.|. Piccolo Principe .|.

by Nemesi

Aspettando che Frodo si riprenda, gli Hobbit si riuniscono attorno al fuoco per raccontarsi storie. Stanotte, tocca ad Aragorn raccontare…

Sentimentale | Slash/AU | Rating PG-13 | One Piece

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Okay, non chiedetemi da dove è uscito tutto questo, perché onestamente non lo so. ^^;; Ero in un momento di depressione e quando mi capita, il raptus della scrittura mi prende, e non mi lascia finché non metto la parola “fine” in fondo ad una storia. Così mi siedo davanti al PC, apro il mio Word Processor, e comincio a scrivere. Di cosa, no so. Scrivo e basta. Stavolta ho scritto di Estel, di Legolas, e di un Piccolo Principe, e spero che leggere questa storia vi regali qualche minuto di svago! =)

 

* * * * *

Gli Hobbit sedevano trepidanti nel Salone del Fuoco, schierati in semicerchio di fronte al camino scoppiettante. Bilbo sedeva, con la testa a ciondoloni sul petto, in un’alta poltrona azzurra, designata più per un Elfo che per un Hobbit quale lui era – la sua testa arrivava a poco più di metà dello schienale, le membra rilassate nel sonno sprofondavano nell’imbottitura morbida, ed i suoi piedi penzolavano a qualche centimetro da terra, come quelli di un bambino. Merry e Pipino stavano rannicchiati l’uno accanto all’altro sul pavimento di lucido marmo, chiacchierando animatamente.

Sam rientrò in quel momento dalla sua quotidiana visita a Frodo –che giaceva ancora svenuto e febbricitante un piano o due sopra la loro testa- e trovò Pipino che quasi appiccava fuoco alla Casa di Elrond, nel tentativo di arrostire un mela.

Il buon Hobbit scosse la testa rassegnato, si sedette a gambe incrociate alla destra di Bilbo, e salutò tutti con un cenno.

“Dorme, ma sembra che si riprenderà presto,” annunciò. “Cosa mi sono perso? Avete deciso a chi tocca raccontare una storia questa sera, e di cosa parlerà?” Un movimento in un angolo buio della stanza attirò la sua attenzione. Aragorn si alzò lentamente dalla sua sedia ed entrato nel cerchio di luce arancione emanata dal camino, si poggiò con la schiena ad una colonna di marmo da cui si apriva un’imponente finestra ad arco. Quando parlò, luce ed ombra giocarono sul suo volto, screziandolo di contrasti ambigui ed attraenti.

“Temo,” disse con una punta di divertito rammarico, “Che durante la tua assenza sia stato deciso che stanotte sia il mio turno. Cosa volete ascoltare?”

“Una storia di fantasmi!” Trillò Pipino.

“Giammai!” ribatté Merry. “Dopo lo spavento che ci siamo presi? No, grazie. Meglio una storia di eroi e guerrieri.”

“Io-” disse Sam, titubante, “Vorrei sentire una di quelle storie che, non so se mi spiego, ti rapiscono, qualsiasi sia il loro argomento. Una di quelle belle storie che ti colpiscono al cuore; che ti fanno stare male, e poi ridere e gioire, e preoccuparti, se mi seguite, mentre sono raccontate; ma che quando sono finite ti fanno pensare: peccato! Non sentirò più di questa storia meravigliosa!”

“Oh oh!” fece allora Bilbo, allegro e arzillo tutto d’un tratto. “Allora non c’è che una storia, Dúnedan!” Aragorn fece una smorfia, ma nella luce tremola e incerta fu impossibile capire se si trattasse di dolore o rassegnazione.

“Non penso che gli interesserebbe ascoltare--” iniziò, ma Bilbo lo zittì con un cenno.

“Chiediamoglielo!” esclamò. Dopodiché, girandosi verso i suoi compagni disse: “Cosa ne direste di udire un racconto speciale, stanotte? La storia di un Principe e della visione di cui si é innamorato; una storia pervasa di nobili sentimenti e della meraviglia più pura; un racconto nostalgico, che è l’avventura di crescere, un ritorno al passato… una storia d’amore.”

“Esiste una storia così?” fece Pipino, meravigliato. E quando Bilbo annuì, il giovane Hobbit parlò per tutti, spronando Aragorn a raccontare.

