.|. Schegge di Follia - take 2 .|.
11.
Ritorno al Passato ~
First we touch, and we hurt each other
Then we tear our hearts apart
We
are too close and I can feel the pain
Fill my empty heart
Is
this pain too much for me
Can I stay the same
When this pain consumes my heart
Will I be able to hold on to my soul
Kindness is something I don't want or need
The sunshine would just dissolve me into light
Give me a pain as pleasing as your sigh
So
I can feel you all the day and night
And keep me from fading away
- From Xenosaga – “Pain”
Fare-thee-weel, thou first and fairest!
Ae
fareweel! Alas, for ever.
"Oh, Dio... Io ti amo
ancora... E' questo il vero tormento...”
- Anne Rice -
"Intervista col Vampiro" (movie)
****NOTA: QUESTO
MOVIMENTO E’ DAVVERO MOLTO, MOLTO DARK. HA SCIOCCATO PERSINO ME CHE L’HO
SCRITTO, E NON POCO. QUINDI PREGO COLORO CHE NON HANNO UNO STOMACO –O UN
AMORE PER IL GOTHIC HORROR- PIU’ CHE FORTE, DI NON LEGGERLO. POTETE
MANDARMI UNA MAIL SE VOLETE UN RIASSUNTO DAI TONI MENO CUI, MA VI PREGO
DI NON LEGGERE SE NON VE LA SENTITE E POI MANDARMI UNA FLAME.****
****Mi scuso fin
d’ora per l’espediente, tipico degli anime di natura fantasy, della
“barriera”. Purtroppo mi serviva… -_-;; ****
Era una radura notturna
cinta da alberi e al tempo stesso un deserto. Intorno a lui solo l’erba,
ovunque, senza limiti. Fili acuminati e contorti di scuro vetro
luccicante che soffiavano al vento come le canne di un organo, creando
una litania simile al mugghiare incessante di animali agonizzanti.
Eppure, alzando gli occhi al cielo brulicante di stelle come piccoli
occhi famelici, poteva vedere le fronde di alberi neri protendersi da
ogni dove verso il centro, dove lui stava, immobile.
Lungo tutto l’orizzonte
una luce rossastra fremeva e spiraleggiava, invadendo il cielo come
sangue che si allarga in una polla d’acqua, pur senza avanzare mai di un
millimetro. E le voci, si c’erano delle voci che lo chiamavano dal nulla
che lo circondava, dalle fronde scheletriche, dall’erba di vetro,
dall’aria, dall’ombra.
Poi capì.
Campanelli. Non delle
voci fantasma, bensì un tintinnare di campanelli. Si avvicinava alle sue
spalle e, voltandosi, Aragorn vide di lontano una piccola processione
che avanzava, accompagnata dall’occhieggiare tremolante di piccole
candele. Le figure distorte, come viste attraverso sette veli d’acqua,
s’avvicinavano senza rumore, se non per il tintinnare ritmato dei
campanelli; si muovevano languidi, eppure si avvicinavano in fretta,
sfumando e riapparendo a tratti sulla via.
Quando finalmente furono
abbastanza vicini da vederli, Aragorn notò che in testa alla processione
c’era un bambino vestito a lutto. Le sue braccine rotondette erano
nascoste in pieghe voluminose di seta lucida, e sul volto minuto era
abbassata una velina nera. Sul suo piccolo petto, tra i lembi della
camicia di pizzo nero, l’Evenstar sfavillava come un fuoco fatuo.
Quando il piccolo alzò
la testa, Aragorn si ritrovò a guardare in faccia sé stesso; un se
stesso bambino che però guardava il Mondo con gli occhi luminosi e
tristi di Legolas.
Dietro il bambino veniva
un vecchio dalla barba lunga fino alle caviglie, che teneva in ciascuna
mano un campanellino d’argento; ed una donna fatta solo di luce e
nebbia, attorno a cui roteavano mille lucine sfavillanti.
Il bambino giunse
dinanzi ad Aragorn e si fermò senza vederlo. Una delle sue manine
avvolte di seta si alzò, e staccandosi l’Evenstar dal collo il piccolo
la gettò nell’erba. Gli steli luccicanti si ruppero, frantumandosi, ed
una fiamma bianca si levò fino a lambire le stelle, gridando con la voce
di mille anime dannate.
Il bambino pianse una
sola lacrima. Sospirò. Poi, con la dignità di un Re continuò a
camminare, seguito dal Vecchio dei Campanelli e dalla Dama Luminosa.
Cantava sommessamente la canzone di Turlos, la canzone dell’amante
piangente, del bambino innamorato.
