.|. Schegge di Follia - take 3  .|.

Nota: Questa ‘scheggia’ che vi presento è l’ultima della Serie, ed anche lei, come le sue sorelline, è un esperimento narrativo. =) La caratteristica di questo take 3 è che l’elemento visionario è mischiato a situazioni poco serie.    Molto poco serie. Non uno humor nel senso stretto del termine, ma ciò che in essa c’è di profondo è stemperato    in situazioni e commento davvero assurdi. Vi prego quindi di scusare l’occasionale comportamento poco “in carattere” dei personaggi – soprattutto Ara. ^^;;

Dediche: a Taurie, perché è grazie a lei se, tra qualche capitolo, comparirà un certo personaggio che tutte       voi conoscete e amate! A Lago, perché è la mia twinny, e come tale mi sopporta quando le mando i capitoli       in anteprima. Ed anche e soprattutto a  Leia, per il semplice fatto di essere Leia, la mia droga personale,       musa ispiratrice, e consorte adorata. *_*

 

1. Parte Prima: Nonostante poco o niente rimanga oggi del suo antico splendore, Minas Tirith è una città affascinate

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Nonostante poco o niente rimanga oggi del suo antico splendore, Minas Tirith è una città affascinate, dotata di una bellezza struggente, che toglie il fiato. Ed io, come uno spasimante perduto, resto a contemplarla seduto sulle gradinate che portano fino nel Palazzo dei Re, intento a guardare la sua lucentezza di perla occhieggiare ammaliante tra le rovine e il fango, a sentire la sua voce cristallina echeggiare come musica nell’aria.

Ha piovuto; dopo la tempesta che è stata la guerra, sulla città si abbattuta un’altro tipo di tempesta, con lampi e fulmini e colate d’acqua scrosciante.  Le strade sono fiumi grigi dove scorrono lenti oscuri fantasmi nebbiosi. Fa freddo, quel freddo pungente che sembra colpirti la pelle come tanti, minuscoli aghi e che ti penetra nei polmoni come fosse acqua, e rende doloroso respirare.

O forse no.

Forse il dolore che sento al petto quando respiro non ha nulla a che vedere col freddo. O con il fatto di essere qui, il Grande Re Della Stirpe Di Númenor Finalmente Tornato E Scusate Se E’ Poco. Sono tra la mia gente, ma questo non mi da la felicità che potete immaginare. Perché non sono a casa.

E, in tutta onestà, non so nemmeno quale o dove sia, la mia casa.

Una donna vestita di nero avanza lentamente in fondo alla via. E’ minuta, piccola e gracile come una bimba. Tutto ciò che è visibile di lei è il pallore del viso e delle mani, mappate di rughe come parole di un libro tracciate nel marmo. Avanza ondeggiando, come rassegnata a quell’andatura che le è impossibile accelerare, e canta tra se e sé una nenia dei tempi antichi. Si ferma davanti ad uno degli usci e faticosamente si adagia sugli scalini. Nelle sue mani appaiono, come per magia, una bambola di pezza ed un lungo ago ritorto. La donna si china sulla bambola e con pazienza certosina inizia ad applicare, uno a uno, i lunghi capelli di lana rossa. In grembo, tra le pieghe scure della gonna si intravede il luccichio azzurro di quelli che saranno gli occhi della bambola, ed un nastro di seta gialla.

Da un vicolo esce correndo una ragazza: un lampo di gonne verdeacqua e lunghi ricci color del grano che si fa strada nel grigiore uggioso del pomeriggio, mentre il tuono che la segue è il suono suadente della sua risata. Un ragazzo la rincorre, le mani protese sopra la testa. Lei si gira, lo vede, e lancia un gridolino. Fa per correre più in fretta, ma il ragazzo l’afferra per la vita, la solleva e la fa girare con la testa gettata all’indietro. Quando sono entrambi coi piedi per terra la ragazza si gira e lo bacia, prima di correre ancora via, con le guance rosse; ma stavolta la sua mano è intrecciata a quella di lui, e lo trascina avanti.

Il dolore al petto si intensifica.

