.|. Tra Sogno e Realtà .|.

by Aranel

Parole rimaste sospese. Parole rimaste nel vuoto, in un passato apparentemente troppo lontano. Parole tenaci. I desideri di un uomo, i desideri di un ragazzo, tenuti reciprocamente nascosti agli occhi dell'altro. Una nuova terra, una terra viva e piena di passione. La forza del sogno e della fantasia, di un sogno che forse non è poi così lontano dalla realtà, un desiderio che non debba necessariamente restare rimpianto.

Sentimentale | Slash | Rating NC-17 | One Piece

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Sai, Vig? Spesso, ci ho pensato… ho pensato a come sarebbe stato se, fra di noi, le cose fossero andate in modo diverso…

Diverso… come?

Non lo so.Diverso…

 

“Diverso… come…?”

 

Ancora una volta mi ritrovai immobile a pensare.

Posizione di completa stasi fisica. Gli occhi fissi in un punto indistinto nel vuoto, vuoto variopinto, colorato con tonalità differenti da quelle reali, tonalità che sapevano di ricordi.

Ecco cos’era… fissavo il nulla dipinto dai colori impalpabili e trasparenti del ricordo, mentre quelle parole, implacabili, continuavano a tornarmi in mente negli istanti più inaspettati.

Questa volta ero impegnato a comporre versi.

La sua voce cristallina proruppe dirompente nel bel mezzo della composizione della mia poesia, dedicata, tra l’altro, ad un interlocutore immaginario, un “lui” senza volto, misterioso, partorito dai miei pensieri.

 

“Se le cose fossero andate in modo diverso…”

 

Mi parve di sentirlo vicino, tremendamente vicino in quel momento.

 

“Come sarebbe stato fra di noi…?”

 

Quella domanda si ripeté nella mia mente più di una volta, con quella franchezza e quel tono semiserio con cui lui l’aveva pronunciata allora. Con quello stesso tono che usava per raccontarti un aneddoto o, in momenti più intimi e speciali, quando sentiva l’esigenza di dirti qualcosa d’importante, di troppo importante e coinvolgente per essere confidato con serietà.

Così, era solito ricoprire il tutto con la sua voce allegra e con un velo di timida ironia. Ed era allora che io capivo…

 

“Come sarebbe stato, eh Vig…?”

 

Terribilmente disarmante.

Rimasi imbambolato con la penna a mezz’aria tra le dita, mentre, senza accorgermene, con i denti ne rosicchiavo nervosamente il cappuccio di plastica.

Come avevo potuto non accorgermene? Io, l’unica persona alla quale Orlando aveva concesso il privilegio di condividere i suoi lati più intimi e profondi, accuratamente tenuti nascosti durante il giorno dalla quotidiana maschera di fittizia perfezione, non avevo percepito che con quella domanda, il mio caro amico esigeva una risposta. E la esigeva da me.

Come avevo potuto non notare, sotto quel sorriso radioso, eccessivamente radioso, la tensione trattenuta che rendeva le sue labbra rosee, ancor più rosse?

Come avevo potuto essere così sordo dinanzi al tremolio della sua voce, occultato da quel tono scherzoso e volutamente disimpegnato?

Ero stato cieco ed indifferente ad ogni suo segnale, quel giorno, quando lui, con ancora indosso gli abiti di scena, venne da me e mi pose quell’insolita domanda, dosando ogni parola, come se quelle frasi fossero state a lungo meditate nella sua mente. Ed io ero stato solo capace a rispondergli… “Diverso? Diverso come…?”, assecondando la sua maschera e il suo gioco, anziché rischiare di scoprirlo, scoprirlo dolcemente, com’ero solito fare.

Lui mi rispose semplicemente con un “non lo so, diverso…”, fingendo di non sapere, di essere confuso, quando in realtà sapeva benissimo.

“L’unico a non sapere cosa mi sta succedendo qui sono io…”

Lasciai cadere inavvertitamente la penna sul tavolo, e quel piccolo rumore mi destò di colpo dai miei pensieri.

“Orlando!”

Il più bel ricordo che avevo di lui comparve nella mia mente… i suoi riccioli scuri, disobbedienti e selvaggi, il suo sorriso che rivelava il suo cuore bambino, i suoi occhi color nocciola, profondi, colmi di mille storie, vissute e sognate… i suoi occhi…

Dopo tanto tempo… lui ricomparve.

E d’improvviso le sue parole, le parole di quel giorno, le parole di Legolas confessate ad Aragorn in un momento lontano da ogni battaglia, acquistarono un senso.

 

“Come sarebbe stato, eh Vig? Non so nemmeno se migliore o peggiore di come stiamo adesso…”

 

Si, adesso, come due semplici amici. In fondo è questo ciò che siamo, non è vero Orlando? Perché vuoi… perché chiedere di più? Chiedere che cosa, poi…

 

“Però… quando mi guardo indietro vedo così tante strade lasciate vuote, strade delle quali non riesco a vedere la fine…”

 

Sei stato così enigmatico quel giorno, inaspettatamente profondo… impalpabile.

 

“Ma sempre assolate.”

 

Dio… il tuo sorriso. Il tuo radioso sorriso che sa sempre portarmi verso la luce.

 

“E rassicuranti…”

 

Così te ne andasti, lasciandomi con quell’ultima frase, frase che sembrava in qualche modo riguardarmi, che sembrava voler parlare a me. Fin troppe volte me lo hai ripetuto… l’unica persona capace di darti certezze, di tenerti al sicuro, mentre il tuo essere bambino era costretto a crescere troppo in fretta, ero io. Si, io. Maledizione, io.
Ma quella volta non ho saputo ascoltarti e tu ti sei convinto che ce l’avresti dovuta fare da solo, che forse Viggo, il tuo mentore, in realtà non era in grado di capirti del tutto. Che poteva interpretare le parole velate dei poeti, ma non riusciva a cogliere il senso profondo che tu custodivi dietro le tue forme apparenti.

Mi hai fissato con uno sguardo fugace, hai accennato un sorriso nervoso, mi hai lasciato lì, preda del vento che si scagliava contro la mia schiena.

Ed io, forse per paura, non ti ho chiesto più nulla, non mi sono domandato più nulla.

