.|. The End .|.

Warning: Molto molto dark, molto angst, molto graphic sex, e cosucce del genere; naturalmente slash. E anche riferimento a violenza carnale. Quindi, se tutto questo vi disturba, vi prego: LIVE NOW AND NEVER COME BACK!

Note: ha una destino nel nome questa fic perché fino a non molto tempo fa non sapevo nemmeno se l’avrei mai finita. Ora lo so: avrà una fine. Perché mi sono accorta di amare questa storia molto più di quello che credevo. L'ho iniziata in un periodo particolare, molto "dark" è rimasta ferma per molto e non so ancora che evoluzioni avrà, dalla prima stesura ha già cambiato tre volte direzione. L'ho postata in risposta alla richiesta di una persona a cui tengo molto. Quindi, Lady Ninde, questa è per te. Ti voglio bene.

 

Prologo

~

 

C’era nebbia tutto intorno. E fumo. Ma sembrava tutto così calmo e silenzioso. Per un attimo si chiese se non stava sognando. Poi si rese conto che non era un sogno.

 

È la fine.

 

Si accorse di non sentire più nulla: né i rumori della battaglia, né l’odore del sangue, né i lamenti e le grida dei feriti. Non sentiva nemmeno più dolore. Solo freddo.

Mosse le labbra come per parlare, senza riuscirci; la gola era secca e bruciava per la polvere e il fumo, per il troppo gridare.

“Una morte onorevole” pensò “sul campo di battaglia.”

Forse, questa volta, suo padre sarebbe stato fiero, se fosse stato ancora vivo. Le labbra si incresparono in un sorriso.

 

Sto morendo, Padre, è così che avresti voluto, vero?

 

Si chiese se la sua morte, come quella di suo fratello, del re Theoden, del giovane Theodred e di tanti altri fosse servita a qualcosa.

Poi, all’improvviso, lo sentì: quel suono, agghiacciante, stridente come ferro su ferro e cavernoso allo stesso tempo. Era il grido di un Uruk-hai. Ed era vicino, così vicino che l’odore ammorbante del suo fiato lo investì provocandogli un conato di vomito.

Qualcosa gli schiacciò la testa al suolo con violenza; i sassi sul terreno gli lacerarono una guancia.

 

Sentì finalmente arrivare le lacrime, e questa volta non le trattenne; scesero lungo le guance e si mescolarono al sangue.

Chiuse gli occhi.

 

Non voglio...

 

Un colpo violento, sulla schiena, gli fece perdere il respiro, poi, un dolore mortale lo squarciò in due; una mano gli schiacciò ancora di più la testa al suolo e il suo grido si perse nel ruggito dell’Uruk-hai.

Poi, finalmente il buio.


 

Capitolo Uno

~

 

“Sopravvivrà, vero, Estel?”

“Non lo so, Legolas. Ho fatto tutto quello che era in mio potere, i Curatori hanno fatto tutto quello che era necessario. Il veleno delle frecce è ancora in circolazione, ma non è quello che mi preoccupa. E nemmeno le altre ferite. È la sua volontà. È come se se ne fosse andata per sempre. Come se avesse deciso di arrendersi e di non tornare indietro.”

 

“Aragorn!”

 

Il Re si voltò di scatto al suono di quella voce imperiosa, resa appena incrinata da una paura mal celata.

 “Èomer, ti prego, non puoi...”

 

L’uomo distolse lo sguardo dal quello del Re e si avvicinò al letto, osservando la figura che vi giaceva a bocconi. Strinse i denti per controllare la rabbia. Si chiese come avesse fatto a resistere in quelle condizioni.

Le ferite erano state bendate, ma si vedevano gli aloni scuri causati dal veleno delle frecce fuoriuscire dalle bende, la schiena era solcata da tagli profondi, provocati dagli artigli dell’Uruk-hai. I tagli avevano smesso di sanguinare ed erano stati ricoperti con un unguento che li rendeva ancora più evidenti. La guancia sinistra era gonfia e tumefatta, ricoperta di lividi ed escoriazioni.

