Capitolo Dieci
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Mirkwood.
C’era un tempo in cui il suo nome era
Greenwood, Bosco Verde, ed era il posto più bello e incantato di tutta
la Terra di Mezzo. Legolas ricordava bene quel tempo: il bosco era vivo
e pieno di luce e gli stagni dove suo padre lo portava a nuotare avevano
il colore del cielo e riflettevano gli alberi come in uno specchio
magico.
Tutto questo era prima che l’ombra di Sauron portasse il male, prima che
i Ragni giganti distruggessero ogni cosa, prima che tutti perdessero la
speranza.
Ora Mirkwood era una terra morta.
Legolas si strinse nel mantello ed entrò in quella che era stata la sua
casa. Un vento gelido faceva turbinare i primi fiocchi di neve,
entrandogli nelle ossa e facendolo rabbrividire. Non aveva mai capito
cosa fosse il freddo, non come lo intendevano gli uomini, almeno; ora
sentiva come se le punte di migliaia di minuscoli aghi gli entrassero
nella carne.
Alzò gli occhi verso gli alberi, alti e spettrali, con i loro rami
piegati dal vento come ad accoglierlo in un abbraccio di morte.
Aveva cavalcato per tanto tempo, senza riposare, senza mangiare, con la
mente vuota. Aveva cancellato il nome di Estel e la sua vita passata,
vivendo in una specie di sogno continuo. Non si era nemmeno chiesto se
suo padre lo avrebbe accolto oppure cacciato: tutto era lontano e
distante. Solo il freddo era reale.
Non aveva incontrato nessuno nel lungo tratto di bosco che lo portava
all’ingresso del palazzo: non una guardia, non un abitante e per un
attimo si era chiesto se non se ne fossero andati tutti. Ma sapeva che
non era così, sapeva che lui lo avrebbe trovato, forse da solo, ma
seduto al suo posto ad aspettare che la Morte degli Elfi lo consumasse
definitivamente.
Scese faticosamente da cavallo e accarezzò l’animale sul muso.
“Hannon le, Arod.”
Si sfregò le mani cercando di scaldarle un po’ e le strinse l’una
nell’altra; una folata di vento più forte e più fredda gli fece battere
i denti; sentiva gli occhi bruciare e aveva le labbra secche. Si portò
una mano sulla fronte e si accorse che scottava.
Febbre
Un’immagine improvvisa di Aragorn, nel letto, con gli occhi chiusi e il
volto pallido e bagnato di sudore, gli strappò un lamento. Non voleva
ricordare...
Alzò gli occhi verso il cielo carico di neve e cercò di scacciare per
sempre anche quell’immagine dalla sua memoria.
Si incamminò lentamente, seguendo un percorso che non aveva dimenticato.
I suoi passi risuonavano nei corridoi vuoti, creando un’eco sinistra; si
guardò intorno e provò una tristezza senza fine, una malinconia che
quasi gli tolse il respiro: tutto sapeva di morte e di abbandono.
“Legolas!”
La voce lo fece girare di scatto e l’istinto gli fece puntare il
coltello alla gola della figura che lo aveva sorpreso alle spalle.
“Thoren!” Abbassò il coltello e posò la mano sul braccio del Capitano di
suo padre. “Ti chiedo scusa, è che...”
“Non scusarti Legolas, vedo che non hai perso il tuo istinto -” Si fermò
di colpo, conscio del significato implicito nelle sue parole.
“Perdonami, non era mia intenzione offenderti.”
Legolas scosse la testa.
“Non c’è nulla da scusare, Thoren, dopo tutto questo tempo è lecito
avere dei dubbi.”
L’altro chinò il capo poi rialzò gli occhi sul volto del principe,
scrutandolo. I segni erano fin troppo chiari; gli stessi segni che da
molto tempo vedeva sul volto, sul corpo e soprattutto nell’anima del suo
re: si stava dissolvendo. Provò una pena profonda per quell’anima
tormentata e sperò che, per una volta, Thranduil mettesse da parte
l’orgoglio e perdonasse questo suo figlio che era tutta la sua vita.
“Non c’è più nessuno...”
Thoren scosse la testa. “No, siamo rimasti in pochi: quasi tutti sono
salpati per Valinor e i pochi che non l’hanno fatto sono rimasti per
rispetto a tuo padre. Ma non c’è più nessuno che abbia voglia di curarsi
del palazzo.”
Fece un cenno col braccio come per indicare lo stato di degrado della
grande sala in cui si trovavano.
“È tutto così, Legolas, tutto sta cadendo a pezzi.”
