ricordo di quante notti si erano addormentati, esausti, su quei cuscini. Il sorriso morì di colpo quando, devastante come un fulmine, tutto il senso di quello che era successo gli si parò finalmente davanti, chiaro e abbacinante: Legolas se ne era andato, aveva perduto Glorfindel, il suo stesso ruolo a corte era in gioco. Ancora una volta, era rimasto solo.

Sentì un freddo intenso entrargli nelle ossa e si chiese se era così che aveva inizio la morte degli Elfi.

***

 

Non era ancora l’alba quando Aragorn, lasciò le proprie stanze. Aveva dormito per qualche ora, di un sonno esausto e pieno di incubi, si era svegliato con lo stomaco serrato in una morsa d’angoscia e subito lo aveva preso il panico. Non aveva la forza di affrontare una nuova giornata, non senza Legolas. Non aveva la forza di affrontare un solo minuto della sua futura esistenza senza di lui. Pensò che sarebbe stato molto meglio se Erestor lo avesse ucciso col suo piccolo pugnale.

 

Farla finita, una volta per tutte.

 

La sua vita era stata dominata da un destino che non si era scelto: quello di riportare la gloria dei Númenor al suo antico splendore; era stato predestinato ad essere re, era stato oppresso da responsabilità e vincolato da scelte che avevano condizionato la sua intera esistenza.

La sua vita non gli era mai appartenuta. Tranne che quando era con Legolas. In quei brevi momenti si sentiva veramente libero e felice, e anche la più grave delle sue preoccupazioni diventava un pensiero lontano, sfumato. Lo aveva amato, lo amava ancora, così tanto che il solo pensiero lo faceva stare male.

 

E proprio per questo lo aveva lasciato andare. Le parole di Erestor lo avevano investito come un fiume in piena: Legolas aveva rinunciato a tutto per lui, si era annullato, mettendo da parte il suo spirito da guerriero, accettando di rimanere relegato in un’ala del castello, sottomettendosi al ruolo di amante segreto del re.

Senza nessuna speranza. Perché, questo lo avevano capito entrambi, anche senza bisogno di confessarselo, Arwen non li avrebbe mai lasciati liberi.

 

Arwen. Il solo pensiero lo fece rabbrividire. Ma non era pronto ad affrontare anche questo, non adesso.

 

Uscì nel cortile in direzione delle stalle e respirò l’aria umida e nebbiosa della mattina. L’autunno si era presentato prima e le prime foglie cominciavano a staccarsi dai rami, raccogliendosi al suolo. Si fermò all’improvviso, attirato da una luce, l’unica a quell’ora improbabile, che si intravedeva da sotto il porticato. Si diresse verso la finestra illuminata  e osservò, attraverso i vetri, la figura immobile seduta davanti al camino; poi, senza bussare, aprì la porta ed entrò nello studio di Erestor.

 

“Aragorn!”

 

L’elfo si alzò all’improvviso, sorpreso da quella visita inaspettata.

Rimasero per un attimo uno di fronte all’altro, in silenzio, cercando, ognuno, di capire i propri sentimenti nei confronti dell’altro. Poi Aragorn parlò:

 

“Voglio sapere cosa c’è stato fra di voi. Almeno questo me lo devi, Erestor.”

 

La domanda lo lasciò sbalordito. Si era aspettato delle accuse, delle minacce anche, o di essere cacciato via seduta stante ma non quello. Fissò l’uomo per un momento e provò pena per lui: il suo dolore era quasi tangibile e si chiese ancora una volta se, veramente, aveva fatto la cosa giusta.

 

“Non quello che credi, Estel.” Si accorse di avere usato il nome con cui solo gli amici chiamavano il re e anche Aragorn se ne accorse perché, per un attimo, lo guardò con aria interrogativa e il fantasma di un sorriso gli increspò le labbra.

 

Erestor si sedette di fronte al camino e fece cenno all’uomo di accomodarsi.

Si ritrovarono ancora uno di fronte all’altro, con le fiamme che danzavano sui loro volti, rendendo evidenti, impietosamente, i segni della sofferenza e della paura.

 

“Quando Gondolin fu rasa al suolo io ero poco più di un ragazzo, non avevo ancora raggiunto la maturità e non sapevo molto del mondo. Le mie passioni erano i libri e i pugnali.”

 

Aragorn aggrottò la fronte ed Erestor sorrise.