Direi che è per via della mancanza di Arwen; eppure ciò che ha causato quest’ultima fitta non è stata affatto la vista dei due amanti felici, bensì quella dei capelli di lei, biondi come l’oro, mischiarsi a quelli di lui, scuri come l’ebano, e le loro dita -quelle bianche e sinuose di lei contro quelle di lui, forti e scurite dal sole- intrecciarsi. Oro e ebano, luce e ombra che si fondono, si uniscono, si amano… – ecco il pensiero che mi stringe il cuore. Ma non so perché.

“Il Re è pensoso?” un’ombra scivola sopra di me, e guardo affascinato la sagoma dai lunghi capelli ondeggiare sugli scalini di marmo. Sorrido.

“Mi spiace, se cercava un Re è giunto nel posto sbagliato. Non c’è alcun Re qui, almeno fino a domani. Pensa di poter ripassare dopo la cerimonia di incoronazione, o la sua è una faccenda urgente?” Dietro di me proviene un suono a metà tra una risata ed uno sbuffo. L’ombra si porta una mano al collo, la insinua sotto i capelli e con un gesto secco, ma armonico li ricaccia dietro la spalla. Qualcuno in fondo alla scalinata prorompe in un sospiro di piacere, ed è prontamente schiaffeggiato sulla nuca.

Legolas si siede accanto a me sugli scalini con le ginocchia al petto. Una mano scivola fino a sfiorare la caviglia; l’altra si curva attorno ad una spalla, mentre lui si raggomitola in avanti, e piega la testa di lato per incrociare il mio sguardo. Sorride, quel piegarsi malizioso dell’angolo della bocca, che si fa stretta, mentre una fossetta gli appare nella guancia.

Si rende conto di come ogni suo piccolo gesto, ogni cosa che fa, sia incredibilmente sensuale? Non credo. Lancio un’occhiata in fondo alla scalinata. La bellezza bionda di poco prima sta guardando imbronciata il suo spasimante. Da come gesticola capisco che lui si sta prodigando in ampie scuse e lunghi elogi; eppure non può fare a meno di scoccare, di tanto in tanto, un’occhiata a Legolas. E persino la ragazza, che pretende ancora di essere offesa, a tratti si scopre a fissarlo con occhi lucidi.

La bellezza di questo Principe degli Elfi è sorprendente. Quando cammina per le strade, gente che passeggia va a sbattere contro i muri, commercianti di ritorno dal mercato lasciano che la loro preziosa merce scivoli a terra e si distrugga, i neonati smettono di piangere, gli avventori dalla locanda si versano addosso i contenuti dei boccali di birra, mentre, con le teste girate e le bocche spalancate, ammirano le sue forme fasciate dai vestiti aderenti.

Ricordo una volta quando, per mostrarmi come la ferita che aveva ricevuto nell’ultima battaglia si fosse rimarginata del tutto, Legolas si era –nel centro geometrico della strada- sbottonato la tunica, e ne aveva abbassato il collo per rivelare una spalla bianca, incredibilmente perfetta, e perfettamente nuda. Il trambusto che quella visione aveva generato fu di proporzioni immani. Basti dire che una neo-mamma col bimbo seduto in grembo ed un cucciolo scodinzolante ai piedi aveva offerto a suo figlio una ciotola di avanzi, mentre tentava di allattare il cane.

Eppure Legolas sembrava non rendersi conto dell’effetto che aveva sulle persone. Le poche volte in cui ho provato ad accennarglielo lui mi ha fissato, col viso tutto occhi sgranati e labbra sorprese, e mi ha sussurrato con la sua voce roca: “Io…?” trasformando le mie ginocchia in burro.

C’è un cambiamento nel viso di Legolas. Lo sto fissando in silenzio da qualche minuto, e so per istinto che l’espressione sul mio volto è tutt’altro che felice, sebbene la sua presenza mi riempia di una gioia strana, che è dolce, ed un nervosismo che mi ricorda i tempi in cui ero ancora piccolo.

I suoi occhi si stringono, la fossetta all’angolo della bocca scompare, mentre le labbra si tramutano all'improvviso in una linea serrata e pallida. Tremano? Le sue labbra stanno tremando, o è solo un gioco della luce?