La piccola processione
scomparve alla vista, vibrando come un miraggio. Aragorn alzò gli occhi
al cielo, e vide che sopra la fiamma bianca, trattenuto nella posizione
di un Uomo crocifisso dai rami che sembravano serpenti, stava una
figura, col mento abbandonato contro il petto, i lunghi capelli disposti
come un sudario dinanzi al volto. Le fiamme lo lambivano, si
attorcigliavano attorno ai piedi martoriati e poi salirono, sfiorandogli
i fianchi segnati da morsi sanguinolenti, le braccia levigate e lucide,
le mani grondanti. Solo quando anche la sua chioma s’incendiò quella
figura si mosse. Alzò il volto, aureolato di fiamme bianche e guardando
Aragorn negli occhi disse, come l’ansimare di un’amante:
“Sei stato tu.”
Poi Turlos gettò la
testa indietro, e le fiamme lo divorarono.
Aragorn si risvegliò
tirandosi di scatto a sedere accanto alle braci spente del fuoco. Poteva
sentire il sudore colargli a rivoli sulla schiena, ed i peli alla base
del collo rizzarsi a contatto con l’aria nevosa. Un urlo di orrore gli
si era conficcato in gola come una spina. Ansimò a bocca aperta, come se
stesse bevendo l’aria invece che respirarla, e si nascose il viso tra le
mani.
“Aragorn? Tutto bene,
ragazzo?” Una risatina tremula gli sfuggì dalle labbra.
“Bene. Certo. Era solo
un brutto sogno.” E non aveva bisogno di ricordarsi dell’ultima volta
che aveva fatto un sogno così realistico - un sogno che lui aveva
chiamato Olórë; un sogno che aveva eletto a centro della
sua vita, e che era stato la sua unica guida nel ricomporre la sua
sanità frantumata.
“Un brutto sogno,”
ripeté. Alzò lo sguardo ed incontrò i bulbi squamosi e arsi che un tempo
erano stati gli occhi di Gimli. “Davvero.”
Il Nano rimase immobile
per qualche secondo ancora, quindi bofonchiò una risposta sotto i baffi
e gli diede nuovamente le spalle. Tese l’orecchio a qualche suono
impercettibile nella foresta, accigliato. Aragorn non poté trattenere un
sospiro di sollievo.
Si passò una mano tra i
capelli madidi. Inspirò a fondo. Una volta. Due. Quando fu sicuro che le
sue ginocchia l’avrebbero retto, si alzò e raggiunse Gimli al bordo del
loro piccolo accampamento. Si guardò intorno.
Attorno a loro,
l’intrico esecrato di Lothlórien si stendeva fin dove l’occhio poteva
guardare, putrido e maleodorante. L’umidità si alzava dall’erba marcita
e le macchie di muschio in forma di vapori ammorbanti, che le fantasie
assurde di Aragorn scambiavano per creature di fumo che urlavano di
disperazione dagli anfratti e dalle ombre, contorcendosi come fiammelle.
Nella luce debole e incerta dell’aurora, ogni albero, ogni masso e
persino ogni filo d’erba sembrava il riflesso tremulo impresso
nell’acqua stagnante dalla sua controparte rigogliosa e forte nascosta
da qualche parte su, in alto, nel chiarore del cielo.
Aragorn inspirò a bocca
aperta, in cerca del profumo di fiori rugiadosi che un tempo gli era
familiare. Trovò solo un fetore nauseante ed un gelo che gli fecero
lacrimare gli occhi, ma non si era aspettato altro. Si sistemò il
mantello sulle spalle intirizzite, ma anch’esso era pesante d’umidità e
freddo.
“Mi dispiace che tua sia
dovuto venire in superficie,” disse poi in tono sincero. “Ora potresti
essere in città, al caldo, a goderti birra di mele e carne arrosto.”
Gimli sembrò
risvegliarsi dal suo silenzioso raccoglimento. Proruppe in una risata,
un gorgogliare tenorile che gli sconquassò il petto.
“Dì piuttosto che
avresti preferito goderti questo tempo da solo con Turlos!” Scosse la
testa, come se potesse vedere il rossore che si era allargato sulle
guance di Aragorn. “Ero qui quando tutto è cominciato, e voglio esserci
quando tutto finirà.”
Rimasero un momento in
silenzio. Il loro alito si condensava in nuvole di vapore in mezzo a
loro. Come in risposta ad una chiamata silenziosa si voltarono verso la
radura dello Specchio.
“E’ ancora lì, vero?”
chiese Gimli, ma Aragorn non aveva bisogno di rispondergli.