“Orlando…” mi trovai nuovamente a sussurrare.

E nuovamente la tua immagine, o forse illusioni sfocate della mia mente dinanzi ai miei occhi…

 

“Come sarebbe stato…?”

 

Ripresi in mano la penna, la strinsi più forte tra le labbra. La succhiai un poco. Inconsapevolmente.

Chiusi gli occhi… un rapido movimento… l’intensa eco di sospiri lontani… una danza lenta ed intermittente… una fusione carnale… languida… dolorosa ed estatica… E ancora… sudore… labbra rosee e bagnate… lingue svelte e fugaci… respiri… riposo… sussulto… riposo… tremore… buio… di nuovo… silenzio… di nuovo… realtà.

Lasciai cadere ancora una volta la penna sul tavolo e mi presi la testa fra le mani, come per respingere quello strano e inaspettato sogno ad occhi aperti.

D’improvviso i profumi intensi del mio giardino scivolarono nelle mie narici e penetrarono i miei sensi. Feci fatica a respirare, come se quegli odori fossero diventati di colpo troppo forti, inebrianti, colmi d’una scia d’esotismo estranea alle mie percezioni. Mi girò la testa, ma non smisi di pensare.

La verità, quando sopraggiunge in modo così inatteso fa male. Questo lo sapevo bene. Non sopraggiunge mai da sola. Porta sempre con se quel carico di consapevolezze capaci di spogliarti in un solo istante, facendoti inevitabilmente vacillare.
Ma di quale verità si trattasse, ancora non riuscivo a capirlo.

 

“Vedo così tante strade lasciate vuote…”

 

Dimmi allora, cosa avresti fatto se ti fosse stato concesso di decidere una strada diversa? Come avresti riempito quel percorso che ora senti mancante? E perché hai voluto confidare a me, proprio a me questo tuo pensiero che non ha smesso di tormentare la mia mente?
Smisi di pensare a lui, mi alzai di scatto dalla sedia e rientrai in casa.

Non pensai minimamente alla follia che stavo per compiere, né alle conseguenze a cui avrebbe portato… io che esaltavo l’ignoto nei miei scritti e programmavo la mia vita fin nei minimi particolari… non pensai a quanto tempo fosse passato da quel breve dialogo, e che forse lui aveva già dimenticato tutto.

Non pensai. Sollevai la cornetta del telefono.

“Mi prenoti un volo per Napoli, per favore.”

Napoli, la città in cui ora lui si trovava per la promozione del suo ultimo film. Napoli, la ridente Italia, immersa nella sua estate più florida e calda. Forse, dopotutto, era proprio questo ciò di cui avevo bisogno… calore, sorrisi, rumori festosi, terra calda e viva… l’abbandono del mio controllo.

Non appena atterrai ed uscii dall’aeroporto, seppi subito dove andare. Conoscevo il nome del suo albergo, essendo un suo collega, piuttosto conosciuto anche, non ebbi problemi a farmelo rivelare.

Tuttavia, il breve percorso che dovetti fare per raggiungere il suo hotel, in autobus e a piedi, mi trasmise qualcosa di speciale, qualcosa che non provavo da tempo.

Incontrai per prima cosa il mare. Non il mare nordico, malinconico e impregnato dai colori dell’inverno, familiare agli occhi di un danese. Il mare di Napoli era esplosivo, profondamente blu, fin nelle viscere, morbide onde, simili ad un tessuto di velluto, s’infrangevano contro gli scogli. E anch’esso, come ogni singola cosa che imparai a conoscere di quella città, di quella terra, era vivo rumore, canto che si levava alto verso il cielo, adrenalina vitale, melodia disarmante.

Percorsi le strade assolate del centro storico, destreggiandomi tra macchine impazzite e venditori ambulanti, bambini dalla pelle scura e dagli occhi immensi che seguivano “o’ straniero” per poter radunare qualche spicciolo.
Mi calai immediatamente nell’indisciplinata allegria della città, la respirai vicolo per vicolo, la percepii in ogni persona che incontravo. Fui stordito dalla confusione e allo stesso tempo, questa mi provocò il sorriso.

Infine mi fermai in un piccolo negozio di frutta all’angolo di una strada, e per pochi spiccioli, mangiai una deliziosa fetta di cocomero, succhiandone lentamente il sapore.

Pensai intensamente a lui. Pensai ad Orlando e desiderai di poter condividere con lui quegli istanti e gli sguardi della gente semplice, colmi di un’umanità alla quale si perdona ogni astuzia.

Se non fossi andato in quei luoghi con uno scopo preciso, mi sarei fermato ogni istante per immortalare con la fotografia quelle pietre antiche che trasudano silenzio e attesa, in cui il tempo sembrava aver dimenticato la sua consueta, frettolosa fuga.

Ma, come più volte ho ripetuto, il mio scopo era un altro, e più mi avvicinavo all’hotel dove Orlando alloggiava, più la sua immagine si faceva nitida dinanzi ai miei occhi, palpabile, carica d’intensità, esplosiva allo stesso modo di ogni frammento, ogni scorcio di quella città.

Raggiunsi l’hotel, e come un pellegrino reso frenetico dalla fame, iniziai a guardarmi intorno.

Il caso volle che lui fosse proprio lì, nella hall, intento a bersi un drink dal colore trasparente e circondato da qualche giornalista.

Rimasi in silenzio ad osservarlo. Sembrava vivo come non lo era mai stato. Forse quella terra aveva operato in lui la stessa magia che stava operando in me.

Lasciai scorrere il mio sguardo sul suo corpo… trasudava virilità, virilità e forza insolita. La pelle era resa scura dal sole cocente, brunita, quasi dorata, le membra apparivano toniche, senza l’ausilio di alcuna, soffocante palestra, i riccioli lunghi sembravano più scuri, quasi neri, selvaggi. Mentre gli occhi… fu quello il particolare che mi colpì di più… gli occhi parevano aver perduto la consueta malinconia, e brillavano di una luce nuova, tanto simili a quel sole che mi aveva riscaldato durante il giorno.