Rimasero per un attimo in silenzio. Legolas avrebbe voluto chiedere
tante cose ma aveva paura delle risposte. Non sapeva se era pronto o no
ad affrontare altro dolore.
“Vieni, ti porto da lui.”
Legolas non si mosse.
“Non so se vorrà vedermi.”
Thoren lo guardò dritto negli occhi: “Sei suo figlio, Legolas.”
Camminarono per un po’ in silenzio, fino a che non arrivarono di fronte
ad una grande porta di legno. La sala del trono.
“Buona fortuna, Legolas.”
Il Capitano si inchinò e se ne andò senza aspettare risposta. Con le
mani che tremavano, Legolas aprì la porta.
***
“E così, alla fine, sei tornato.”
Legolas sobbalzò al suono inaspettato della voce di suo padre e si voltò
nella direzione da cui proveniva.
Lo vide, seduto sul trono, in fondo alla enorme sala vuota.
Per un istante si ritrovò piccolo quando correva lungo tutta la stanza
per arrampicarsi sulle sue ginocchia, nel bel mezzo di un consiglio o di
un incontro ufficiale...
“Vieni avanti!”
Il tono duro della voce lo strappò dai ricordi e avanzò lentamente fino
a che non si trovò a pochi passi da lui.
Si inchinò in segno di rispetto, con il cuore in gola per la paura e il
dolore che quell’immagine disfatta e sofferente gli suscitava.
“Alzati! Lascia perdere questi stupidi convenevoli.”
Legolas alzò la testa. Suo padre si stava consumando: i sogni si erano
rivelati premonitori. I segni si leggevano fin troppo chiaramente sul
corpo smagrito e sul volto pallido e traslucido ma, soprattutto, nello
sguardo apatico.
Quegli occhi, una volta illuminati da una luce vibrante, quegli occhi
verdi come gli smeraldi di Moria, che avevano piegato con un solo
sguardo anche le volontà più forti, quegli occhi capaci di riempirsi di
amore e di odio e che sapevano essere più eloquenti di tante parole ora
lo fissavano freddi e distanti.
E, per un attimo, come in uno specchio, in quello sguardo Legolas vide
sé stesso.
“Perché sei tornato? Il tuo amante si è stancato di te? Ha scoperto che
non puoi dargli un erede e ha gettato via dopo averti usato e-”
“Smettila!” Le parole gli uscirono di bocca prima che riuscisse a
trattenerle; mai si era rivolto a suo padre in questi termini. Ma ora
non aveva più importanza. “Come osi parlare così? Cosa ne sai tu? Tu non
sai nulla, nulla! Non hai mai voluto ascoltare. Non hai mai voluto
CAPIRE. Non è lui che mi ha cacciato, sono io che me ne sono andato e
l’ho fatto per lui
e per te...
ma non ho smesso di amarlo così come sono sicuro che lui non smetterà
mai di amare me. E tu non puoi fare niente per impedirlo.”
Si interruppe di colpo, quasi non riusciva a respirare. Le parole che
aveva detto erano vere: per quanto avesse cercato di dimenticare, di
cancellare tutto quello che era stato, in quel momento si rese conto che
non poteva. Mai, mai avrebbe potuto sradicare Estel dalla sua vita,
dalla sua anima.
Sentì le gambe cedere e cadde in ginocchio, esausto. Poi, si fece
coraggio e alzò lo sguardo verso suo padre.
Thranduil lo fissava con quel suo sguardo vuoto, assorto e indagatore
allo stesso tempo.
“Stai morendo, Legolas”.
Il tono neutro con cui erano state dette
quelle parole gli fece più male del loro significato. Si alzò a fatica e
si girò per andarsene, non gli avrebbe dato la soddisfazione di vedere
gli occhi bagnarsi di lacrime.
“Lo so, padre. Anche tu”. E si incamminò verso l’uscita.
Thranduil rimase in silenzio ad osservare la figura troppo sottile di
suo figlio che si allontanava in silenzio. E si odiò profondamente.
Aveva passato gli ultimi anni pregando i Valar che lo proteggessero,
scrivendo segretamente ad Erestor per avere sue notizie, lottando contro
la morte degli Elfi che lo stava consumando perché non lo portasse via
prima di riuscire a dirgli addio.
Era rimasto a Mirkwood per lui, nella speranza che un giorno sarebbe
tornato e lo avrebbe abbracciato ancora una volta. Aveva rifiutato di
partire anche quando ormai tutti se ne erano andati. E lo aveva fatto
solo per lui, per quel figlio che aveva amato più di ogni altra cosa. E
ora che era tornato, lo stava allontanando di nuovo, questa volta per
sempre.