“Storie d’amore… mi piacciono le storie d’amore. Sono quelle che vale più la pena di raccontare. Ti prego, Granpasso. Racconta.”

Aragorn trasse un sospiro, e alzando il volto rimase a contemplare il cielo ad oriente. Le stelle brillavano, maestose ed indifferenti, sopra le loro teste, colmando la valle di una luce incantata, rendendola lo scenario perfetto per una storia triste. Il rumore dell’acqua in lontananza sembrava il sussurro di un’amante, a cui rispondeva il mormorio dolce e suadente del vento.

Era una notte, Aragorn si disse, fatta per parlare d’amore. Sospirò ancora.

“E sia…”

 

* * * * *

 

«Piccolo Principe, è così che mi chiamava.

Ho avuto molti nomi, durante la mia vita, lunga e ancora lungi dal finire, ma lui, e lui solo mi ha mai chiamato così.

Piccolo Principe.

Quando sussurrava quel nomignolo, con quella sua dolce voce vellutata -che mi calmava, ai tempi della mia fanciullezza, nella stessa misura in cui poi mi fece fremere- io pretendevo di esserne insultato, e gravemente, e incrociando le braccia con un broncio petulante gli spiegavo pazientemente (come se fosse lui il bimbo, e non io) che non ero affatto piccolo, né lo ero più da molto tempo. E non importa se a quel tempo avessi dodici anni, o nove, o sette. Ai suoi occhi, non volevo mai apparire piccolo.

Ai suoi occhi, volevo brillare come lui brillava ai miei.

Ma le mie rimostranze non lo smuovevano mai. Al contrario, mentre parlavo, le sue belle labbra si curvavano sempre in un sorriso, si schiudevano, sciogliendosi in una risata cristallina, mentre i suoi occhi si riempivano di tutti i riflessi delle stelle. Allora, quando io mi ritraevo, offeso, ferito, lui si inginocchiava dinanzi a me e mi stringeva al petto; e affondandomi le dita nei capelli mi mormorava dolcemente nell’orecchio che tutti noi siamo piccoli, dinanzi alla grandezza della natura, del fato. Che l’uomo realmente grande é quello che si riconosce piccolo dinanzi al suo destino e lo accetta con coraggio, senza guardarsi indietro.

Era il suo modo di dirmi quanto mi amava; il suo modo di prepararmi a ciò che sapeva sarebbe avvenuto. Io però, che restavo comunque sempre solo un bambino, vedevo quei momenti solo come delle opportunità per stringerlo e farmi stringere, per respirare il dolce profumo dei suoi capelli mentre mi perdevo nel calore del suo abbraccio. Opportunità che, più io crescevo, più rare divenivano.

Avrei dato qualunque cosa per stare sempre stretto a lui (sebbene non lo avrei mai ammesso, mai), e i suoi occhi, i suoi sorrisi, mi facevano capire che per lui, era lo stesso.

Ah, quanto lo adoravo!

Nella mia mente di bambino non vi era nessuno nemmeno lontanamente paragonabile a lui, e mentre il suo nomignolo per me era Piccolo Principe, io potevo chiamarlo in un solo modo: ‘mio’.

Perché lo era - il mio maestro, il mio compagno di avventure e di giochi, il mio protettore, il mio idolo. Mio; mio fino alla morte, mio fino alla fine del tempo e del mondo; sempre e solo mio.

 

Ricordo ancora come la sera prima che egli giungesse a Granburrone, ove dimoravo con mia madre, il buon Sire Elrond mi aveva preso da parte, piccolo e inesperto com’ero, e mi aveva detto con un sorriso:

“Mio caro, mio piccolo Estel! Ho una sorpresa per te, un regalo inaspettato e gradito! Giungerà domattina da Est, e sarà solo per te.”

Strabiliato, fremetti di gioia al pensiero di ricevere qualcosa da quelle creature affascinanti. Erano così belle, così dolci, così splendenti! Ed avevano un regalo per me? Oh, come descrivere la gioia che mi pervase in quel momento? Drizzai le spalle in una posa che sperai essere fiera, e dall’alto dei miei sei anni giurai a Sire Elrond che mi sarei dimostrato degno di quel regalo, che sai stato bravo, e l’avrei tenuto sempre con me, riversando su di esso tutta la mia cura ed il mio amore.