Lo fissai per un istante che sembrò non terminare mai, lo fissai così a lungo che forse lui si accorse del mio sguardo, uno sguardo particolare, calamitante, così diverso da quelli impersonali e morbosamente curiosi di fotografi e teleobiettivi.

Si voltò verso di me… lentamente.

Si voltò e non so perché… trattenni il fiato.

Per un attimo non pensai che quel giovane fosse Orlando, il mio amico di sempre, ma uno splendido demone dalla pelle liscia e scura, abbigliato da angelo, tanto il colore del suo corpo faceva contrasto con il leggero completo di lino bianco che indossava.

“Viggo…?” sussurrò, mentre i suoi occhi si sgranavano, pur mantenendo un’espressione di pacata neutralità.

Fu bellissimo guardare il mutamento del  suo volto, vedere che la sua mente, mano a mano riconosceva le mie fattezze. Dall’espressione neutra passò alla meraviglia, dalla meraviglia alla dolcezza, dalla dolcezza al sorriso.

Il sorriso…

“Orli…” mormorai, o almeno credetti di farlo, perché le mie labbra non si mossero.

Lui appoggiò il drink sul bancone del bar e, noncurante dei fotografi, venne verso di me. Senza dire una parola, afferrò la mia testa fra le mani e poggiò la fronte contro la mia… il nostro scherzoso saluto che eravamo soliti fare quando lavoravamo a Wellington.

Poi mi abbracciò. E in quell’abbraccio sentii il tempo cancellarsi. Nulla era cambiato.

“Viggo!” esclamò, questa volta del tutto emozionato “Come mai qui? È una splendida sorpresa!”

Sorrisi. Sorrisi per nascondergli il mio imbarazzo. Non sapevo come rispondere alla sua domanda, anche perché non avevo minimamente pensato a trovare una motivazione a quella visita.

“Avevo bisogno di una vacanza,” dissi tutto d’un fiato “e non mi andava di trascorrerla da solo! Perciò, sapendo che tu eri qui, ho pensato…”

“Ma Vig, tra due giorni parto, torno a Londra!” m’interruppe, guardandomi un po’ perplesso.

“Beh, allora vorrà dire che questa vacanza me la godrò in parte da solo, e finché sarà possibile con te!”

Un lieve rossore si dipinse sulle sue guance.

“Vig…” ridacchiò nervosamente “è solo che… questi per me sono gli ultimi giorni in Italia, ho molto da fare… sai… la conferenza stampa, le interviste, l’incontro con i fan…”

“Anche di notte?” l’interruppi quasi bruscamente “Hai qualche ora per me, stanotte?”

Non seppi neppure io come riuscii a pronunciare quelle parole, tanto che per un istante lui rimase in silenzio a guardarmi, forse meravigliato da quella richiesta.

“Vig…” rispose, ma non riuscì a proseguire. Eppure potei leggere il resto delle sue parole nei suoi occhi.

“Stasera… stasera non posso!” si affrettò poi a concludere.

Lo fissai in silenzio, quasi implorante.

“Orlando, guardami, sono io…”

Questa volta fui io a sperare che mi leggesse dentro.

“Dopo la conferenza stampa ho un party e…”

Non lo lasciai concludere.

“Nessun party, Orli! Stasera dopo la conferenza stampa ti passo a prendere e ce ne andiamo in giro per le strade di Napoli a bere vino italiano…” sorrisi “Come ai vecchi tempi!”

Questa volta sorrise. Alle mie parole vidi il suo volto illuminarsi. D’improvviso sembrò eccitato alla mia proposta.

“Come i vecchi tempi, dici…?”

“Esattamente!”

Annuì con aria complice e avvicinò le labbra al mio orecchio.

“Fanculo i party!”

 

Come avevo promesso ad Orlando, tornai a prenderlo all’hotel la sera stessa, alle otto in punto.

Una volta che fummo in strada decidemmo che per quella notte avremmo dimenticato chi eravamo, avremmo dimenticato i nostri lussi confortevoli, e scegliemmo di mescolarci alla gente comune.

Beh… in realtà fu una mia scelta, alla quale Orlando si adeguò finendo anche per divertirsi.

Cenammo in una piccola pizzeria poco distante da Piazza del Plebiscito, la maestosa piazza semicircolare nel cuore di Napoli. Trovammo piacevole essere serviti dalla gente del posto, parlare con loro senza essere riconosciuti, sentire quelle persone, sorridere dinanzi a quei modi di fare un po’ camaleontici e un po’ improvvisati, ricolmi di fantasia. Per un momento mi parve di ritrovarmi nel bel mezzo di una colossale pantomima, di cui anche noi eravamo gli occasionali attori. Comunicai questo sentimento ad Orlando e lui si mise a ridere.

“Ah, quanto mi mancavano le tue ‘sensazioni’, Vig!” disse “Quanto mi mancava questo intenso profumo di legno e di cose vecchie…”

Chiuse per un istante gli occhi, respirando profondamente gli odori che lo circondavano.

Lo trovai bellissimo in quel momento. E mi stupii di quel pensiero.

Sono ancora così vuote le strade che ti sei lasciato alle spalle, Orli? Oppure le stai colmando in qualche modo…?

Avrei voluto porgli quella domanda a bruciapelo, proprio in quell’istante, e così riprendere il discorso che avevamo lasciato incompiuto anni addietro.

Ma anche quella volta tacqui. Preferii lasciare che la serata scorresse in tutta tranquillità, preferii nuovamente non chiedermi niente, e mi dissi ancora una volta che quelle parole non potevano riguardare me.

Il tempo trascorse veloce. Lasciammo presto la pizzeria, in cui avevamo ricominciato a parlare di tutto… del nostro lavoro, delle nostre vite, una volta terminato il giro delle capitali per promuovere il Signore degli Anelli. Parlammo a lungo. Parlammo di noi, ma non completamente.

Dopo poco ci ritrovammo a passeggiare per il lungomare napoletano.
Orlando era tornato ad essere un’insaziabile fonte di parole e aneddoti, di scherzi e battute, e per un istante mi parve di non aver mai lasciato la Nuova Zelanda, di essere stato sempre al suo fianco, di essere cresciuto con lui. E forse, sebbene la distanza ci avesse diviso per più di due anni, così era stato.