Ritto di fronte alla
colonna dello specchio, Turlos stava immobile, le braccia incrociate sul
petto, una mano su ogni spalla, il mento abbassato. La morbida chioma
bianca e argento scivolava sulle sue spalle come nebbia mattutina. I
suoi piedi erano poggiati, senza affondare, sulla superficie
scintillante dell’acqua di Elbereth, riversata dalle profondità della
terra nella Radura dello Specchio. Fiammelle simili a lucciole
iridescenti si levavano cantando dall’acqua e danzavano in scie azzurre
tutt’attorno a lui, sfiorandolo appena per poi lasciarsi scivolare di
nuovo verso il basso; e poi ancora su, su, sospinte verso il cielo. Come
onde si spingevano verso il catino di Galadriel, chiudendosi attorno ad
esso per poi retrocedere, alzarsi e gemere, ed infine riversarvisi
dentro in forma di acqua lucente.
In quei momenti, quando
una nuova goccia luminosa si aggiungeva all’acqua raccolta nel catino,
le labbra di Turlos si schiudevano in un’espressione silenziosa di
dolore, e le sue spalle tremavano. Ma il volto inespressivo da statua si
ricomponeva così immediatamente, ed in modo così naturale, da far
pensare ad un miraggio.
Era in quella posizione
da tre giorni.
Gimli unì le
sopracciglia in un’espressione preoccupata. “Queste terre sono
pericolose, e Turlos non poteva proteggervi, non ora, quando tutta la
sua magia è concentrata nello sforzo di dirigere lo Specchio. Con quello
che successo ultimamente… la tranquillità innaturale della superficie…
il cambiamento di Turlos… non potevo lasciarvi venire qui da soli. Ma
non c’era nessuno di cui mi fidavo abbastanza da mandare al mio posto.”
La sua voce suonò addolorata. “Ci sono molti che ti temono e ti amano
per aver risvegliato Turlos alla vita, Aragorn. Ma altrettanti ti
odiano, e la gelosia è un sentimento che spinge anche il più pio degli
uomini a commettere atrocità assurde.”
“Gelosia?”
“Ti invidiano, Aragorn.
Vogliono ciò che tu hai. Essere chi tu sei.”
“Un uomo solo, a cui è
stato tolto tutto ciò che ama e che riteneva caro? Un uomo la cui unica
consolazione è lo sguardo gelido del simulacro del suo amore?
Consolazione che ora deve abbandonare, senza possibilità di scelta,
perché il suo amore non è ritenuto importante, o anche solo vero? Si,
una situazione invidiabile. Davvero invidiabile.” La sua voce si alzò
abbastanza da sembrare quasi un grido. Un’altra smorfia sofferente
apparve e scomparì sul viso di Turlos. Lame di luce vivida piovevano
sulle sue dita, facendone risaltare la lucida levigatezza.
“Scusami, Gimli. E’ solo
che… sono stanco.” Aragorn nascose il viso nel palmo di una mano.
“Davvero non sai cosa
intendo?” Gimli l’apostrofò gentilmente, con la sua voce forte
stranamente incrinata da una nota di tristezza. “Davvero non sai quale
grazia ti è stata concessa? Ciò che essi non potranno mai sperare di
ottenere, perché tuo?”
“Io non credo di avere
nulla di invidiabile. Davvero. Non lo avevo nel mio mondo, quando ancora
ero qualcuno, figurarsi se posso averlo qui.” Mentre parlava, Aragorn si
passò le dita nervosamente tra i capelli. Dava l’impressione di essere
tornato indietro ed essere ripiombato nel periodo insicuro e maldestro
della sua prima giovinezza. Gimli gli sorrise con un’affettuosità quasi
paterna.
“Sei un grande Uomo,
Aragorn. C’è qualcosa in te, che attira la gente. Qualcosa che suscita
fiducia e rispetto; una nobiltà che risveglia quella nascosta in chi ti
sta intorno. Dovresti avere più fiducia in tè stesso. Guarda. Guarda
Turlos. L’averlo riportato alla vita, non è di per sé un fatto
ammirevole? E colui che hai compiuto il miracolo, non è forse degno del
più profondo rispetto? Si, ti ammiro, Aragorn. E anche tu dovresti
farlo.” Il Ramingo si rigirò tra le dita l’Evenstar senza nemmeno
rendersene conto.
“Non lo so, Gimli. Non
riesco a credere di essere davvero come tu mi dipingi. Io sono solo un
Ramingo.”