Sire Elrond rise allora, inaspettatamente, ed a quel suono sommesso si unì il trillo deliziato che era la risata di mia madre. Non comprendevo appieno il perché della loro ilarità, né prestai attenzione quando Sire Elrond mi spiegò nella sua voce bassa e cadenzata la natura del mio regalo. La mia indole, già caparbia e passionale a quella tenera età, non mi permetteva di venir meno ad una decisione presa. Avrei curato un regalo degli Elfi con tutta la tenera devozione che esso meritava; e l’avrei fatto per sempre, a costo della vita.

Credo di aver promesso distrattamente qualcosa a mia madre, poi, quando le loro risa si quietarono; qualcosa come “non essere troppo impaziente”, ma lo feci senza accorgermene. L’eccitazione infatti fu tale da rubarmi il sonno quella notte, ed io fui visto vagare per i corridoi della Casa di Elrond come un fantasmino sperduto, avvolto in un lenzuolo alto il doppio di me, finché la pallida alba non mi sorprese rannicchiato alle porte della nostra dimora -tremante, piccolo e solo- in attesa del mio regalo; del mio destino.

Fu nel momento stesso in cui il primo raggio di sole si levò da dietro i monti, che lo vidi. Sembrò emergere dal cuore stesso dell’astro nascente, e la sua figura era insieme luce ed ombra. Come può un bambino reagire ad una simile apparizione? Ammutolii. Ammantato di una nebbia scintillante, egli sedeva in sella ad una creatura che era neve e vento, e sulla sua fronte riluceva fiera la Stella del Mattino. In silenzio venne sino a me e si inginocchiò, coi lunghi capelli adagiati sulle spalle come un manto d’oro; e i suoi occhi di zaffiro mi sembrarono laghi in cui poter annegare, dolcemente, e desiderar null’altro.

Poi, quando per la prima volta sentii quella creatura lucente sussurrare soavemente il mio nome, io, che pure non avevo mai ricevuto un regalo prima d’allora, capii che niente di più bello o meritevole sarebbe mai esistito su questa Terra, e non riuscii a trattenere le lacrime.

Perché quel tesoro raro, quella perla ineguagliabile, era mio.

Con tutta l’ingenua serietà di un fanciullo avevo interpretato alla lettera le parole di Sire Elrond, senza mai pensare che il mio regalo non fosse l’Elfo in sé, ma la sua dolce presenza, e l’educazione che egli mi avrebbe impartito negli anni a venire.

Piangevo, non potevo smettere; grosse lacrime calde mi rigavano le guance, e non riuscivo a proferir parola. Allora quella creatura magnifica mi trasse a sé dolcemente e baciò via le mie lacrime, dicendo:

“Non piangete, mio Piccolo Principe. Cosa c’è, in quest’alba di delizia, che possa far piangere una creaturina pura come voi?”

“Tu sei mio,” gli risposi, ridendo ora, e non più piangendo. Poi, improvvisamente, fugacemente, timido, sussurrai: “Ma chi sei?”

“Legolas.”

“Legolas,” ripetei io; e annuii, come a dire che trovavo quel nome di mio gusto, sigillando il nostro fato. “Il mio Legolas.” Fu quella la prima volta che sentii la sua risata d’argento, e già da allora ne fui incantato.

“Si;” disse. “Vostro, Piccolo Principe. Il vostro Legolas.”

Mi prese tra le braccia, lasciandomi nascondere le guance arrossate dal pianto contro la fresca carne del suo collo, e mormorandomi una dolce nenia mi condusse dove Sire Elrond ed i suoi figli l’attendevano.

Oh, come furono sorpresi di vederci insieme! Trovai esilaranti le loro facce stupite e confuse, e ridendo abbassai il volto per perdermi nel profumo dei suoi capelli. Qualcuno però decretò scortese che io sedessi in braccio al nostro ospite, e si prodigarono per allontanarmi da lui con mille scuse e sorrisi. Eppure, non appena lasciai le braccia riluttanti di Legolas e fui poggiato a terra, volai di nuovo tra le braccia del mio Principe, che rise con me e mi fece volteggiare in alto sulla sua testa.