Era immobile e pallido, di un’immobilità fredda e senza vita.

Èomer si avvicinò lentamente al letto, allungò una mano. Si accorse di tremare. Serrò il pugno per cercare di controllare il tremito, poi, lo riaprì, e con dolcezza allontanò i capelli dalla fronte sudata. Poi spostò la mano su quella immobile dell’uomo e la strinse delicatamente.

“Perché?” appena un sussurro. Non voleva che gli altri si accorgessero del nodo che gli stringeva la gola.

Sentì la voce del Re alle sue spalle.

 

“Hai bisogno di riposare, Èomer, non dormi da giorni, non mangi. Stai perdendo le forze. E non puoi permettertelo, lo sai bene. Un Sovrano non può essere debole, per quanto dolorose siano le pene che lo affliggono.”

 

Èomer alzò la testa verso il Re di Gondor, colpito dalla verità di quelle parole. Non c’era stata durezza nella voce di Aragorn, solo una profonda e rassegnata tristezza.

 

“E perché dovrei mangiare, dormire, respirare? Perché dovrei continuare ad comportarmi come se nulla fosse successo? Perché dovrei continuare a vivere?”  Questo avrebbe voluto rispondere. Ma sapeva che Aragorn non aveva risposte per lui.

 

“Va bene, Estel, rimango ancora un poco. Poi andrò a riposarmi.”

 

Incrociò lo sguardo con quello del Re e si accorse di quanto fosse esausto. Avevano combattuto così a lungo che gli sembrò di non avere fatto altro da un tempo che non riusciva a calcolare. La sua memoria si era affossata nel sangue delle battaglie, nel potere oscuro del Male di Sauron, nei corpi straziati che si erano lasciati alle spalle.

Sentì la porta chiudersi alle spalle e il proprio corpo cedere all’improvviso alla stanchezza. Chiuse gli occhi cercando per un attimo di immaginare un altro tempo e un altro luogo.

 

“Lo ami, vero”.

 

Èomer si girò di scatto. Legolas non se ne era andato e ora lo fissava con uno sguardo dolente e profondo. Fece per rispondere bruscamente che non erano affari che lo riguardavano, poi, all’improvviso, si rese conto che era inutile negare, che l’Elfo sapeva perché gli stava leggendo dentro. Vide nei suoi occhi che non c’era biasimo né stupore, ma comprensione.

 

“Sì.” Riuscì a malapena a sentire la propria voce. Per un attimo pensò quasi di non avere parlato.

 

“E allora diglielo. Diglielo ora. Subito. Prima che sia troppo tardi.”

 

L’Elfo si girò all’improvviso ed uscì dalla stanza.

 

Èomer rimase a fissare la porta, chiedendosi per un lungo istante se quella conversazione fosse realmente accaduta. Poi, un rumore quasi impercettibile catturò la sua attenzione. Si rivolse verso l’uomo nel letto e vide che stava muovendo le labbra, come se stesse cercando di parlare. Si avvicinò a lui, posando l’orecchio il più possibile vicino alla bocca del compagno, nella speranza di cogliere un suono, un suono qualsiasi. Ma sentì solo il silenzio di piombo che pesava sulla stanza.

Vide una piccola goccia luccicare improvvisa sulla guancia martoriata dell’altro e si accorse con stupore che quella piccola goccia era caduta dai suoi occhi.

 

Stava piangendo, per la prima volta nella sua vita, Èomer Re di Rohan, Signore del Mark, stava piangendo.

 

“Ti amo, Faramir.”

 

Si sedette sul pavimento, di fianco al letto, con la testa abbandonata contro la parete e la mano dolcemente appoggiata su quella di Faramir.