“Ed erede al trono di
Gondor, protettore di Frodo, salvatore di Turlos e della sua gente,
speranza ultima della Terra di Mezzo.” Gimli brancolò alla ceca in cerca
della mano di Aragorn. L’afferrò e la strinse con forza. “E,
soprattutto, sei amico di un Nano. E questa è una cosa che davvero in
pochi riescono ad ottenere.” Scoppiarono a ridere, le mani ancora
strette insieme, fino a restare senza fiato.
“Grazie, Gimli.” Il Nano
emise un borbottio intelligibile. Aragorn stava per aggiungere qualcosa,
quando Gimli alzò bruscamente la mano, facendogli segno di tacere. Di
nuovo le sue fattezze si chiusero in una cupa concentrazione. Turlos
ansimò gemendo a labbra schiuse. Solo tre fiammelle rimanevano a
veleggiare attorno alla sua figura scintillante. Dal catino d’argento
sgorgava verso l’alto una cascata ininterrotta di luce cangiante.
“Lo senti?” chiese Gimli
a denti stretti.
“Cosa?”
“Tamburi.” Aragorn tese
l’orecchio, ma non sentì nulla. Scosse la testa, ma Gimli ripeté:
“Tamburi nell’ombra.” Con agitazione crescente il nano zittì ogni suo
tentativo di protesta, e con forza lo spinse fino all’apertura tra due
alberi grotteschi e morti che conduceva allo spiazzo in cui Turlos
recitava la sua magia. Poi, raccomandandogli di non muoversi, Gimli
ritorno correndo fino al punto dove brillava il loro fuoco da campo e lo
spense col piede; ma questo non prima di aver stretto la mano di Aragorn
in una strana e commossa dimostrazione d’affetto.
Che altro poteva pensare
Aragorn, se non che Gimli stesse rivivendo, per qualche insano motivo,
il loro soggiorno a Moria? Di quali altri tamburi poteva parlare il
nano, se non dei nefasti araldi uditi nelle tenebre che avevano condotto
Gandalf alla morte? Provò pena per il suo compagno, e al tempo stesso un
angoscioso senso di premonizione lo colpì. Il pensiero dei sogni che lo
tormentavano, uniti agli araldi che Gimli sentiva, sebbene solo nella
sua testa, gli gelarono il sangue nelle vene. Forse quei segni
presagivano un'altra sventura, un altro lutti altrettanto lugubre che la
perdita del Grigio Pellegrino?
Aragorn scrollò via di
forza quella turba di pensieri oscuri, e alzando lo sguardo vide che
Turlos era rivolto verso di lui. I suoi occhi, languidi come quelli di
un cervo e al tempo stesso freddi come ghiaccio, lo fissavano. I suo
capelli, per magia dell’alba, sembravano del colore dell’oro.
Legolas… pensò
Aragorn.
Non c’era più acqua
sotto i suoi piedi candidi, ma solo la nuda terra molle e scura. Lo
Specchio della Dama pulsava ora di una soffice luce sfaccettata. Una
musica eterea e traslucida risuonava, ma solo nelle orecchie Aragorn,
soffocando ogni altro suono. Si avvicinò di un passo. Mormorò frasi
sconnesse di devozione e amore, poesie infantili per metà dimenticate.
Vide Turlos tendersi verso di lui. Aprire le labbra per parlargli, ma
invece che parole un rivolo di sangue traboccò dalla sua bocca.
Aragorn ebbe un
sussulto, senti l’aria mancargli, il petto comprimersi. Capelli biondi…
capelli biondi nella melma…
Urlando, Aragorn si fece
avanti, catturò Turlos tra le braccia, e se lo premette contro il petto,
quasi volesse incastonarvelo, ansimando al pari di un animale ferito.
Turlos lo guardò senza espressione, le belle labbra schiuse e
immacolate. Toccò la fronte del ramingo in punta di dita. Argon sbatté
le palpebre, e con la visione improvvisamente schiarita vide che non
c’era traccia di sangue sul viso di Turlos. Il corpo che stringeva,
sebbene gelido al tocco, respirava con tranquillità, e poteva il cuore
dell’elfo battere, lì nel punto dove i loro petti si toccavano.
“Un altro sogno?”
domandò Turlos. Aragorn lo guardò non tanto con stupore, ma con
angoscia.
“Mi tormentano, mi
rendono schiavo. Turlos, Turlos… cosa sono queste terribili visioni,
dimmelo! Tu che sai ogni cosa devi sapere anche questo!” Ma Turlos si
limitò a scuotere la testa, e sfiorandogli le labbra col pollice disse:
“La fine di tutto questo
si avvicina. Presto sarai a casa. Che senso avrebbe spiegarti ora
visioni appartenenti ad un mondo che presto lascerai, e che lascerai per
sempre? No, non crucciarti Aragorn. Non è necessario che tu scopra il
significato di ciò che vedi.”