D’un tratto sentii la sua mano posarsi sul mio braccio e condurmi lontano dalla strada, verso la spiaggia.

Una volta affondati i piedi sulla sabbia e ascoltato per un breve secondo la melodia del mare, le sue parole si arrestarono, i suoi racconti s’interruppero. Orlando si ammutolì e divenne improvvisamente pensieroso, come se qualcosa fosse affiorato dal suo cuore e gli avesse impedito di continuare a parlare con inconsapevole allegria.

Il mare stava dinanzi a noi, imponente, guardingo e curioso verso questi due inusuali stranieri, alieni alla sua storia e alle sue tradizioni.

Restammo al suo cospetto in reverenziale silenzio. Potevamo sentire le sue piccole onde e i suoi flutti trasparenti infrangersi con dolcezza contro i nostri piedi. Orlando pareva essere in contemplazione dinanzi a quella distesa scura, eppure percepivo distintamente che i suoi occhi non vedevano nulla.

Forse era davvero giunto il momento. Forse dovevo farmi coraggio e rivelargli il perché della mia visita, sebbene, a distanza di due anni, potesse risultare una cosa assurda.

Vorrei poterti dare una risposta, Orli…

Ma prima ancora che questa arrivasse, fui interrotto inaspettatamente dalle sue parole.

“Sai, Vig? Spesso, ci ho pensato… ho pensato a come sarebbe stato se, fra di noi, le cose fossero andate in modo diverso…”

Mi voltai sbalordito verso di lui. Lo fissai per un istante, in silenzio, come per assicurarmi che quella voce non fosse ancora uno scherzo della mia mente. Ma i suoi occhi erano fissi sui miei, non uno sguardo scherzoso, né impersonale… erano gli stessi occhi di quel giorno, indifesi, spiazzati, enigmatici…

“Orli…” sussurrai, senza rendermi conto di quanta dolcezza avessi messo nel pronunciare il suo nome “Orli…” ripresi “questa… questa domanda me l’hai già fatta…”

“Davvero?” commentò, senza il minimo tono di stupore nella voce. Sorrise lievemente. “Chissà…!” disse, guardandomi con una profondità che mi fece tremare.

Si allontanò da me.

“No aspetta!” lo bloccai, trattenendolo per un braccio “Forse mi sbaglio, ma ricordo queste parole, ricordo che… forse… forse potremmo parlarne, Orlando!”
Si voltò guardandomi interrogativo, lievemente stizzito dalla mia ulteriore confusione, da una risposta che ancora una volta non aveva né capo né coda, che era una fuga, una fuga per tapparmi le orecchie e chiudere gli occhi dinanzi a un suo grido, ad un’esigenza profonda che evidentemente non volevo conoscere.

“Potremmo, Vig, ma adesso andiamo!”

Lo trattenni ancora.

“Perché?”

“Perché?” mi fece eco, quasi con aria di scherno. Sospirò e sorrise nuovamente “Perché troppo a lungo, il silenzio mi da fastidio!”

Si liberò dalla mia presa e risalì verso la strada.

Io mi limitai a seguirlo, con gli occhi fissi su quell’abito bianco che pareva riflettere i raggi della luna. Maledissi ancora una volta me stesso.

Non toccammo più il discorso per tutto il resto della serata. Riprendemmo con gli scherzi, le battute, i racconti effimeri e di poca importanza.

Riuscimmo a tranquillizzarci nuovamente.

Riuscimmo a sentirci ancora.

Lasciammo il mare e tornammo verso il centro della città, verso il suo cuore pulsante, vibrante di vita in ogni suo angolo, sensuale fino a star male, così come erano sensuali e profondamente maschili gli uomini che incontrammo e le loro donne, belle, femminili, travolte da qualcosa di selvaggio.

Ciò che sto descrivendo potrebbe rassomigliare più a un vecchio film del neorealismo italiano, che alla Napoli città moderna. Eppure, accanto ai suoi negozi, fast food, macchine sfreccianti, caratteristiche comuni della maggior parte delle città del mondo ormai, io percepivo qualcosa di estremamente profondo, sotterraneo, immutato nel tempo, talmente distante dal mio modo di essere, uomo del Nord, capace di intimorirmi ed affascinarmi al tempo stesso. Fu una percezione così forte, così intimamente legata alla terra, che probabilmente da solo non sarei mai riuscito a provare. Una sensualità perniciosa, una voglia di contatto continua brulicava nelle mie vene, così come s’insinuava nel sangue e nel cuore di Orlando, anch’egli completamente rapito da ciò che vedevamo. Forse non ci bastava più vedere soltanto, forse non eravamo più paghi della semplice osservazione, forse eravamo diventati improvvisamente ansiosi di vivere ciò che ci circondava, fin nelle viscere, fino in fondo, sprofondare nel calore rovente della terra di quella città, e riemergere, mescolati alla lava bruciante e distruttiva del Vesuvio, il suo vulcano, padre e assassino di quei luoghi.

“Guarda Vig!” esclamò d’un tratto Orlando, distraendomi dai miei pensieri.

Alzai la testa e vidi un piccolo vicolo in salita, caratterizzato da mura bianche e finestre minute, dalle quali oscillavano una miriade di panni stesi, colpendo l’occhio con una festa di innumerevoli colori.
La luce fioca di un lampione giallastro rendeva infine il tutto ancora più suggestivo: un tepore domestico ridipinto dalle fattezze di una dignitosa miseria. A quel pensiero provai un tuffo al cuore, e m’innamorai ancor di più di quella città.

Afferrai la macchina fotografica e scattai una foto. Poi la riposi con rammarico nella borsa a tracolla.

“So bene che una fotografia non può bastare!” dissi, facendo per andarmene, un po’ amareggiato.

Ma Orlando mi fermò.

“Viggo, dove vai?”

“Perché?”

Non rispose. Il tono della sua voce era trasognato. Il suo volto era trasognato. Fissava un punto indistinto dinanzi a lui. Alzai nuovamente gli occhi e vidi cosa stava guardando. Uno striscione, un semplice striscione bianco con su una scritta, appeso nel bel mezzo del vicolo.