Voleva odiarlo; voleva fargliela pagare per essersene andato, per avere
fatto di testa sua, per avere abbandonato il suo Regno, e lui, in nome
di un amore che lo stava uccidendo. Ma non ci riusciva. Qualcosa negli
occhi tormentati di Legolas aveva fatto crollare il muro di risentimento
che aveva eretto nel tempo.
Sentì un dolore forte al petto e si aggrappò al legno del trono
stringendo i denti per non gridare. Ci era abituato al dolore, ma questa
volta era diverso: era un dolore più sordo che sapeva di colpa e
rimpianto.
Con un sforzo enorme si alzò e si diresse verso il figlio. Lo raggiunse
che era quasi sulla porta.
“Legolas... aspetta.”
Legolas si fermò di colpo e chiuse gli occhi, stringendo i pugni, e si
preparò ad affrontare un altro scontro. Il tocco leggero della mano lo
fece trasalire.
“Voltati...”
Non c’era più il tono freddo di prima, ma solo una pena profonda. Quella
era la voce di suo padre.
Si voltò lentamente, con le labbra che tremavano e il cuore che batteva
forte.
“Ada...” Le parole morirono in gola, soffocate da un singhiozzo. Suo
padre gli accarezzò una guancia e spostò una ciocca di capelli dietro ad
un orecchio, poi, senza parlare lo attirò verso di sé e lo strinse fra
le braccia, baciandogli dolcemente la fronte. Sentì il corpo scarno
scosso da un pianto silenzioso e provò un odio profondo per quell’uomo
che aveva condannato suo figlio.
Lo tenne stretto a lungo, con il viso nascosto fra i suoi capelli,
mormorando parole di conforto, fino a che non lo sentì abbandonarsi,
esausto, fra le sue braccia.
“Vieni, Legolas, hai bisogno di riposare, e di mangiare qualcosa.” Lo
cinse per le spalle guidandolo verso la scalinata che portava alle
camere.
***
Legolas si guardò intorno in quella che una volta era stata la sua
stanza. Non era stato toccato nulla: i suoi libri, le armi, perfino il
cavallo di legno che gli aveva regalato Erestor quando era piccolo era
ancora lì.
Senza protestare si lasciò guidare verso il letto e si sdraiò senza
neanche spogliarsi. Si sentì improvvisamente sfinito, come se tutte le
energie fossero state risucchiate per sempre dagli eventi di quei pochi
giorni. Guardò suo padre seduto sul bordo del letto e cercò di
sorridere.
Thranduil gli prese le mani e le strinse fra le proprie; erano fredde,
più fredde delle sue. Si chiese come fosse possibile che si stesse
consumando così in fretta; lui aveva resistito per anni, e solo
ultimamente i segni si erano fatti più evidenti. Poi capì. Cercò di
soffocare un gemito.
“Legolas... tu... e quell’uomo... Hai celebrato l’Unione con lui,
Legolas?”
Non ebbe bisogno di risposte perché gli occhi di suo figlio si
rianimarono per un attimo e tutto il significato di quanto quell’amore
avesse rappresentato e, forse tutt’ora, rappresentasse per Legolas gli
furono chiari come il giorno. Si sentì improvvisamente impotente.
“Mi dispiace tanto, Legolas, avrei così tanto voluto che tu fossi
felice...”
Legolas si sollevò a sedere fissandolo con occhi disperati e determinati
allo stesso tempo.
“Lo sono stato, Ada. Più di quanto tu possa mai immaginare.”
“E allora perché sei tornato? Perché lo hai lasciato? Perché stai
permettendo al dolore di distruggerti lentamente? Spiegami, Legolas,
spiegami perché ho dovuto rinunciare a te tutto questo tempo...”
Si accorse che stava alzando la voce, ma non era per la rabbia, quanto
per un bisogno disperato di capire il perché di tanta sofferenza.
“Perché, padre, se fossi rimasto avrei obbligato Estel ad una scelta
troppo grande anche per lui.”
“Di quale scelta parli?”
“Quella fra me e il volere dei Valar.”
Thranduil rimase in silenzio osservando il volto di suo figlio che si
era fatto improvvisamente duro. Pur non comprendendo i fatti capiva che
la scelta di Legolas era stata un atto di coraggio dettato da un amore
profondo e da una grande lealtà. Lo aveva accusato ingiustamente, lo
aveva allontanato e insultato solo per una gelosia morbosa e possessiva.