 

“Sì, una strana combinazione vero? Dividevo le mie giornate fra la grande libreria della mia famiglia e l’armeria, dove aiutavo un Elfo di nome Edelin a forgiare i più bei pugnali che siano mai esistiti nell’Arda.

Il giorno in cui i Balrog di Morgoth arrivarono e distrussero tutto, io ero nella fucina dell’armeria: una stanza ricavata a molti metri di profondità che portava direttamente alle caverne vicine, dove Edelin stivava i metalli più preziosi. Mi salvai per quello, perché Edelin mi rinchiuse nella fucina, proibendomi di uscire, mentre lui andava a difendere la nostra città. Ero terrorizzato, sentivo le urla e l’odore di fumo e carne bruciata. Non so per quanto tempo rimasi nascosto, so che quando riuscii ad uscire, da un passaggio attraverso le caverne, di Gondolin non era rimasto più nulla, sole le ceneri e i cadaveri bruciati dei suoi abitanti.”

 

Si fermò per un istante, le urla non erano mai del tutto sparite dalla sua testa, e, a volte, lo svegliavano di notte. Deglutì e riprese il suo racconto.

 

“Della mia casa, della mia famiglia, non era rimasto più nulla, nemmeno un frammento su cui piangere. Credo di essere stato sul punto di impazzire per il dolore. Ho cominciato a vagare come un fantasma, supplicando i Valar di farmi morire, ma la mia mente era talmente sconvolta che non riuscivo a formulare pensieri coerenti. Probabilmente, se lo avessi fatto, mi sarei tolto la vita. Persi l’uso della parola. Non ricordo molto di quel periodo, so che mi nascondevo nei boschi, mangiando quello che trovavo. Un giorno fui catturato dagli Uomini dell’Est e portato come schiavo nelle loro terre. Ma sapevo scrivere e leggere e questo, credo, mi salvò da un destino peggiore. Vivevo rinchiuso in uno scantinato, con una catena ad un piede, trattato come una bestia, con il compito di tradurre e trascrivere pagine e pagine di strani libri di tecniche di battaglia e armi da guerra. Ma mentre trascrivevo, cercavo di memorizzare quello che stavo leggendo: è così che imparai a combattere, da un libro. Strano vero? Rimasi rinchiuso per molti anni, ridotto ad un fantasma, terrorizzato da ogni rumore.

Poi, un giorno, sentii distinti i suoni di una battaglia e pensai che stava succedendo tutto da capo. L’ultima cosa che mi ricordo è di essermi rannicchiato in un angolo, con le mani sulle orecchie per non sentire più nulla.

Quando ho ripreso contatto con la realtà ero in un posto strano, una caverna, ma ben arredata, ed ero sdraiato su un letto, ricoperto di pelli. Sentivo delle voci confuse, lontane, e qualcuno che mi bagnava il viso con uno straccio umido.

È stato allora che ho incontrato per la prima volta Legolas e suo padre, Thranduil. Come mi raccontarono molto dopo, gli eserciti di Mirkwood e Lórien si stavano muovendo contro le popolazioni dell’Est che da troppo tempo uccidevano e distruggevano la nostra razza. E mi trovarono.

Credevano che non sarei sopravvissuto: ero denutrito, ferito e, soprattutto, ero entrato in una specie di trance che assomigliava molto all’inizio della morte degli elfi.

Credo sia stato il sorriso di Legolas a riaccendere quel poco di vita e  di speranza che mi erano rimasti. Era molto piccolo, allora, e, come mi disse suo padre, aveva da poco perso la madre. Ma, nel suo dolore immenso, cercava di farsi coraggio. Veniva tutti i giorni a trovarmi, e passava le ore a raccontarmi del suo pony o degli uomini cattivi che suo padre aveva sconfitto. Mi raccontava strane storie di ragni giganti e come di un giorno sarebbe diventato il migliore dei guerrieri. Io ascoltavo, senza dire una parola; semplicemente non ne avevo la forza, ma mi piaceva la sua voce, mi piaceva il modo con cui mi parlava.