“Ma tu lo conosci?”
domandò ancor più disperato. Turlos, coi capelli ancora impregnati
dell’oro dell’alba, si chinò e gli disse, così che il suo respiro gli
carezzasse il lobo sensibile dell’orecchio:
“Noi che dobbiamo sapere
già sappiamo. Abbiamo visto tutto, e lo accettiamo. Era questa la nostra
missione: sapere ed accettare. La tua è quella di tornare a casa, senza
mai voltarti lungo il cammino. Mai.”
Si tirò indietro,
rizzandosi in tutta la sua candida statura dinanzi al Ramingo ancora più
confuso.
“La via ora è aperta,”
disse piano il Signore della Neve. “E quando la imboccherai, Aragorn,
non dovrai mai guardarti indietro. Se lo farai, potresti perdere tutto,
e rendere vano ciò che abbiamo fatto per te.”
“Tu e Gimli? Stai
parlando di te e Gimli?” Aragorn lanciò uno sguardo confuso al nano che
montava la guardia tra gli alberi, a parecchi metri dalla piccola conca
sprofondata dove loro si trovavano.
Al suono del suo nome il
nano si voltò a fargli un cenno con la mano. Sorrideva. Ma quelle tracce
luminose sulle guance, confuse e rischiarate dalla luce nascente, erano
lacrime, o semplice sudore o tracce di sporco? Aragorn guardò nuovamente
Turlos, che ora lo invitava, tendendo le lunghe dita affusolate, a
seguirlo fino allo specchio. La luce che questo emanava, scivolandogli
sulle guance, faceva pensare anch’essa a delle lacrime proibite.
“Vieni, Aragorn. Vieni.”
Prendendolo per mano
guidò Aragorn in cima ai tre gradini dell’ara che reggeva lo specchio.
Poi si volse in modo da bloccare la visione della radura in cui Gimli
montava la guardia. Un pallido velo traslucido parve circondare la
conca, rendendo nebulosa la visione di ciò che stava aldilà.
“In altri tempi, sarebbe
bastato il potere della mia mente ad erigere uno scudo inattaccabile
intorno a noi,” spiegò Turlos con voce roca. “Ma la tua venuta mi ha
indebolito, Aragorn. Colui che trae i suoi poteri dalla mancanza di
sentimenti non può che perderli, una volta che il suo cuore viene
risvegliato.”
Mentre così parlava,
Turlos aveva passato una mano sopra lo specchio, avanti e indietro, fino
a che la luminescenza dell’acqua non era mutata, e nelle sue nebulose
profondità non era apparso un luminoso cielo estivo. Aragorn guardò quel
riempirsi di tutte le stelle conosciute, e si stupì quando ne apparvero
di nuove, che nel suo cuore lui battezzò coi nomi dei suoi compagni più
cari.
“Né potrei difenderci in
modo efficace,” continuò l’Elfo, “quando ogni goccia del mio potere sarà
impegnata ad condurti sano e salvo a casa. La via è aperta, ma piena di
intrighi. Dovrò spingerti e condurti avanti, facendo si che tu non ti
smarrisca, bensì giunga sano e salvo al luogo dove vuoi essere.” Aragorn
annuì distrattamente.
“Gimli ci protegge,”
disse. Turlos chiuse gli occhi.
“No,” sussurrò,
chiudendo gli occhi con una smorfia di sofferenza. “Lui guadagna tempo.”
“Cosa---”
In quel momento Aragorn udì, come se si
fosse svegliato in quel momento da un sogno, il rumore di tamburi a cui
alludeva Gimli. Il raccapricciante suono di migliaia di piedi che
avanzavano marciando sul suolo marcio della foresta esecrata.
Un fragore sordo, come di
tuono, e
Aragorn vide le fiamme che si levavano,
improvvise, da ogni angoli, attecchendo sul legno putrido come fosse
carta, propagandosi ad una velocità indescrivibile, e levandosi al cielo
con barriti di cupo giubilo. In poco più di un attimo Lothlorien si era
tramutato in un inferno di calore e miasmi soffocanti. Fumo e vapore si
mescolavano sfrigolando nell’aria irrespirabile. Il fango evaporava, si
spaccava e si frantumava, rivelando immense voragini d’ombra che nemmeno
le fiamme riuscivano a rischiarare - le fiamme che continuavano a
crescere, creando esplosioni terrificanti lì dove il fuoco incontrava i
vapori mefitici della terra. Il cielo scomparve dietro una cappa di
nerofumo, e presto i giganteschi alberi grotteschi iniziarono ad
abbattersi al suolo come animali morenti.