“Allora?” dissi, non riuscendo a capire tutto quell’interesse da parte sua.

“Viggo facciamolo!”

Spalancai gli occhi.

“Facciamo cosa?”

Mi prese per un braccio, avvicinandomi a lui.

“Vedi, vedi quella scritta lassù?”
Annuii.

“È in italiano. Credo… credo che là… affittino camere!” disse, sbrigandosi a terminare la frase.

Mi voltai verso di lui, ma non riuscii a parlare.

“Ti prego, Viggo… solo con te posso fare una cosa del genere!” gridò come un bambino che doveva assolutamente ottenere qualcosa “Ti prego… non riportarmi laggiù… non riportarmi al mio hotel cinque stelle… ai miei costosi pranzi e drink con ghiaccio…” i suoi occhi s’illuminarono “Affittiamo una stanza! Paghiamola due soldi! Mescoliamoci ancora una volta alla gente comune, e… e domattina ascoltiamo le saracinesche dei mercati e dei negozi aprirsi, ascoltiamo le grida dei venditori ambulanti in una lingua straniera, restiamo… ti prego… restiamo insieme tutta la notte!”

Lo fissai ammutolito. Il cuore mi batteva all’impazzata.

Non sapevo il perché. Forse era stupore. Forse era paura. Forse era l’ignoto che a grandi passi si avvicinava a me.

Non avevo mai visto Orlando in quello stato, colto da un bisogno impellente che sembrava non ammettere repliche.

“Vig, me lo devi!”

Te lo devo?

Lo fissai.

“Ho bisogno di fare nuove scelte. Almeno per una notte… ho bisogno di dirigere la mia vita in modo diverso!”

 

“Diverso… come…?”

 

Annuii. Sorrisi.

“D’accordo, Orlando. Andiamo!”

Non si aspettava quella risposta. E per la seconda volta durante quella giornata, mi fece ancora quel dono che amavo tanto: come un bambino, al quale viene concessa la cosa tanto desiderata, vidi i suoi occhi spalancarsi lentamente e tingersi d’incredulità, un’incredulità piena di gioia e di bellezza.

“Andiamo, sempre che a quest’ora non ci tirino una fucilata!” dissi scherzando.

Ma Orlando non avevo più tempo per la mia ironia. Era troppo eccitato, frenetico ed impaziente per potersene accorgere. Ora, l’ironia non serviva più.

Adorai quell’istante. Adorai vederlo così. Lo adorai in tutto, profondamente.

Suonammo ad un campanello, ridacchiando nervosamente. Dopo poco un’anziana signora assonnata venne ad aprirci. Prima di pronunciare una sola parola, ci scrutò dalla testa ai piedi, non facendo molto per mascherare il suo disappunto.

Potevamo capirla, poveretta! Erano le due del mattino!
Ci chiese nel suo dialetto che cosa volevamo a quell’ora della notte, ed io, nel mio italiano un po’ grossolano le inventai la storia del nostro arrivo a Napoli, della nostra disperata ricerca di una stanza, del fatto che nessuno voleva aprirci e ci mandavano di porta in porta.

“Nessuno vi ha aperto?” domandò “Neppure Pasquale?” disse con aria stupita.

Guardai Orlando.

“No signora, neppure Pasquale!”

La donna sembrò davvero meravigliata della situazione, evidentemente questo Pasquale doveva essere una persona importante, e se neppure lui ci aveva aperto la porta, la signora risolse che forse eravamo davvero due disperati. Quindi ci aprì del tutto l’uscio e borbottando ci fece entrare. Ci mostrò la camera, ci disse qualcosa di cui noi non capimmo una sola parola, e infine se ne andò, verso la sua stanza a recuperare il sonno perduto.

Una volta chiusa la porta, io e Orlando scoppiammo in una risata, che facemmo fatica a soffocare per non farci sentire da lei. Ridemmo a lungo, finché lentamente la nostra risata si spense e i nostri occhi iniziarono ad indagare intorno a noi. La stanza era semivuota, con l’essenziale per un sonno di passaggio, ma ciò che catturò l’attenzione di entrambi fu il grande letto bianco proprio dinanzi a noi.

Potevo sentire il respiro di Orlando, percepirlo distintamente nella semioscurità che ci avvolgeva, nel silenzio che era sceso sui nostri corpi.

“Vig…” mormorò d’un tratto.
Aveva pronunciato il mio nome in modo strano, quasi fosse una richiesta d’aiuto.

“Che c’è, Orli? Vuoi che torniamo all’hotel…?” sussurrai dolcemente.

“No, non è questo, Vig…” rispose a fatica, come se il suo respiro gl’impedisse di proseguire “È che… qui… fa un dannatissimo caldo!”

Si sfilò la maglietta.

Non potei che seguirlo.

“Hai ragione. Si muore!” dissi, senza staccare gli occhi da lui. Potevo percepire lo scorrere del sangue, bollente nelle mie vene, il sudore sulla mia pelle…

Ci guardammo. Impossibilitati a mantenere ancora una distanza. Le tempie mi pulsavano. Ci guardammo ansimanti.

Mi diressi verso di lui e lui si diresse verso di me.

In una frazione di secondo finimmo l’uno tra le braccia dell’altro, stretti, immobilizzati dalla rispettiva forza, le nostre bocche premute l’una sull’altra, labbra avide e calde, impazienti di conoscere il reciproco sapore. M’insinuai a fondo in lui, esplorando ogni angolo della sua bocca, succhiandolo, leccandolo, scontrandomi ancora con la sua lingua, carezzandola dolcemente con la mia. Ci scambiammo sudore e passione, il profumo della nostra pelle resa salata dal vento marino, c’infuocammo, bruciammo insieme, scivolammo l’uno nell’altro, mai paghi, disperatamente ansiosi di avere qualcosa di più, di avere tutto.

Ci succhiammo senza ritegno, viziosi forse, o forse no, perché in quell’istante eravamo fusi interamente con quella nuova terra, una terra che, a differenza della nostra, non conosceva le abilità dei giochi sottili, non amava il vizio cieco e meccanico, ma viveva di passione, la viveva sul momento, bruciando di un fuoco alto, delizioso e soffocante.