“Ti manca Arwen,” dice lui in tono serio. Io mi scuoto, lo fisso, e per un momento non capisco cosa intende. Ai piedi della scalinata i due fidanzatini hanno fatto pace, e le loro labbra e le loro lingue sono impegnate ad urlare al mondo l’entità del loro amore – sebbene tale dichiarazione non ha nulla a che vedere con le mere parole. Il loro entusiasmo fa arrossire quelle poche persone che ancora si affrettano per le strade. Un tempo avrei sorriso a quella vista. Ora fa male. La pelle bianca di lei, elfica quasi, contro quella più scura di lui, che in fatto di cicatrici non ha nulla da invidiarmi, è un connubio perfetto, e per me, un dolore.

“No,” dico. E nonostante la stretta al petto, so di non mentire. “No,” ripeto, ma Legolas scuote la testa.

“Non negarlo.” Sospira. Sembra stanco, stanco come chi ha visto l’inizio del Mondo e la sua fine ed ancora continui a vivere, potrebbe esserlo. La sua pelle è incredibilmente diafana, gli occhi languidi e trasparenti. Sono segni che –lo so- si notano sugli Elfi che diminuiscono, che scompaiono gradualmente da questo Mondo che li fa soffrire. Ma mi rifiuto di credere che Legolas stia –Valar, il solo pensarlo mi riempie di un’angoscia orribile!- per morire.

Così attribuisco quello strano pallore alla stanchezza, e faccio finta di dimenticarmene, relegando la preoccupazione in un cantuccio ben nascosto del mio animo.

Scrollo le spalle. “Ti dico la verità, non stavo pensando a lei.”

“No? E cos’altro può renderti così languido in un momento come questo?” Incalza lui, alzando il volto al cielo. “Abbiamo vinto, l’Anello è distrutto -Sauron è distrutto- la Compagnia è riunita a Minas Tirith, e tu sei Re. Cos’altro, se non l’amore, può renderti così cupo quando invece dovresti gioire?”

“L’Amore, dici bene,” ammetto io. L’Amore, ma non Arwen. E l’amore che mi manca, l’amore in sé, quello che ti lascia sveglio la notte e senza fiato di giorno, stordito e felice come un bimbo. L’amore, si. Ma non, *non*, l’amore di Arwen. Non è lei a mancarmi, la bella Stella del Vespro che per tanto a lungo ho desiderato. No, non è lei che vorrei con me. Ma tutto questo non glielo dico, e ricaccio in gola queste parole che so essere vere, anche se non le comprendo, mentre mi chiedo: Ma allora chi? Chi è che voglio?

Legolas si alza, e con rapidi colpetti delle mani ripulisce i suoi pantaloni immacolati. Un uomo ruzzola giù dalle scale a quella vista. Un altro, che stava trasportando un peso dalla sua casa distrutta al suo nuovo alloggio, se lo lascia cadere sul piede, ma è così rapito che non urla nemmeno. Una donna, che era uscita di casa col pentolone della cena, e si stava dirigendo verso gli uomini che lentamente ricostruiscono la città, se lo lascia sfuggire di mano; e quello se ne rotola via giù per la discesa, attraverso le porte della città, nei campi, fino a scomparire dalla vista.

E tutto perché Legolas ha fatto scivolare le mani sulle cosce, e sollevando la tunica ha rivelato, sfiorandole lentamente con le mani, le natiche strette a guaina nei pantaloni mozzafiato, mentre il suo corpo si piegava in avanti in una posa tanto provocante quanto ingenua.

Uhm, parlando di pantaloni stretti…

…Oh, possibile che non riesca *mai* a concentrarmi quando c’è Legolas vicino? Mi alzo anch’io, e resisto a malapena l’impulso di mettermi in mostra davanti alla folla adorante sfiorandogli i capelli, o la mano, o stringendolo a me, con quella semplice intimità che ci unisce da sempre. Poi però Legolas ricomincia a parlare, ed i miei sogni d’esibizionista s’infrangono come un castello di sabbia sotto l’onda.

“Posso partire?” sussurra. Quanta fragilità c’è nella sua voce! Si volta verso di me, e c’è tanta emozione nei suoi occhi, una tale tempesta, che mi sento annegare. “Liberami dalla mia promessa. Fammi partire, Aragorn. Fammi partire, Estel.” E poi dalle sue labbra sfugge qualcosa che non avrei mai pensato di sentirgli dire:

“Ti prego.