Era opera di Turlos?
Aragorn non lo seppe mai, sebbene sperasse non lo fosse.
Reso immobile dall’orrore, il Ramingo
riuscì a malapena a portarsi Turlos nuovamente al petto. Nella
confusione vide Gimli che levava la sua mazza ed esplodeva in un urlo di
battaglia. Tra
le fiamme, come un incubo, apparve il vecchio.
Stava ritto nella sua deformità, le labbra
tirate indietro sui denti rossastri
di sangue e bianche di schiuma. Lanciò una risata stridula alla vista
dei tre. I grandi occhi pallidi si colmarono di malizia, le narici gli
fremettero, e battendosi le cosce iniziò a balzellare in preda alla
gioia.
Se mai
Aragorn
aveva sperato che il vecchio
– il vecchio che lui aveva salvato, e curato, e che credeva rinchiuso
nella torre più alta del palazzo bianco – fosse lì per aiutarli, essa
morì nell’istante in cui il vecchio parlò.
“Eccoli! Eccoli!” gridava con la sua voce
stridula. Proruppe in una
nuova risata sgangherata, e tirò
indietro la testa. Nell’assurdo bagliore delle fiamme si poteva
indovinare la bellezza che doveva aver posseduto in gioventù – la
mascella forte, i capelli ondulati e biondi, le sopracciglia arcuate e
scure sopra gli occhi penetranti. Ma in quel momento era repellente come
un serpente.
Dietro di lui, nei
miasmi di fiamme e fumo, guizzavano sagome scure e nerborute. Emettevano
sibili aspri e gutturali, come il coro discorde di bestie rese folli
dalla fame o dalla rabbia. E ancora il vecchio urlava: “Eccoli, eccoli!”
e li additava con il lungo indice scarno e nodoso, evitando come un
anguilla i colpi furibondi della mazza di Gimli.
Aragorn fu tutto fuorché
stupito quando l’esercito di Uruk-hai uscì dalle fiamme e si disposero
in un ampio semicerchio attorno al vecchio, le teste alzate a fiutare
l’aria, gli occhi ardenti come piccole stelle infuocate. Pensò per un
attimo a come il vecchio sembrava farsi capire e comandava i corvi, e
quanto sarebbe stato facile per essi portare il messaggio di un
traditore fino agli Ururk. Poi si rese conto che il vecchio stava
strillando qualcosa a lui e a Turlos, che teneva stretto tra le braccia.
“Mio! Mio! Tu dovevi
essere mio! Mia sorella è morta perché non l’amavi… ricordi? E’ passato
molto tempo, ma ricorderai come l’hai uccisa… come hai ucciso tutta la
mia famiglia! Oh, si, erano mie le mani che hanno strangolato il mio
adorato cugino, e mio zio… tu dormivi, tesoro mio, nevvero? Si, si, tu
dormivi… ricordo le tue labbra schiuse, le mani giunte… ma sei tu che li
hai uccisi! Li hai uccisi col tuo bel volto, il tuo bel corpo, la tua
magnificente bellezza che io dovevo avere! Eri per me, eppure loro
volevano toccarti!” La bocca gli schiumava, e gli occhi sembravano
ardere più delle fiamme che li circondavano. Aragorn sentì il sapore
acido della bile salirgli in gola.
“Ho rubato per te! Ho
torturato, stuprato e ucciso! Tutto perché tu mi guardassi! Tutto perché
tu posassi i tuoi magnifici occhi su di me… oh, i tuoi occhi, mio
tesoro, i tuoi magnifici occhi!” Le sue risate ora erano miste a colpi
di tossi. Il suo corpo era scosso da spasmi violenti.
“Ma poi lui si è messo
fra di noi! Un uomo comune! Né un Vala, né un essere di ghiaccio come
te! Un comune mortale osa strapparti a me! No, mai!” Emise un sibilo
lacerante e ridendo si accasciò sulle ginocchia. Aragorn notò solo ora
la punta dell’ascia di Gimli che spuntava fuori dal petto del vecchio,
semi-squagliata dal calore.
“Ma ora mi vendico amor
mio!” disse il vecchio. Gimli apparve dietro di lui, e con uno strattone
liberò la mazza. Si volse verso gli Uruk, che con un urlo si chiusero su
di lui, come una marea ribollente. Ci furono schizzi di sangue nero,
urla, strida e il rumore di metallo su metallo quando la lama dell’ascia
cozzava contro le armature degli Uruk.