Tenendolo stretto a me, lo spinsi sul letto. Cademmo entrambi. La fragile testiera di legno tremò un poco, la rete sotto al materasso cigolò spaventosamente, alcuni piccoli pezzi d’intonaco si staccarono dalla parete e caddero sulla mia schiena.

Con le mani tremanti, gli sfilai il laccio che teneva chiusi i suoi pantaloni di lino… Dio, se volevo sentirlo… la sua pelle calda e nuda contro il palmo della mia mano, sebbene con le dita avessi già sfiorato la sua eccitazione, deliziosamente dura e tesa sotto la stoffa.

Fu questo a rendermi pazzo.

Gli sfiorai il ventre con il dorso della mano, poi cercai di lasciar scivolare le mie dita verso il suo punto più caldo. Ma lui mi fermò.

“No, Vig, aspetta…”
Lo baciai.

“Ti prego… anch’io lo voglio… e non sai quanto… ma… con calma… si, con calma…” mormorò, dischiudendo nuovamente le labbra alla mia lingua “Non… roviniamo tutto… non in fretta… non stanotte…”

Ci baciammo ancora, Dio… come poteva essere morbida la sua bocca e caldo il suo sapore. Ero completamente ebbro di desiderio, drogato dal suo corpo, dalla sua voce, dai suoi occhi.

“Voglio unirmi a te… voglio unirmi a te…” ansimò, abbandonandosi completamente contro di me.

Per un breve momento mi staccai da lui. Dovevo guardarlo. Dovevo. Era stupendo. Aveva lo sguardo colmo di qualcosa che non seppi mai decifrare, qualcosa così simile alla bellezza di una donna nell’istante del concepimento. Ma lui no, lui non era una donna, era il mio amico di sempre, il mio collega, un mio simile. Era la risposta a ciò che avevo cercato per così tanto tempo, la risposta a tutto il mio tormento, ai miei dubbi, alle mie paure.

“Come sarebbe stato se, fra di noi, le cose fossero andate in modo diverso…?”

Lo guardai sorridendo e pensai:

Sarebbe stato così!

Mi spostai al suo fianco, e mentre lentamente, ricominciavo a recuperare un poco della mia lucidità, iniziai a carezzargli il petto, trasmettendogli più che potevo quella dolcezza e quella serenità che stava cercando.

“Si, Orli, sarebbe stato così…” dissi, questa volta ad alta voce.

Lui voltò di lato la testa per guardarmi.

“Così… cosa?”

“La tua domanda… la tua domanda di alcuni anni fa e la stessa che mi hai posto stasera sulla spiaggia… come sarebbe stato se…”

“Non ripeterlo…” m’interruppe dolcemente “Lo so…” richiuse gli occhi, e si abbandonò di nuovo sotto il mio tocco “Volevo… volevo soltanto sentirmelo dire…”

“Piccolo…”

Sospirò profondamente.

“Continua a toccarmi, Vig!”

Quelle parole mi provocarono un brivido lungo la schiena, fui attraversato da una nuova scarica di adrenalina, ma allo stesso tempo, provai un profondo senso di calma, come se in quell’istante avessi trovato la risposta perfetta, la perfetta armonia del tutto.

Continuai a carezzare il petto glabro ed umido di Orlando con lenta dedizione, l’ascoltai, non mi lasciai sfuggire nulla di lui… né un sospiro, né un gemito, né un sorriso di soddisfazione ed appagamento. I miei occhi, intorpiditi dal desiderio, dalla stanchezza e dal caldo di quella notte italiana, vagavano languidamente su quel corpo, completamente paghi di quella visione, come se fosse tutto ciò di cui avessi mai avuto bisogno.

D’un tratto, intravidi l’opera che avevo lasciato incompiuta pochi istanti prima… i suoi pantaloni slacciati all’altezza del ventre. Dio… un gioco di luce ed ombra sulla sua pelle, lievemente  offuscata da una leggera patina di sudore, mi fece nuovamente perdere la ragione.

Mi parve d’intravedere, o forse fu soltanto l’illusione dei miei occhi, lo scintillio dei suoi peli pubici alla luce del lampione, proprio fuori la nostra finestra.

Non resistetti più.

Feci scivolare la mano fino a quel punto, sentii il mio giovane amico tremare, decisi di non indugiare oltre, e lasciai che le mie dita oltrepassassero la stoffa bianca.

Fu ancor più inebriante di quello che mi ero immaginato… il suo calore contro la mia mano.

Oh, se era duro. Splendidamente duro e pulsante. Il mio Orlando… completamente perduto nella sua vigorosa fragilità maschile.

Fu una sensazione incredibile… calore contro calore. Chiusi gli occhi, e la mia eccitazione rispose prontamente, quando sentii che la sua si era tesa ancor di più nel mio pugno.

Orlando gemette. Debolmente. Come se ormai fosse privo di energia, tutta concentrata nel suo sesso rigido e impaziente. Sfiorai con il pollice la sua punta, percependone l’adorabile, lieve venatura, percependo l’umido filo di nettare vischioso che Orlando aveva già rilasciato.

Decisi di eccitarlo un po’, anche perché eccitando lui, eccitavo me stesso.

Non avrei mai immaginato che mi sarebbe piaciuto a tal punto con un altro uomo.

Mossi leggermente la mano su di lui, mentre la stoffa dei suoi pantaloni nascondeva accuratamente i miei movimenti, cosa che rendeva ancor più intrigante la situazione, l’atto stesso.

Lo sentii spingersi più volte nel mio pugno, dimenarsi, gemere, affondare le unghie nel morbido materasso, che presto si sarebbe macchiato della nostra presenza.

Aumentai un poco la velocità, e vidi un sorriso soddisfatto sulle sue labbra, ma non volli appagare il suo desiderio, non subito, quindi… lo lasciai andare.

“Non così, piccolo…” sussurrai, incurante del gemito che aveva emesso come protesta “Non voglio giocare con te, voglio fare l’amore…”

Impedii ogni sua altra opposizione, non lo lasciai parlare, lo baciai intensamente. E senza concedergli un ulteriore attimo, gli sfilai del tutto i pantaloni, gettandoli a terra.

Osservai il suo corpo.