E si, perché questo era Legolas. Figlio di Thranduil, Re di Bosco Atro, Legolas era l’Ultimo Principe degli Elfi.

Battei le mani deliziato quando ne venni a conoscenza, e gli gettai di nuovo le braccia al collo, ridendo forte e urlando che lo sapevo, lo sapevo! Perché una creatura di tale bellezza doveva per forza essere un Principe come quelli delle fiabe.

Come? Se Legolas era bello, volete sapere? Oh, direi bellissimo. E anche questo non gli rende giustizia.

Il suo volto perfetto sarà la mia eterna ossessione; il suo ardore e la sua saggezza sono scolpiti a fuoco nella mia memoria e nel mio cuore. Era così bello; una creatura di luce con i morbidi capelli d’oro, l’azzurro sguardo penetrante e le guance di pesca. Sembrava uscito dal capolavoro di un pittore, no, dal suo sogno delirante di bellezza; e tuttavia c’era in lui qualcosa di più, qualcosa che trascendeva la bellezza fisica, e per il quale non ho nome.

Conquistò tutti, alla corte di Sire Elrond. Dagli Elfi più nobili agli sguatteri di cucina, nessuno riusciva a nascondere una forte adorazione per lui. Era regale, eppure umile. Prestante e caparbio, eppure dolce. Forte, eppur gentile. Persino mia madre, quando per la prima ci vide insieme, restò senza fiato, ed in Elfico mormorò:

“Grande è la bontà dei Valar, che hanno condotto a mio figlio una creatura così maestosa.” E con un inchino cercò di baciargli la mano, ma Legolas si inginocchiò dinanzi a lei, e baciò la sua.

E, ci credereste? Io mi beavo di tutti i complimenti e gli omaggi che gli venivano fatti, perché egli era mio.

 

Crescemmo assieme - lui, tutore affettuoso eppur severo, ed io, pupillo prodigo e adorante. Trascorsero anni ineguagliabili di serenità e affetto, spesi tra meriggi di sole e fresche notti stellate; tra giochi e risa. Ma furono anche anni di impegno e dedizione. Quale bambino è stato mai più fortunato di me, che crebbi nell’amore infinito della mia coraggiosa madre, e nella luce eterna del Popolo Beato? Eppure, ciò che realmente mi rendeva felice, era Legolas; solo Legolas.

Era per lui che mi applicavo nei miei studi, che ero attento ed ubbidiente: tutto per vederlo sorridere compiaciuto dei miei progressi. E solo per lui iniziai ad uscire a caccia con i gemelli: volevo tanto renderlo fiero di me. E mai niente mi rendeva più felice di quando lui mi stringeva al cuore, e carezzandomi i capelli mi diceva quanto ero stato bravo, quanto era orgoglioso di me.

Poi, le cose cambiarono.

Feci finta di non notarlo, ma i suoi abbracci divennero col passare degli anni semplici carezze, che mutarono poi in fredde e impersonali pacche sulle spalle. I suoi occhi non incontravano più i miei, né più le sue labbra si posavano sul mio volto.

 

Ero un adulto fatto, ormai, quando Legolas smise del tutto di cercarmi; ero amato e viziato da i più nobili tra gli Elfi; ero stimato e apprezzato; non avevo alcun nemico; eppure non vi era creatura più miserabile di me.

Perché? Perché Legolas mi evitava? Che avevo fatto?

Passavo notti insonni a crucciarmi su quale fosse la mia colpa, ma il colpo di grazia mi giunse quando, dopo un estenuante battuta di caccia cercai di abbracciarlo, e lui rifuggì il mio tocco –oso dirlo?- come se ne fosse assolutamente terrorizzato.

Valar, mi chiedevo, Valar che ho fatto? Perché mi accade questo? Ma nessuno rispondeva ai miei quesiti, e non c’era lenimento per la mia angoscia. Fossi stato realmente adulto come stimavo di essere, avrei capito subito quale era la vera natura del mio struggimento, e perché Legolas fuggisse da me. Ma l’unica cosa che potei trarre dalle profondità nebbiose della mia memoria era una promessa che gli avevo fatto, anni e anni or sono, che non avrei mai compiuto vent’anni.