 

Sento il dolore tornare di nuovo e non riesco a combatterlo. La mia volontà si sta arrendendo alla vista del tuo corpo sofferente e del tuo volto senza vita. Vorrei piangere, prenderti fra le braccia, stringerti, consolarti, prendermi addosso tutto il tuo dolore, e non solo quello delle ferite, quello del corpo, ma anche e soprattutto quello della tua anima. Un dolore che ti ho letto dentro la prima volta che ho incrociato i tuoi occhi e che tu hai sempre cercato di nascondere a tutti, perfino a te stesso. E che, pure, a me non è sfuggito. Forse perché siamo più simili di quello che ho sempre voluto credere.

Vorrei dimenticare tutto, per un attimo, e chiudere gli occhi e dormire. E sognare. Sognarti come ho fatto tante volte. Ma so che sarebbero sogni di morte e di paura. La paura più grande, quella di perderti, ora è accompagnata da una paura ancora più terrificante: quella che tu possa ricordare.

Sto male, ho la febbre, non mangio da giorni e non voglio dormire perché ho il terrore di quello che il buio potrebbe portarmi. Allora ricordo. Chiudo gli occhi e cerco di ricordare... quando è iniziato tutto.

Ricordo il tuo sguardo affranto e le lacrime trattenute di fronte alla rabbia e al rifiuto di tuo padre.

Ricordo il tuo sorriso addolcirsi ogni volta che hai parlato di tuo fratello.

Ricordo l’orgoglio e l’angoscia con cui hai ascoltato della sua morte da eroe e del suo tormento da dannato.

Ricordo le prime parole che mi rivolgesti, appena risvegliato dal lungo sonno che ti ha portato così vicino alla morte dopo la battaglia ad Osgiliath.

Ricordo il sorriso di speranza per il futuro della tua gente.

Ricordo la forza e la potenza di Nùmenor irradiarsi dal tuo sguardo dignitoso e regale il momento in cui Re Elessar ti ha insignito del ruolo di Principe dell’Ithilien.

Ricordo... ricordo tutto, ogni singolo istante, perché già allora il mio amore per te stava crescendo forte e insensibile al rifiuto della mia mente, mentre, disperatamente, inutilmente, tentavo di ricacciarlo lontano. La mia battaglia più inutile. L’unica battaglia persa.

Ricordo, infine, quando ho ammesso la mia sconfitta: sono solo pochi giorni. Eppure sembrano molti anni...

 

Ma quanto tempo è passato veramente?

 

*** 10 giorni prima***

 

Erano partiti alla caccia degli ultimi drappelli di seguaci di Sauron sopravvissuti alla disfatta di Mordor. Un’occasione per combattere insieme un’ultima volta, prima che la compagnia, i vecchi e i nuovi compagni, si disperdesse per sempre, ognuno per la sua strada, nelle sue terre, a seguire quello che il destino e il futuro gli avrebbero tenuto in serbo.

Avevano seguito le tracce degli Uruk-hai, lì li avevano accerchiati e massacrati in poco tempo.

 

Era stato solo per un caso che la notte seguente non erano rientrati a Gondor. Forse per prolungare ancora per un po’ il piacere della compagnia reciproca, una parte di loro aveva deciso di accamparsi in una radura non lontana da Minas Tirith, in prossimità di un piccolo stagno, e avevano condiviso ancora una volta il cibo e il vino, i racconti della battaglia finale contro Mordor e le gesta eroiche di chi era sopravvissuto e di chi non c’era più. Poi, piano piano, quando la luna era ormai alta e i suoni del bosco si erano fatti più forti, si erano lasciati vincere dalla stanchezza: prima Merry e Pipino, sfiniti ed eccitati per aver partecipato alla piccola impresa, poi Gimli, che era piombato subito in un sonno pesante e fragoroso; perfino Aragorn aveva accolto con piacere il momento di riposo, sdraiandosi con le braccia dietro la testa. Vicino a lui, Legolas aveva iniziato un canto nella sua lingua.