Le sue membra, così perfettamente disegnate, risaltavano ancor di più nella stanza spoglia e vuota, illuminata appena, conferendogli una luce decadente.

Dorian Gray…” pensai, guardandolo, mentre iniziavo a spogliarmi anch’io “potessi trovare un modo affinché la tua bellezza in questo momento si conservi per sempre…

Ormai nudo, mi posizionai su di lui, che mi guardava, in attesa, aggrappato ad ogni mio singolo gesto. Attesi un poco, ma come mi chinai per baciarlo, la follia che poco prima mi aveva colto, riprese possesso di me. Sentii nuovamente il mio controllo venire meno. Ne fui felice.

Iniziai a leccarlo dolcemente, succhiandogli, di volta in volta, piccoli frammenti di pelle, scoprendo i suoi punti più sensibili. Gli provocai brividi continui. Mi trasmise calore. Sentii ancora il nostro calore, il nostro calore unirsi.

Fui colto dall’ardore di assaggiarlo tutto.

Decisi di essere audace. Con un gesto fulmineo, fui con il mio viso tra le sue gambe.

Si tese, colto di sorpresa, ma non appena sentì la mia lingua percorrere l’interno delle sue cosce, per poi raggiungere l’inguine ed infine il suo sesso, lanciò un grido, e ricadde sul materasso, perdendosi in un’onda violenta di sussulti e gemiti.

Risalii con le mie labbra lungo tutto il suo petto, mordicchiai i suoi capezzoli fino a renderli rossi e lievemente gonfi, come piccoli acini d’uva ricchi di succo. Giocai nuovamente con il suo collo, sottolineando la sua gola con la punta della mia lingua.

Ripetei molte e molte volte questo percorso, insaziabile, e, ad ogni mio passaggio, lo sentii inarcarsi violentemente all’indietro, ricadere giù, per poi sollevarsi di nuovo e cercare un contatto più profondo.

Finché d’un tratto, mentre mi accingevo a scendere nuovamente verso il suo sesso, mi bloccò i fianchi con le ginocchia, ed incrociò le gambe dietro alla mia schiena. Lentamente… lentamente con i talloni spinse il mio bacino verso il basso, finché la mia eccitazione, giunta ormai al limite, non incontrò, non sfiorò il calore devastante dell’ingresso al suo corpo.

Spalancai gli occhi.

Era davvero questo ciò che voleva?
Non osai chiederglielo. Forse per l’egoistica paura che quello non fosse il suo reale desiderio e mi sentissi rifiutare. Non avrei potuto sopportarlo, perché anch’io… anch’io lo volevo… tremendamente.

Lui non parlò. Si spinse soltanto ancor più contro di me. Compresi quanto impellente fosse il suo bisogno. Bisogno di essere scopato. Bisogno di essere amato. Il bisogno di qualcuno che ha dimenticato il sapore e la splendida rudezza della vita di tutti i giorni.

Lo strinsi forte a me. Tutto. Gli avrei dato tutto ciò che desiderava, tutto ciò che mi avrebbe chiesto. Mi assicurai che il suo sesso fosse ben premuto tra i nostri due corpi, affinché mentre io godevo di lui, lui potesse godere di se stesso. Lo strinsi ancora, per proteggerlo, per non lasciarlo andare, per rubargli tutta la sua fragilità.

Finché, vincendo la mia paura, iniziai a penetrare lentamente in lui.

Inizialmente si tese, si tese talmente tanto che ebbi quasi paura che mi respingesse, poi, piano piano, iniziò a calmarsi, a sentire nuovamente i miei baci che non lo avevano mai abbandonato, le mie labbra che raccoglievano qualche sua lacrima.

Scivolai più a fondo in lui.
Mi sembrò d’impazzire e poi morire, quando, d’improvviso, il suo corpo si tramutò in morbido ed accogliente velluto dalle pareti strette e roventi.

Affondai in quel velluto, fui risucchiato da quella carne, una volta, due volte, tre, dieci, cento, mille. E lui mi accolse, stringendomi e lasciandomi andare, rendendo folle quella danza in cui mi perdevo attimo dopo attimo di quell’amplesso.

Lo scopai, lo amai, assecondai ogni sua richiesta. Ci perdemmo in un’estasi carnale cercata da troppo tempo per essere arrestata in qualche modo.

Feci l’amore con lui per tutta la notte, ma fu la prima volta ad essere davvero speciale.

Quando lo sentii ormai prossimo al limite, mi avvicinai maliziosamente al suo orecchio e gli sussurrai senza ritegno:

“Voglio che tu venga su di me, mentre io vengo dentro di te!”

Il suo sesso, a quello parole, sembrò diventare ancora più rovente, lo sentii inturgidirsi e pulsare con forza intrappolato tra i nostri corpi. Ormai incapace di pensare, tanto era bella quella sensazione, chinai, vinto, la testa nell’incavo del suo collo, mi serrai contro di lui e cedetti alla violenza delle mie ultime spinte. Gli strappai lamenti e deboli grida, gli strappai dolore. E ormai entrambi sul confine del piacere assoluto, gli rubai quella verginità tenuta nascosta e celata. E quella verginità perduta lo fece urlare. Esplosi in lui. Lui, esplose su di me. Lo sentii. Mi sentii.
Il nostro nettare caldo e i profumi del sesso ci avvilupparono completamente.

Ora, eravamo un tutt’uno con la profonda sensualità di quella città, con quella follia che ci aveva travolti.

Ne fummo felici.

Restammo così a lungo, abbracciati a riposare. Poi riprendemmo a fare l’amore, finché, esausti, il sonno non ci colse e ci perdemmo in esso, lontani da ogni vecchia paura, in cui il dubbio era solo pallido ricordo.

Quando giunse il mattino, io ero già sveglio. La luce del sole si era sostituita a quella dei lampioni, e brillava potente contro la finestra e dentro la nostra stanza.

Rimasi a guardare Orlando riposare tra le mie braccia. Giocai un poco con i suoi riccioli sparsi sul mio petto, gli carezzai la fronte e le guance, cancellando con le dita ogni tensione, ogni piccolo brutto sogno che potesse turbarlo.