Mai.

Per lui, ci sarei riuscito.

Avrei fermato il tempo prima dello scoccare di quella data, il mio ventesimo compleanno.

Questa era la mia promessa.

Ma perché? Perché promettergli una cosa simile, quando non aspettavo altro che divenire adulto per poter essere alla pari con lui? Non riuscivo a ricordarlo. Per quanto mi sforzassi, non potevo.

 

Così divenni chiuso e cupo, e se prima non riuscivo più a toccare Legolas, ora non potevo più nemmeno godere della sua compagnia. Ero di umore nero e schivo dall’alba al tramonto, mentre le notti malinconiche erano ricolme di pensieri su lui. Eppure, se solo Legolas mi si avvicinava, io scappavo; e se per caso resistevo a quell’impulso di fuggire, allora la mia lingua tagliente costringeva lui a ritirarsi, mesto e melanconico quanto me.

Me perché? Perché agivo così?

Non avevo forse giurato che l’avrei protetto? Eppure, col mio comportamento lo ferivo, e ferivo me stesso. Mentre lui feriva me. Che triste anello di dolore che era! Ma non è forse sempre così, l’amore?

 

Comunque, non fui capace di mantenere né quella, né nessuna altra delle promesse fatte a Legolas. Da qualche parte, così in profondità da non esserne nemmeno conscio, me ne vergognavo immensamente (sebbene fermare il tempo non è dato neanche ai Valar), ma venne infine il giorno in cui compii vent’anni.

Il giorno del mio compleanno era lo stesso in cui tornai finalmente a Granburrone dopo una missione a cui Elladan e Elrohir –fratelli per me in tutto, tranne che per i legami di sangue- avevano insistito che li accompagnassi.

Inizialmente, avevo creduto che mi volessero con loro per le mie abilità di guerriero e cacciatore, ma scoprii presto che non era così: desideravano restare soli con me per discutere di Legolas, ma io non glielo permisi. Mandai a monte tutti i loro tentativi di parlarmi di lui con cura maniacale, sebbene sentissi una fitta al cuore ogni qualvolta i loro bei volti elfici si contraevano in smorfie di dolore o frustrazione per la mia scontrosità.

Quello che mi stupiva di più era l’accanimento con cui continuavano a provare: sembrava sapessero qualcosa sul conto di Legolas e mio di cui dovevo assolutamente venire a conoscenza, ma io, caparbio, mi rifiutavo di ascoltarli.

Passammo settimane nelle regioni selvagge, e mai una volta fu pronunciato il nome di Legolas senza che io mi alzassi e mi allontanassi da loro con una scusa. I nostri rapporti, fino ad allora sereni, divennero dolorosamente tesi, e sebbene mi pentissi della mia condotta, ero troppo orgoglioso per ammetterlo.

 

Giunse il momento in cui smettemmo totalmente di parlare, se non per commentare le strategie con cui potevamo sorprendere gli orchetti, ed il tempo incombente.

Quando infine facemmo ritorno, Elladan sembrava bruciare di silenziosa furia, mentre Elrohir pareva preda di una dolorosa angoscia.

Ed ancora non li volli ascoltare.

Non volevo ascoltare nessuno. Non volevo consigli. Nessuno doveva intromettersi tra me e Legolas! Lasciare che qualcuno lo facesse significava ammettere che qualcosa tra noi era cambiato. E quel qualcosa, ne ero certo, era il suo affetto per me. Perché mentre io l’adoravo ancora come il primo giorno, lui mi scostava, melanconico e spaurito! Mi odiava, ne ero certo, mi odiava! Oh, come mi feriva, quella terribile certezza, ma non vi era altra spiegazione al suo comportamento!

Avrei dovuto parlare coi gemelli, o con mia madre, o con sire Elrond; chiedere loro consiglio.

Di sicuro, avrei dovuto parlare con Legolas.

Ma a che scopo? Per sentirmi dire ciò che più temevo? Cioè che colui che adoravo mi odiava? No, grazie. Lasciatemi solo coi miei cupi pensieri e il mio dolore, ecco ciò che pensavo. Mi accontentavo di rigirarmi nel mio dubbio, senza fare nulla di concreto per dissiparlo. Forse speravo che se Legolas ancora teneva a me, vedermi triste lo avrebbe spinto a parlarmi. Eppure, anche quando si avvicinava, lo scacciavo, temendo di essere ferito più a fondo.