“Mi guarderai ora?”
mormorava il vecchio. Aragorn era trattenuto dal correre verso Gimli
solo dalle braccia di Turlos. Eppure esse erano fredde e inamovibili
come una catena di mithril. “Mi guarderai come guardi lui? La tua città,
mio bellissimo, mio tesoro… l’ho distrutta, sai? I cadaveri della tua
amata gente giacciono ammucchiati come bambole rotte tra le rovine, no…
no… a questa ora saranno solo cenere! Nient’altro che cenere! E non
potrai più guardarli, perché non c’è più nulla da guardare… solo io…
solo io…”
Gimli riemerse dalla
marea di Uruk, ergendosi sui cadaveri ammassati di due di essi. Fece
roteare la mazza, mentre con l’altra mano estraeva dalla cintura una
seconda ascia, arrugginita e contorta. Altri Ururk caddero. Una freccia
sibilò verso di lui. Lo colpì all’addome. Aragorn urlò come avesse perso
il lume della ragione, si dimenò, ma il crudele ferro che lo tratteneva
si strinse ancora di più.
“Volevo solo te, solo
te, solo te…”
Gimli strappò via la
freccia, poi si ruotò su se stesso e l’Uruk che stava per attaccarlo
alle spalle si accasciò senza vita. Un altra freccia. Un urlo. E Gimli
che ancora combatteva. Aragorn si rese conto di un soffio fresco e
gentile sulla sua guancia. Era Turlos che gli sussurrava:
“Non guardarti indietro,
non farlo, torna al presente, Aragorn, abbandona questo futuro di follia
e morte, torna a casa, torna a casa…”
Aragorn
si voltò a guardarlo con le lacrime agli occhi.
“Lo
sapevi…”
“Lo sapevamo entrambi.” Gli chiuse le mani
attorno al viso e se
lo portò vicino al suo. “Bisogna aggiungere una goccia del tuo sangue
all’acqua. Solo una goccia, e poi potrai partire.”
“Non posso abbandonarti!” Replicò
fieramente. Provò a divincolarsi da quella stretta apparentemente così
tenera, ma scoprì che era impossibile.
Fissò Turlos con occhi sgranati, mentre questo gli diceva con tutta la
dolcezza che possedeva:
“Non rendere vano il sacrificio che ti è
stato offerto. Se tornerai indietro nel tempo, tutto questo non
succederà.” Aragorn era ormai solo vagamente cosciente
dei suoni della battaglia. Gli sembrò di intravedere dietro le spalle di
Turlos i primi Uruk giungere ai bordi della barriera. Poi uno cadde,
un’ascia infilata in gola. Turlos lo obbligò a continuare a guardarlo
negli occhi e così Aragorn fece.
Fu
per questo che udì solamente il momento in cui Gimli fu sopraffatto.
Eppure, anche se non guardò, vide nella sua mente –poiché lo specchio
gliel’aveva già mostrato in passato- il corpo maciullato e sfigurato del
Nano calpestato dagli Uruk che s’abbattevano ora con violenza contro la
barriera che li separava dal loro mortale e indifeso nemico.
“Mi capisci? Se torni indietro ora nulla di
tutto questo accadrà. Tornando indietro ci salverai.” Ma Aragorn
comprese anche un'altra cosa. Sentì in gola il groppo ormai
tristemente familiare delle lacrime.
“Tornando indietro io ti uccido.” Turlos sospirò.
“Farai
in modo che io non nasca mai,” precisò in un sussurro. “Salverai la vita
e la mente di Legolas.”
“Ma
distruggerò te.” Turlos scosse il capo.
“Non mi senti? No,
io non sarò mai nato, e perciò non potrò essere ucciso.” Lentamente fece
in modo che Aragorn si piegasse sullo specchio.
“Non c’è
più tempo…” Esitò un attimo, poi aggiunse con voce soffice: “Chiedimelo,
Aragorn. Chiedimelo ora.”
Aragorn, che non aveva
bisogno di chiedere a cosa si riferisse,
disse in un soffio:
“Cosa
provi per me? E cosa provavi allora?”
E fu
allora che con un sorriso, il primo ed ultimo sorriso della sua
torturata vita, Turlos gli fece scivolare una mano tra i capelli, e lo
baciò.
Lo
baciò come un Uomo avrebbe baciato il suo
amante, il suo amore, e la sua bocca era dolce e calda. Fece scivolare
la lingua tra le labbra del Ramingo, ed Aragorn non sentì gelo ma solo
estasi. Chiuse le braccia intorno al corpo di Turlos e iniziò a
singhiozzare nella sua bocca, come un bambino, quando sentì quel corpo
riscaldarsi sotto il suo tocco, farsi morbido e ardente di sangue.