Il freddo si fa eccessivo. Da qualche parte, dietro le nubi, il sole deve essere tramontato, portando con se tutto il suo calore. L’aria è immobile, ma c’è un frastuono, nelle mie orecchie, come di foglie sbattute dal vento. E mi domando: il velo ondeggiante che distorce la mia visione, è davvero solo il fumo che s’alza dalla mia pipa dimenticata, e che s’avvolge intorno al mio capo? Aldilà di esso si stende un grigiore infinito, ed il freddo, il terribile freddo, s’insinua così in profondità dentro di me da gelarmi le ossa, il cuore, la mente.

Vedo, tra le spire di fumo, il volto di Legolas, nulla più di una chiazza indistinta di pallida luce bianca, dove, a tratti, riesco a distinguere il blu marino dei suoi occhi.

Ricordo il periodo in cui mi fece quella promessa di starmi sempre accanto. Ricordo le sue mani gentili sul mio capo di bambino, sulle guance rigate di lacrime, gli occhi gonfi. Rammento il dolore che mi dilaniava, perché quel giorno, fuggendo per i boschi, l’avevo costretto a seguirmi, lui e i gemelli, e l’avevo visto ferirsi, per proteggermi. Ricordo l’incresparsi della sua bocca, serrata in una linea di dolore, e quel fiore di sangue che sbocciava nel candore immacolato della sua tunica. Ricordo il modo in cui si era alzato, ed era venuto da me, che mi torcevo ed urlavo tra le lacrime, avanzando sulle gambe tremanti; e ricordo come, gettandosi in ginocchio, mi aveva stretto, ed io avevo sentito il suo cuore battere, mentre il calore del suo sangue veniva in contatto con la mia pelle gelida e fradicia di pioggia. Ah, non ho mai gettato quella tunica arrossata dal sangue. Non volevo dimenticare lui, il suo sacrificio, il suo calore, e di come mi aveva promesso, sorridendo come un Vala, che mai, mai mi avrebbe lasciato, e che mille e mille volte avrebbe dato la sua vita per me, il suo prezioso Estel, il suo discepolo adorato, il suo piccolo amore.

Quanto assurdamente bello era il suo volto nell’agonia della ferita, acutizzata dal pensiero della mia mortalità, che egli mi spiegava essere un dono, sebbene esso mi avrebbe, un giorno, strappato via da tutto coloro che amavo e che mi amavano – mi avrebbe strappato via da lui.

Mi sembra di rivedere quell’espressione di suprema sofferenza, e per un lungo momento non comprendo che non è affatto un’illusione la mia, e che Legolas mi sta davvero guardando con gli occhi sgranati e colmi di dolore, le labbra livide, le guance pallide. E ancora di più mi ci vuole per rendermi conto del motivo di quell’espressione: gli ho urlato contro, urlato con tanta veemenza da far girare il capo di tutti i presenti, che no, non può, non può andarsene! Non può lasciarmi, ed io non glielo permetterò!

Tenta di farmi ragionare, mi promette che sarà per poco, sebbene, quando gli ricordo con voce brusca che l’intera vita di un Uomo può essere breve agli occhi di Elfo, lui ammette con riluttanza, che si, potrebbero passare decenni prima che torni, decenni infiniti di solitudine e struggimento.

“Aragorn, ti prego!” sussurra lui, “Non vedi? Ho giurato davanti ai Valar di non lasciarti mai, e non ci sarà libertà per me, se non sarai tu a darmela! Mai, mai, finché non te ne sarai andato per sempre! Vuoi davvero negarmi la possibilità di vivere la mia vita? Vuoi tenermi legati qui, a Gondor, come un cane, o un altro animale esotico e strano da mostrare a chi non ti conosce, e vantarti, dicendo che è tuo? Che capiterà quando vorrò andare da mio Padre, dalla mia gente? Quando vorrò rivedere i luoghi della mia infanzia, o dare l’Ultimo saluto a coloro che amo e che partono per sempre verso il lontano Ovest? Che accadrà quando vorrò allontanarmi, e non potrò, perché tu non me ne dai la possibilità?”