Una notte mi svegliai di colpo e tutto era davanti a me, chiaro, vivo, nella sua semplice e devastante realtà: mi ricordai chi ero, quello che era successo e, dopo anni e anni di silenzio, gridai con tutte le forze che mi erano rimaste e, con quel grido, uscì tutto il mio dolore. Un dolore che avevo imparato a reprimere per istinto di sopravvivenza. Con il grido arrivarono le lacrime e, finalmente, dopo tanto tempo, ebbi la possibilità di concentrarmi sulla mia sofferenza. Piansi a lungo, fino quasi a perdere i sensi; solo alla fine mi accorsi che non ero solo, che un paio di braccia grandi e forti e un altro paio, molto più piccole ma altrettanto decise, mi stavano stringendo, proteggendomi. Thranduil e Legolas erano lì con me e mi stavano confortando e proteggendo e, per la prima volta, smisi di avere paura.”

 

Erestor si asciugò le lacrime che gli bagnavano le guance e si accorse che la mano di Aragorn era scivolata nella sua e che anche il suo viso era bagnato.

 

“Continua, ‘Res, ti prego.”

 

“Ricominciai a vivere. Thranduil e Legolas diventarono la mia famiglia. Thranduil era spesso impegnato con il suo esercito a difendere Mirkwood ed io ero diventato un secondo padre per Legolas... o una madre, come dice ‘Fin.”

 

Il ricordo improvviso di Glorfindel gli provocò una fitta al cuore; sentì la mano di Aragorn stringersi sulla sua e si fece coraggio.

 

“Diventai primo consigliere di Thranduil, suo confidente e amico: condividevamo l’amore per Legolas, amore che lui ricambiava senza condizioni. Passavamo molto tempo insieme; gli insegnai a leggere e a scrivere e lui mi insegnò cos’è il coraggio. Imparai a combattere sul serio, applicando quello che avevo letto sui libri durante la prigionia e imparai a dominare le mie emozioni.

Per tantissimo tempo quella è stata la mia famiglia, il mio mondo. A loro devo tutto. Quando Thranduil mi chiese di venire a Rivendell, come “ponte diplomatico” fra i due regni, mi si spezzò il cuore, ma ormai ero cresciuto, ero diventato più forte e accettai senza protestare, sapendo che era necessario e con la certezza che ci saremmo comunque rivisti ancora. E quando, molti secoli dopo, ci ritrovammo capii subito che il legame che ci aveva unito era rimasto solido e vivo come quando ero partito.”

 

Si fermò improvvisamente e si lasciò andare contro la poltrona alle sue spalle, sentendosi prosciugato, ma in qualche modo sollevato. Alzò gli occhi verso Aragorn e vide che un po’ delle ombre che oscuravano il suo sguardo si erano dissipate.

 

“Solo una domanda, Erestor. Da quello che mi hai raccontato, sembra che ci fosse un legame molto forte fra Legolas e suo padre...”

 

“Sì, Thranduil amava suo figlio, e sono sicuro che lo ami tutt’ora, con tutto il suo cuore. Era molto giovane quando nacque, e la madre di Legolas morì quando lui era ancora molto piccolo. Il legame che si formò fra di loro era speciale: molto più forte di un normale legame fra padre e figlio, erano anche amici, fratelli... Quando Legolas ha comunicato a suo padre la decisione di rimanere al tuo fianco, rinunciando a tutto, al suo status, al suo regno, credo che Thranduil si sia sentito in un certo modo tradito e abbandonato: Legolas era sempre stato il centro della sua esistenza e, all’improvviso, si sentiva messo in disparte. Ma, soprattutto, credo che avesse paura per lui, per quella che sarebbe stata la sua vita, sia con te che, sopratutto, dopo che tu...”

 

“... dopo la mia morte...”

 

“Già... Ultimamente Legolas riusciva a sentirlo, sapeva che stava male e aveva paura che stesse per morire.”

 

“Lo so, ho provato a convincerlo a scrivergli, a mandare un messaggero, ma si è sempre rifiutato.”

 

“Legolas è come sue padre: ostinato e orgoglioso, ma credo che dentro di sé abbia sempre saputo che le parole di suo padre non erano dettate dall’odio ma, semmai, da troppo amore...”

 

 

Aragorn fissò Erestor: c’era qualcosa di più dietro quelle parole, forse un messaggio che l’elfo stava disperatamente cercando di passargli senza tradire la fiducia dell’amico. All’improvviso capì.

 

“Vuoi dire che...” Una piccola, tenue speranza si stava lentamente facendo strada dentro di lui.