Si sdraiò sul letto accanto a Legolas e lo attirò a sé.
“Hai voglia di raccontarmi tutto dall’inizio?”
***
Glorfindel allargò le braccia e stirò la schiena all’indietro; detestava
scrivere rapporti. In genere chiedeva ad Erestor un aiuto ma quando poco
prima era passato in camera per chiedere se poteva dargli una mano nella
stesura dei resoconti giornalieri, lo aveva trovato addormentato.
Era rimasto per un po’ a guardarlo, aveva sfiorato la pelle d’ avorio,
ancora umida per il bagno, e aveva spostato i capelli che gli
ricoprivano le spalle e la schiena come manto di seta corvina. Poi lo
aveva baciato piano su una guancia, mormorando “ti amo” nella sua
lingua. Ma non aveva avuto il coraggio di svegliarlo.
Res stava cercando con tutte le sue forze di ritornare alla vita di
tutti i giorni e Glorfindel ne comprendeva lo sforzo enorme: lui stesso
si era trovato a patire la partenza di Legolas più di quanto aveva
immaginato.
E poi c’era Estel.
Non riusciva a fare a meno di studiarlo di nascosto, preoccupato per lo
stato di torpore in cui stava sprofondando. Assolveva ai suoi compiti di
re nel migliore dei modi, ma, appena era fuori dallo sguardo pubblico,
si trasformava: perfino nel volto, che sembrava invecchiare
all’improvviso di cento anni.
Lui ed Erestor avevano passato insieme ogni sera delle ultime due
settimane, cercando di distrarlo, di coinvolgerlo in discorsi di ogni
tipo, ma alla fine, con la mente, Estel tornava sempre a lui, a Legolas,
e le sue domande erano sempre le stesse.
Glorfindel ammirava Res per come gestiva la cosa: nonostante la
situazione fosse terribile anche per lui, cercava sempre di consolare
Estel come meglio poteva, senza compatirlo, ma con quel modo pacato e
diretto che solo lui riusciva ad avere. Era comprensivo e inflessibile
allo stesso tempo, si rivolgeva al re con educazione e dolcezza ma non
esitava a scuoterlo quando si lasciava prendere dall’autocommiserazione
e dallo sconforto. Fin era arrivato a pensare che, se non ci fosse stato
Erestor, probabilmente Estel avrebbe commesso qualche pazzia.
Anche Éomer e Faramir erano stati di grande aiuto; la loro presenza
aveva contribuito ad erigere un sicuro muro di difesa intorno all’uomo,
muro che aveva il duplice compito di proteggerlo da sé stesso e da
Arwen.
Arwen.
La sua recita non aveva incantato nessuno; dietro lo sguardo fintamente
preoccupato si leggeva il trionfo di chi ha vinto una grande battaglia.
Glorfindel era arrivato ad odiarla, per quello che aveva fatto a tutti
loro, ad Estel e, soprattutto, a Legolas. Ma, fortunatamente, era stata
abbastanza scaltra da farsi vedere il meno possibile; all’improvviso, il
bisogno disperato e imprescindibile di quel maledetto erede sembrava
essere diventato meno pressante.
Si passò una mano sugli occhi e si alzò. Pensò a Res che lo aspettava in
quel grande letto e decise che avrebbe potuto terminare i rapporti il
giorno dopo.
Vide la figura non appena spense la candela. Un’ombra scura che si
muoveva veloce sulla neve candida, illuminata dalla luna. Si avvicinò
alla finestra e riconobbe i lunghi capelli neri che il cappuccio non era
riuscito a nascondere. Rimase a guardare come paralizzato mentre si
dirigeva con passo veloce verso l’armeria. Poi si scosse e uscì nel
piazzale, nascondendosi dietro il colonnato. Poco dopo la vide uscire e
ritornare con passo veloce e leggero verso le cucine. Osservò le
impronte nella neve e notò che erano leggerissime, appena visibili.
Attese ancora un momento. Poi, muovendosi sotto il colonnato si diresse
all’armeria.
***
Tutto sembrava in ordine; ad una prima veloce analisi sembrava che nulla
fosse stato toccato o portato via. Eppure, il suo occhio addestrato
registrava che qualcosa era fuori posto. Cercò di sgombrare la mente e
di concentrarsi sui particolari: conosceva quella stanza a memoria,
poteva dire senza esitazione dove si trovava ogni singola arma, in che
posizione era riposta e se era stata usata di recente. I suoi sensi di
guerriero erano all’erta; mosse velocemente gli occhi lungo tutte le
pareti cercando l’anomalia. Poi, di colpo, si fermò.