“Scuse! Tutte scuse! Sei arrivato anche a mentirmi, pur di andartene? Pur di liberarti di me?” scoppio in un ruggito, un cupo, maligno suono accusatorio: una rabbia indignata che mi fa tremare. “Altre volte ci siamo separati, e mai, mai, mi hai chiesto di spezzare la promessa che ci lega. E ora neghi che sia perché non vuoi tornare, una volta partito? Neghi di volermi lasciare, lasciare queste sponde e tutto ciò che vi è sopra, per sempre?” Legolas sospira, lasciando trasparire ancora quella spossatezza indicibile, quell’eterea disperazione.

“Tornerò. Perché non mi credi?” Si volta verso le porte del palazzo, e fissa le spoglie ritorte e arse dell’Albero Bianco, antico simbolo corroso dello splendore di questa città, di questo Regno, e della stirpe che su di esso governava – la mia stirpe, decaduta e triste. “Non ti fidi più di me? Conta così poco l’amicizia che ci unisce, gli anni passati insieme nel bene e nel male? Davvero non mi lascerai andare? Nemmeno se ti assicuro che devo andarmene, assolutamente, altrimenti le conseguenze saranno terribili?”

Tendo una mano per sfiorargli il viso, ma Legolas si gira, e tutto ciò che mi permette di fare e immergere le dita in una ciocca di capelli dorati.

“Davvero torneresti?”

“Un giorno, si.”

“Prima della mia morte?”

La sua risposta non è verbale. Si limita ad annuire, mentre evita meticolosamente di incontrare i miei occhi. Si stringe nelle spalle, le mani chiuse intorno alle braccia in una posa protettiva. Sospiro.

“No, Legolas. Non voglio vederti partire. E non ti libererò dalla tua promessa finché non mi dirai perché vuoi fuggire-” lo fermo con un cenno della mano quando lui tenta di ribattere, “-perché questo è ciò che vuoi fare. Vuoi andartene, dimenticando il nostro patto, e tornare solo l’attimo prima che chiuda per sempre gli occhi. Ma vuoi anche che la tua coscienza, in tutto questo, resti pulita, così preferisci rendere nulla la promessa che mi hai fatto davanti ai Valar, la promessa sacra che ai suggellato con le lacrime e il sangue. La domanda è: perché? Perché vuoi farlo? Perché restare ti spaventa a tal punto? Tanto da dimenticare l’onore, e con esso l’amicizia?” Un lampo passa nei suoi occhi scuri, una fiammata di quella caparbietà, quella fierezza, che l’ha sempre contraddistinto tra i suoi simili e fatto brillare, anche quando la sua è una razza di spiriti indomiti.

“Perché devo,” dice, e la sua voce assume un tono strano, roco, ed estremamente basso. Provo a rispondere qualcosa, qualsiasi cosa, ma la sua tristezza, il suo ostinato riserbo, mi tolgono le parole. Alle sue spalle vedo profilarsi la sagoma di Faramir, che col volto tirato dalla stanchezza mi fa cenno di seguirlo. Scuoto la testa per schiarirla, e ricercando un sorriso nelle memorie sepolte in profondità dentro di me, mi sforzo di piegare le mie labbra in un’imitazione almeno sufficiente.

“Ne riparleremo, va bene?” e con un’ultima, leggera carezza sulla guancia perfetta di Legolas, mi avvio a passo svelto verso Faramir, ripetendomi nella testa che la mia non è una fuga, non è una fuga… non c’è nulla di cui aver paura in quegli occhi tristi, quella voce stanca, quel pallore esangue e mortale… Legolas non sta morendo, no, no, e non mi sta nemmeno lasciando: non partirà, non lascerò che lo faccia. Mai.

Ciò che non posso sapere è che le mie speranze sono al tempo stesso incredibilmente profetiche, ed assolutamente errate.

No, Legolas non s’incamminerà aldilà di queste mura di fango e perla, il suo corpo immacolato e splendido non lascerà le fulgide stanze dagli arazzi dorati, i marmi venati e le lenzuola di seta. Eppure, tra poche ore io mi troverò ad intraprendere il viaggio più assurdo ed importante di tutta la mia esistenza: quello che riporterà Legolas da me.

 

* * * * *

 

- Come? Non c’avete capito niente? Vi domandate cosa cavolo voglia dire Aragorn con quell’ultima frase criptica? La risposta è si? Perfetto! Ho raggiunto il mio scopo! ^^ E si che volevo scrivere una storia onepiece… uh, almeno proverò a non dilungarmi troppo! ^^;;