 

“Non lo so Aragorn, non posso dirti nulla di sicuro. Ma il legame che li unisce è troppo forte per spezzarsi così, l’ho vissuto per molto tempo in prima persona: fino a che sarà vivo l’uno, sopravvivrà anche l’altro. Ora più che mai dipendono l’uno dall’altro.”

 

Aragorn sentì la morsa che gli stringeva il cuore allentarsi di un poco.

 

“Grazie, Erestor.”

 L’elfo chiuse la mano dell’uomo fra le sue.

 

“Mi dispiace tanto, Estel. Non avrei dovuto parlarti in quel modo ma, credimi, sono ancora convinto che questa sia la scelta migliore, non per noi, ma per lui.”

 

Aragorn lo osservò in silenzio per un attimo, il bel volto trasfigurato dal dolore dei ricordi e dei fatti di quei giorni.

 

“No, non c’è nulla di cui scusarti. Mi stavo comportando da egoista, ho pensato a me, al mio dolore e non a lui. Prego solo i Valar che lo conducano a Mirkwood sano e salvo.”

 

Rimasero in silenzio ad osservare le fiamme, ognuno perso nei propri pensieri. Poi, Aragorn si alzò a fatica. Non si era reso conto di quanto era esausto.

 

“Grazie ancora, Erestor. Ti lascio al tuo lavoro.”

 

“Vuoi dire che sono ancora il tuo Primo Consigliere?”

 

Il re sorrise.

 

“Ora più che mai.”

 

Si avviò verso la porta poi si fermò e si girò.

 

“Vedrai che tornerà, Erestor, e sistemerete tutto. Non può vivere senza di te.”

 

Erestor sforzò un sorriso e fece un cenno con il capo. “Grazie Estel, lo spero tanto.”

 

***

 

Erestor si girò nel letto e guardò i rami degli alberi battuti dal vento. In lontananza, cominciavano a sentirsi i primi tuoni di un temporale in arrivo.

Era riuscito a concentrarsi sul lavoro durante tutto il giorno, cercando di non pensare a Glorfindel e a quello che sarebbe stato di loro. Ma ora, mentre giaceva da solo nel loro letto, tutte le paure della mattina erano tornate, più forti di prima. Si rannicchiò sul lato del letto di ‘Fin, stringendosi nelle coperte.

Quando pioveva, rimanevano spesso svegli, lui al sicuro fra le braccia del suo compagno, ad ascoltare il rumore della pioggia sui vetri. Gli sembrava quasi di sentire la mano di ‘Fin che gli accarezzava i capelli dolcemente fino a che non si addormentava.

Chiuse gli occhi. Non aveva nemmeno più la forza di piangere.

Ti amo ‘Fin, sei tutta la mia vita. Ti prego, torna da me.

 

***

 

Doveva essersi addormentato perché quando aprì gli occhi pioveva a dirotto. Solo allora si accorse di un rumore leggero e poi, all’improvviso, sentì il letto muoversi sotto il peso di un altro corpo. Si girò di scatto e rimase a fissare il bel viso di Glorfindel. Aveva i capelli fradici di pioggia e gli occhi gonfi e arrossati.

 

“Sono un essere patetico, ‘Res, non riesco a starti lontano per più di mezza giornata.”

 

“’Fin... Io... Mi dispiace tanto, non ho mai pensato nemmeno una virgola di quello che ho detto, è solo che...”

 

“Shhh, va tutto bene, vieni qua” allargò le braccia che subito si riempirono del corpo di Erestor.

Lo strinse forte e gli sembrò di tornare a respirare per la prima volta dopo tante ore “abbiamo detto entrambi cose che non pensavamo. Ed è vero, ammetto di essere stato un po’ geloso.”

 

“’Fin, ti amo così tanto, mi dispiace...” Non riusciva a dire altro, stava piangendo ancora ma questa volta erano lacrime di sollievo.

 

Si sdraiarono, avvolgendosi nelle coperte, ed Erestor sentì il petto di Glrorfindel contro la propria schiena, il suo respiro accarezzargli il collo e le sue braccia che lo circondavano, in quella che era la loro posizione preferita.

Le mani di Glorfindel cominciarono a muoversi sui suoi capelli, accarezzandoli. Si morse un labbro con forza per avere la certezza che non era un sogno e quando sentì la prima goccia di sangue, finalmente chiuse gli occhi e sorrise.