Si avvicinò allo stipo dove erano chiusi i pugnali e lo aprì: un piccolo
spazio, dove solitamente era custodito uno dei pugnali da combattimento
di Erestor, era vuoto.
Ma cosa vuoi fare?
Chiuse a chiave la porta dell’armeria e fece per dirigersi velocemente
verso le proprie stanze quando il suo sguardo fu attirato da una piccola
macchia scura sulla neve. Si chinò per osservarla e vide che era un
involucro di stoffa; lo raccolse e lo aprì. Dentro c’era un’erba
essiccata. Ne portò un po’ al naso e l’allontanò subito. Aveva un odore
acre e pungente ma non riusciva a riconoscerla.
Per un attimo pensò di consultare uno dei libri della biblioteca di
Elrond ma poi ebbe un’idea migliore.
***
Si sentì sollevato quando vide lo studio di Erestor ancora illuminato;
entrò senza bussare facendo spaventare a porte il povero Melpomaen.
“L... Lord Glorfindel!”
"Sì, Mel, so come mi chiamo". Chiuse
la porta a chiave e trascinò l'elfo terrorizzato vicino alla fonte di
luce. "E ora dimmi cos'è quest'erba."
Melpomaen diede un'ultima occhiata dubbiosa allo Sterminatore del Balrog
e quando fu abbastanza convinto che non era con lui che ce l'aveva prese
fra le mani l'involucro di stoffa.
Lo aprì lentamente, in modo quasi
reverenziale, e osservò a lungo i pezzetti irregolari; li appoggiò su un
piatto e li separò con un piccolo bastone, poi tornò a studiarli,
aggrottando la fronte.
Glorfindel sentì che stava per perdere la pazienza.
"Andiamo Mel, Erestor dice che sei un genio, quanto ti ci vuole per
riconoscere un pezzo d'erba secca?"
L'Elfo alzò la testa e lo fulminò con uno sguardo.
"Questa non è 'erba secca', questa è una radice essiccata..."
"Molto bene, ora che abbiamo assodato questo mi dici a cosa serve?"
Mel arricciò il naso. "Non ne sono sicuro, però...."
Senza proseguire, si diresse verso la grande libreria e dopo una veloce
ricerca scelse un piccolo libro semidistrutto. Glorfindel stava
decisamente perdendo la pazienza.
"Allora?!"
L'altro lo ignorò e continuò la sua ricerca; a Glorfindel ricordò tanto
qualcuno di sua conoscenza.
"Ecco!! Per i Valar! Ma... è terribile..."
Rivolse uno sguardo sconvolto verso il Capitano e Glorfindel dovette
fare ricorso a tutto il suo autocontrollo per non strozzarlo.
"Mel..."
"È saeltha. È una pianta abortiva, Lord Glorfindel. Uccide il feto fin
dai primi giorni del presunto concepimento".
Le parole rimasero sospese fra di loro, cariche del loro significato
terribile; poi, di colpo, Glorfindel baciò Melpomaen sulla bocca e
sorrise.
"Grazie, Mel, Res ha ragione: sei un genio."
Senza dire altro, prese il libro, rimise un po' della radice
nell'involucro e si diresse a grandi passi verso gli appartamenti del
re.
***
Doveva essersi addormentato mentre lo aspettava. Aveva promesso che lo
avrebbe aiutato, e invece... Res si stirò e, a fatica, si tirò a sedere.
Doveva essere notte fonda, aveva smesso di nevicare e il cielo era
illuminato dalla luna. Si alzò lentamente e si chiese dove fosse
Glorfindel; si avvicinò alla finestra e vide che lo studio dove Fin si
ritirava a compilare i resoconti giornalieri era buio.
Cercò di scacciare il senso di disagio che lo aveva assalito appena
sveglio e si avvolse nel lenzuolo.
Sicuramente Glorfindel sarebbe arrivato di lì a poco.
Si toccò i capelli distrattamente e si accorse che erano tutti
scompigliati: non aveva nemmeno avuto la forza di spazzolarli, era
crollato esausto sul letto e si era addormentato di colpo.
Si sedette di fronte allo specchio e prese la spazzola.
Nel momento in cui alzò gli occhi, la vide: la sua immagine, riflessa
nello specchio, era un'immagine di morte.
"Buona sera, Lord Erestor."
Arwen uscì dall'oscurità che l'aveva nascosta fino a quel momento e gli
sorrise. Nelle sue mani, stretto in una morsa convulsa, un piccolo
pugnale di Morgoth.
TBC