Poi i denti di Turlos si chiusero sul suo
labbro. Il sapore di sangue gli riempì la bocca come il più denso dei
vini, sentì il
liquido scivolargli lento sul mento.
Delle mani l’afferrarono per le spalle e lo
strapparono da Turlos, che lo guardò cadere senza muoversi. L’acqua
rossastra dello specchio si avvolse come tentacoli attorno al suo corpo,
gelida e molliccia al tatto, e lo
trascinò in basso e indietro, facendolo sprofondare in una massa viscida
che sembrava emettere una melodia salmodiante.
Aragorn allungò le
braccia verso di lui, ma Turlos non fece nulla per aiutarlo, e anzi lo
guardò come se non sapesse chi era. Provò a urlare, ma l’acqua gli
riempì la bocca, le narici, quindi i polmoni. Ci fu uno schianto, e la
conca si riempì della luce rossastra e pulsante che proveniva dal fuoco
sullo fondo lontanissimo della foresta. Sebbene Turlos ancora
sorridesse, proprio per questo sembrava triste.
D’improvviso, eccolo
sussultare, gli occhi sgranati, la bocca aperta intorno ad un grido che
non c’era. Col languore di chi non vuole abbandonare un sogno, Turlos
volse lo sguardo alla punta di freccia che gli sporgeva dal centro del
petto, la contemplò assorto, come se non capisse perché si trovava lì.
Eppure sapeva.
Aveva sempre saputo.
Quando alzò gli occhi a
quelli di Aragorn, il Ramingo si angosciò nel vederli così vuoti,
rassegnati, freddi, e iniziò a urlare, a dibattersi nell’acqua, ma la
sua bocca si spalanca in un grido silenzioso e i suoi arti sembrano
pesanti quanti macigni. L’odore di terra umida gli riempì le narici,
l’odore asfissiante di un bosco marcio. E ancora cadeva, cadeva, verso
l’oblio infinto, le stelle morte ed il gelo profondo.
La seconda freccia gli
trapassò il braccio. La terza il fianco, passando dalla schiena. Turlos
continuava a fissarlo negli occhi, e Aragorn in quel momento capì.
“Non potrò difenderci
in modo efficace,” aveva detto, “quando ogni goccia del mio
potere sarà impegnata ad condurti sano e salvo a casa.”
“Non ha potuto
fermare le frecce,” si disse Aragorn. “Per colpa mia.”
Il Ramingo gridò ancora,
un grido che nessuna gola umana ha mai concepito. Le mani, impotenti,
artigliavano l’acqua rossastra, i suoi vestiti, la pelle. Il dolore era
ormai una forza che sfidava ogni descrizione; una bestia violenta che
con zanne e artigli lo sbranava dall’interno con brama feroce, ridendo
perché per quanto mangiava e dilaniava e squarciava, il cuore del
Ramingo non cessava di battere, né i suoi occhi di fissare la fonte del
suo tormento, così che lei poteva continuare indisturbata a tormentarlo.
Turlos cadde a terra, in
ginocchio. Foglie morte sotto le sue mani. Fango negli occhi. Il
gorgheggio di acqua avvelenata che scorre di lontano. I suoi capelli
biondi si stendevano come fili d’oro nella melma. La sagoma indistinta
di un Uruk si levò dietro di lui.
“Legolas!” Aragorn urlò,
dibattendosi, ormai impazzito per l’orrore. “Non lui! Non lui, no! NO!”
L’Uruk alzò il braccio, e con esso la
spada, mirando al collo del suo inerme oppositore. Una risata
gracchiante gli sfuggì dalle labbra. Turlos gemette. Aragorn lo udì
sussurrare il suo nome sopra il denso scorrere del sangue. Un attimo
prima che la lama colpisse, gli occhi di Turlos fiammeggiarono, Aragorn
fu spinto indietro con più violenza, e tutto il suo essere esplose in un
urlo terrificante di sofferenza quando Turlos gridò,
come se volesse che da lì fino a Valinor tutti lo sentissero:
“Ti amo Aragorn! Ti amo!
Và prima che sia
tardi, amore mio! Và da lui! Và da lui!”
Aragorn si disse di non
aver visto il sangue schizzare. Né la bella testa cadere e rotolare via,
sebbene quella visione gli sarebbe rimasta impressa nella memoria fino
alla fine del tempo.
Poi venne la tenebra. La
benedetta tenebra.
Ed Aragorn non vide né
sentì più nulla.
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