Èomer non ne aveva compreso il significato, ma il tono della voce e la melodia che legava le parole fra di loro lo avevano cullato dolcemente facendolo scivolare verso il sonno. Poi, un rumore leggero lo aveva destato e, girandosi, aveva visto Faramir stendere il mantello a pochi passi da lui. Per un attimo i loro sguardi si erano incrociati ed Èomer si era sentito accarezzare da quello sguardo limpido e sincero, in cui aveva letto tutto il dolore degli eventi appena passati: la morte del fratello, l’odio di suo padre, la sua stessa vita quasi spezzata dalla follia del suo stesso genitore.

Era rimasto sveglio a lungo, trattenendo il respiro ad ogni rumore e ad ogni movimento proveniente dal corpo sdraiato al suo fianco, ripensando a tutte le volte in cui si era ritrovato a cercare di leggere dentro l’anima che si celava dietro quello sguardo.

Alla fine si era lasciato vincere dal sonno e dalla stanchezza e si era addormentato, il sorriso di Faramir come ultima immagine impressa nella mente.

 

Non sapeva per quanto aveva dormito, se pochi minuti o alcune ore; la luna era ancora alta e tutto sembrava apparentemente tranquillo. Ma i suoi sensi acuti di guerriero avevano percepito qualcosa, un rumore forse. Si era alzato lentamente, cercando di non svegliare i compagni e, d’istinto, si era diretto verso il piccolo stagno che si trovava poco distante, nascosto dagli alberi e dagli arbusti. Man mano che si avvicinava sentiva più chiaro un rumore ricorrente, come se qualcuno si stesse muovendo nell’acqua.

Ma i suoi sensi non erano allarmati, non sentiva il pericolo nell’aria, solo una strana sensazione alla bocca dello stomaco

Si era fermato di colpo di fronte alla scena che gli si era parata di fronte, paralizzato dallo stupore.

Il Re di Gondor, Aragorn, e Legolas erano in piedi in riva allo stagno, stretti uno all’altro; la pelle diafana dell’Elfo, resa quasi trasparente dal chiarore della luna contro quella scura dell’uomo.

Un abbraccio tenero ed forte allo stesso tempo.

Èomer era rimasto immobile, con il terrore di essere scoperto e, al contempo, affascinato dalla scena.

Le labbra di Aragorn che si muovevano dolcemente sulla fronte dell’Elfo, sul volto, seguivano la linea del collo e poi scendevano sul petto. Legolas era completamente abbandonato, la testa all’indietro e la bocca socchiusa, da cui uscivano gemiti a stento soffocati, le mani forti e delicate avvinghiate nei capelli scuri dell’uomo.

 

“Ti amo, Estel, non lasciarmi mai.”

É questo l’amore.

Una supplica quasi disperata, parole soffocate in gola.

Incondizionato, puro e senza vergogna.

“No, non lo farò, Legolas. Lo sai che non lo farò.”

L’amore che fa inginocchiare un re e supplicare un guerriero.

 

Aragorn si era inginocchiato di fronte al Principe di Mirkwood e lo aveva guardato con tenerezza.

Poi, dolcemente, lo aveva preso per le mani e lo aveva fatto sedere in grembo. La dolcezza aveva rapidamente lasciato il posto al desidero e le labbra dei due amanti si erano cercate, con forza.

Le mani di Aragorn accarezzavano il corpo di Legolas lentamente, lungo la schiena sui fianchi, scivolando piano verso l’interno delle cosce, toccando appena la pelle liscia e sensibile. L’Elfo aveva lasciato la bocca dell’uomo, incapace di soffocare un gemito più forte e aveva appoggiato la fronte su quella del compagno, con il respiro affannato e i fianchi che si muovevano verso l’alto, e quando le dita di Aragorn avevano iniziato ad accarezzarlo in mezzo alle gambe, sfiorandolo, prima lentamente e poi chiudendolo nella mano in movimenti lunghi e lenti, Legolas aveva perso ogni controllo e, gettando la testa all’indietro, aveva allargato le ginocchia, innalzando il bacino con forza disperata, per aumentare la pressione contro la mano dell’uomo.