Sperai che non si svegliasse ancora. Perché del risveglio avevo paura.

Paura che qualcosa si spezzasse, paura di nuove parole e vecchi discorsi.

“Vig…” sussurrò dopo poco.

“Dormi piccolo…” mormorai, chiudendo gli occhi.

“No, non voglio più dormire…”

Sospirai.

“Voglio guardarti…”

Abbassai gli occhi su di lui ed incontrai il suo sorriso, la sua espressione serena.

In quel momento, un rumore proveniente dalla strada, ci distrasse dai nostri pensieri.

Sorrisi.

“Lo senti? Stanno aprendo i negozi proprio ora! Stanno alzando le saracinesche proprio come volevi tu!”

Si strinse più forte a me.

“Si…” ridacchiò “A Los Angeles non si vedono spesso queste cose…”

“Non…” m’interruppi. Le urla di alcuni venditori mi fecero sorridere “ci sono tanti rumori…”

“C’ è troppa solitudine!” soggiunse lui

“Troppo silenzio…”

“Poca verità.”

L’abbracciai.

Dio com’era diventato Orlando, il mio Orlando… bello e profondo, con un’anima ancora sensibile dinanzi alla semplicità delle cose.

L’adoravo. L’adoravo tanto.

“Dimmi delle strade, Orli…” dissi d’un tratto, dopo una breve pausa.

Lui rialzò il volto interrogativo e un po’ assonnato.

“Si, le strade… le tue scelte. Una volta mi hai detto che quando ti guardavi indietro…”

“Vedevo tante strade lasciate vuote… si, infatti…” s’interruppe “E ricordo anche che erano infinite e piene di luce…” mi guardò profondamente “Rassicuranti…”

Annuii. Ero in pace con me stesso.

“Vedi, mi era impossibile dirti una cosa del genere… speravo che così, dicendotela in modo velato, avresti comunque capito, perché tu, insomma tu sei…”

“Il tuo mentore?”

“Si, esatto…” mi carezzò con dolcezza il petto “Però ora so anche che non sei un dio, che non puoi capire tutto, che sei esattamente come me e forse… era proprio questo che dovevo scoprire per… per colmare quei percorsi, per dirti tutta la verità!”

“E io avevo bisogno di questo, per accettarla!”

Finalmente i miei dubbi scomparvero, del tutto. Mentre lo tenevo tra le braccia, illuminati da un nuovo mattino, compresi che quelle parole, così a lungo rifiutate, erano proprio la cosa che stavo cercando, l’unica cosa che mi avrebbe reso completo.

Ed ora, ne avevo la consapevolezza.

Avevo la consapevolezza che se le cose fra di noi fossero andate in modo diverso, sarebbero state senz’altro così.

 

… … …

 

“Senz’altro così…”

 

“Senz’altro…”

 

“Ehy, Vig… le percorriamo insieme queste strade…?”

 

“La luce…”

 

“Insieme…”

 

“Senz’altro…”

 

 

Un giovane dai capelli ricci e scuri, tanto simili alla notte, se ne stava seduto dinanzi alla scrivania della sua stanza d’albergo, gli occhi fissi nel vuoto, l’aria sognante, un semisorriso sulle labbra, il corpo in tumulto.

L’ennesimo drink incolore era appoggiato su un lato del tavolo. Quella mattina non ne aveva bevuto neppure una goccia. Era troppo intento a guardare il meraviglioso mare di Napoli e a lasciare i suoi sogni liberi, liberi di essere.

“Orlando, nessun rimpianto…” si disse dolcemente a se stesso.

Ma egli non era padrone della sua mente, e la sua mente continuava a viaggiare per lui, assecondando i suoi più intimi desideri.

“Perché… perché deve essere solo un sogno…” sospirò, troppo immerso nel suo splendido film mentale per essere triste “Perché è destinato a restare tale…?”

Presto avrebbe avuto la conferenza stampa, poi il party di chiusura, dove avrebbe incontrato qualche fan, e infine avrebbe preso il volo per Londra, come deciso dagli altri, come stabilito.

Non avrebbe visto nessun vicolo suggestivo, non avrebbe cenato in nessuna pizzeria, non avrebbe sentito parole che voleva disperatamente sentire, non avrebbe avuto Viggo, né fatto l’amore con lui per tutta la notte.

Viggo poteva averlo, nei suoi sogni, nei suoi film, poteva farlo parlare come meglio desiderava, in prima persona o in terza, poteva renderlo confidente o caldo amante, ma ogni volta il risveglio era lo stesso… amarezza e vita programmata… assenza.

Viggo era destinato a restare un sogno, una splendida confortante immagine quando voleva rifugiarsi lontano dal mondo.

Ma ora si trovava in America, mentre lui era nella “ridente Italia”, come l’aveva chiamata Viggo nella sua immaginazione.

Osservò un ultima volta il mare, alzandosi stancamente dalla sedia.

“Non il mare nordico, malinconico e impregnato dai colori dell’inverno…” sussurrò fissando la distesa azzurra “Le strade son destinate a restare vuote, allora…?”

Attese una risposta nell’aria.

Nulla.

“Nessun rimpianto, Orlando…” mormorò, avviandosi verso la porta “Ti amo, Vig…” confessò infine a quell’anonima stanza d’albergo, come aveva sempre fatto con altre stanze di altri hotel da quando aveva iniziato a girare il mondo.

L’immagine di Viggo quella volta non voleva proprio andarsene, evidentemente l’aveva reso troppo presente, l’aveva fatto vivere troppo nella sua fantasia. Era ancora più difficile staccarsene ora.

Aprì l’uscio.

“Cristo, se sei presente!” esclamò, respirando profondamente.

Fece per uscire. In quell’istante squillò il telefono.

“Come se fossi qui…” continuò, avviandosi verso la cornetta.

“Pronto”

“Signor Bloom…”

“Si, ora scendo per la conferenza.”

“Ci sono visite per lei…”

 

Strade infinite

 

“Un suo amico…”

 

Sempre assolate

 

“Dice di chiamarsi… Aragorn!”

 

E rassicuranti.

 

… … …

 

“Orli, non tutti i sogni son fatti per restare tali…”

FINE