 

Dalla sua posizione, Èomer guardava incantato la scena.

Aveva chiuso gli occhi sentendo su di sé il calore di quei gesti e, subito, il volto di Faramir, gli era apparso di fronte. Per un attimo, non erano Aragorn e Legolas che facevano l’amore in quella notte, ma lui e Faramir.

All’improvviso si era sentito un intruso. Non aveva alcun diritto di rimanere lì, a rubare come un ladro momenti che non gli appartenevano. Si era girato di scatto, incurante del rumore e si era diretto all’accampamento. Si era sdraiato al posto che aveva abbandonato, sentendosi stranamente frustrato. Sapeva che non avrebbe più dormito. Si era voltato su un fianco, alla ricerca di una posizione comoda e aveva incontrato nuovamente il volto di Faramir, rilassato e sereno nell’abbandono del sonno, la bocca socchiusa appena increspata in un sorriso. Èomer era rimasto a fissarlo per un lungo istante e aveva dovuto soffocare l’istinto di accarezzargli i capelli colore del rame, incapace di distogliere lo sguardo da quell’immagine insolitamente serena, incantato dalla bellezza nobile di quei lineamenti, delicati e decisi allo stesso tempo.

Aveva dovuto lottare contro la propria volontà di chinarsi e baciarlo sulle labbra.

Improvvisamente si era reso conto di desiderarlo, come mai aveva desiderato qualcosa o qualcuno in tutta la sua vita.

Avrebbe voluto prenderlo fra le braccia , accarezzargli il volto e i capelli, baciarlo e poi toccarlo, e fare l’amore, prendersi cura di lui e confortarlo. Aveva cercato di nascondere a se stesso il suo sentimento e ci era quasi riuscito. Ma l’immagine  di Aragorn e Legolas aveva improvvisamente distrutto ogni sua volontà.

 

Era quello il desiderio, e non i rapidi momenti rubati prima di una battaglia, per allentare la tensione, con un compagno che, a volte, non conosceva nemmeno.

Aveva chiuso gli occhi, cercando di scacciare la sensazione fortissima del corpo di Faramir sdraiato al suo fianco. Ma la sua volontà era debole. Sentiva l’eccitazione crescere in modo quasi insopportabile. Aveva portato la mano ai lacci che chiudevano i pantaloni nella speranza di allentare la pressione, ma non appena le dita avevano sfiorato il rigonfiamento che premeva contro la stoffa era riuscito a trattenere a stento un sospiro e aveva spinto il bacino involontariamente contro il calore della propria mano.

In quel momento, aveva capito che non sarebbe riuscito a controllarsi: il desiderio era così forte da fargli male.

Si era girato sul fianco, dando le spalle all’uomo che dormiva a poca distanza da lui e si era morsicato le labbra per soffocare un gemito; la sua mano aveva iniziato a muoversi, mentre si accarezzava, prima delicatamente poi con forza crescente, era scivolata nell’apertura dei pantaloni e aveva sentito la propria erezione, dura e forte, pulsare contro le dita. Aveva iniziato a muovere la mano piano, con delicatezza, per paura di esplodere senza controllo.

Poi, una brezza calda gli aveva sfiorato il collo, facendolo rabbrividire e la voce bassa, sussurrata di Faramir, lo aveva raggiunto, paralizzandolo per un istante.

“Non ti fermare...ti prego...”

Aveva sentito la mano di Faramir scivolare lungo i suoi fianchi, sfiorandogli l’inguine, l’interno delle cosce, la punta delle dita accarezzare il suo sesso in lenti movimenti circolari e poi scendere fino a chiudersi sulla sua mano, aumentando la pressione.

Era bastato quel tocco ad Éomer per fargli perdere il controllo: aveva sentito un fiotto caldo e bagnato inondare la propria mano e quella dell’uomo alle sue spalle e le sue grida erano state soffocate dalla bocca di Faramir. 

Éomer era rimasto immobile, incapace di parlare, di reagire per un tempo che gli era sembrato eterno, il cuore impazzito, i brividi lungo la schiena, il respiro caldo di Faramir contro il collo, la sensazione fortissima del corpo dell’altro premuto addosso.

Non era riuscito a parlare, non una parola. Aveva stretto la mano di Faramir nella propria, cercando di controllare il respiro, si era voltato e aveva incontrato lo sguardo colore del mare dell’altro. Poi un bacio sulla bocca muta dell’emozione.

“Ora dormi, Èomer.”

Ed Èomer si era stretto ancora di più contro l’uomo al suo fianco e aveva chiuso gli occhi, assorbendo dentro si sé ogni minima sensazione che riceveva dal corpo di Faramir: il suo odore, il suo calore, il suo respiro sulla pelle, la sua mano ancora bagnata, le sue parole, dolci, sincere, sicure.

Si era addormentato così, pregando dentro di sé che quel momento non terminasse mai.

 

Maledico la mia debolezza. Maledico il mio corpo, i miei sensi, la mia anima dannata dal desiderio.

Se solo ti avessi parlato, se solo avessi pronunciato quelle poche parole che ora si ripetono ossessive nella mia mente...

Se solo non avessi rimandato il momento all’alba...

 

L’alba era arrivata insieme alle grida degli Uruk-hai. Improvvisamente tutti avevano capito: la vittoria sugli Orchi era stata così facile... una trappola in cui tutti loro erano caduti. Erano così stanchi di combattere che avevano voluto credere che quello sparuto gruppo di servitori di Mordor fosse tutto quello che era rimasto delle forze del male.

Si erano illusi.

Orchi e Uruk-hai li avevano sorpresi nel sonno e li avevano attaccati. Erano in pochi, per la verità, ma la loro rabbia e il loro odio, la mancanza completa di speranza li avevano resi ancora più feroci.

Erano stati i sensi acuti di Legolas che avevano salvato le loro vite. Le sue frecce avevano colpito quando ancora la compagnia si guardava intorno frastornata cercando di capire l’origine delle grida.

Poi, come scossi da un fulmine, si erano ritrovati tutti con le armi in pugno, cercando di fronteggiare il nemico.

 

... gli occhi pieni di terrore degli Hobbits, le grida di Aragorn, il rumore del ferro contro il ferro, del ferro dentro la carne, il dolore al braccio che mi ha quasi fatto perdere il sensi, il ringhiare degli Uruk-hai. E i miei occhi che ti cercavano, disperatamente, mentre ti vedevo combattere...

 

Il silenzio era calato di colpo e i superstiti si erano ritrovati in piedi, in silenzio, a fissarsi e a fissare i cadaveri: uomini e Uruk-hai, accasciati gli uni sugli altri, il loro sangue mescolato. Gli occhi di Aragorn che si muovevano rapidamente da uno all’altro, per vedere chi era sopravvissuto: Legolas, i piccoli Hobbits, spaventati ma vivi, Gimli, con la sua ascia sporca di sangue ancora alzata, alcuni uomini del suo drappello. Ed Éomer, con il braccio ferito e gli occhi spalancati che cercavano disperati in mezzo ai cadaveri.

“Dov’è Faramir?”

Nessuno aveva risposto, avevano continuato a guardarsi l’un l’altro incapaci reagire, cercando di controllare il respiro e il cuore impazzito.

“Dov’è Faramir!”

Questa volta aveva gridato, e nel tono acuto della propria voce aveva sentito la paura.

La risposta era arrivata nell’urlo di dolore che aveva gelato loro il sangue. Poi, all’improvviso, si erano gettati tutti in quella direzione.

La freccia di Legolas aveva colpito l’Uruk qualche istante prima che la sua spada affondasse nella schiena dell’uomo ai suoi piedi.

 

***