Come siamo strani noi esseri umani. Non c’è niente di più straordinariamente potente o incostante delle nostre passioni. Lo amavo, e lo ferivo; temevo mi odiasse, lo volevo vicino, e lo rifuggivo.

 

Quando, di ritorno dalla mia missione con i gemelli, Sire Elrond mi mandò a chiamare, carezzai brevemente l’idea di disobbedirgli, poiché ero certo che anche lui volesse parlarmi di Legolas. Ma accantonai quell’idea con una scrollata di spalle. Come potevo essere così irrispettoso nei suoi confronti, quand’egli non mi aveva fatto altro che bene? Se voleva parlarmi di Legolas avrei abbassato il capo e assecondato il suo volere.

Mi presentai così nel suo studio preferito, quello dove riponeva i frammenti di un’antica spada su cui avevo posato gli occhi non più di una o due volte, in passato. E ciò che mi disse –lungi dal concernere Legolas e me- mi lasciò sgomento e felice al tempo stesso.

Mi furono consegnati i beni ereditari della mia casata, ed in un sussurro mistico mi fu rivelato che io ero realmente un Piccolo Principe – Principe di Gondor, suo futuro Re se così il fato avesse voluto, ed erede di Isildur.

Mi dispiacque sapere che un tale fardello pesava sulla mia testa, ed una parte di me si fece scura e pensosa. Oh, ma l’altra metà di me urlava, traboccava, cantava e piangeva di gioia!

Io, io, ero un Principe?

Ma allora, ero come Legolas! Ero suo pari! Entrambi adulti, entrambi di sangue reale! Finalmente eravamo uguali, finalmente eravamo uniti, finalmente potevo farlo davvero mio!

Mi accorsi all’improvviso della natura dei miei pensieri; disorientato e sorpreso, mi allontanai di un passo strisciante da Sire Elrond. Lui mal comprese la mia reazione, e attribuendola al rimprovero per le azioni di Isildur, cominciò a raccontarmi di lui e dei suoi meriti, e la cadenza dolce e sognante che usava per parlare di quell’antico Re mi disse molto più di quanto fecero le sue parole.

Annuii, credo; non ricordo. Forse balbettai qualche parola a proposito di non provare alcuna vergogna nell’essere l’Erede di quell’Uomo. Di sicuro, quando mi congedai da Sire Elrond e mi allontanai verso la protezione delle mie stanze, lo feci su gambe tremanti.

Ero scosso, si. Ma più dalla natura e dalla forza dei miei pensieri vorticanti, che dalla verità sul mio lignaggio. Era come se tutto il mio essere, tutti i miei sentimenti e le mie idee, vorticassero freneticamente, come schegge di luce in un caleidoscopio impazzito, ed implodessero ed esplodessero con boati e toni che mi scuotevano fin nel profondo dell’anima, lasciandomi tremebondo. Come se l’unico punto fermo in quella fantasmagoria di sensazioni –e punto attorno a cui essere rivoltavano- fosse Legolas.

Legolas, ed il mio amore per lui.

Fui sbigottito da quei sentimenti improvvisi e dirompenti, ma fu una reazione apparente, perché in profondità mi erano familiari, e li avevo sempre conosciuti, essendo stati con me da una vita.

Ah, ma quale Uomo è più vulnerabile, più pazzo, di quello innamorato? Mi sentivo indegno di Legolas; credevo che essere il futuro Re degli Uomini non fosse una posizione sufficiente per poter aspirare al suo amore. La verità è che non mi credevo nemmeno degno del suo più distratto sguardo! E nel profondo del mio cuore bruciava ancora la convinzione che lui mi odiasse.

Come mi tormentavo! Allora mi chiusi ancor di più in me stesso. Giurai che non avrei rivelato a Legolas il mio amore finché non fossi stato un degno pretendente; ma come diventarlo? Potevo provare il mio valore sul campo di battaglia, ma sarebbe servito? Compresi infine che, se l’Erede al trono di Gondor non era abbastanza per lui, forse il Re di Gondor lo sarebbe stato. Ma io, che non volevo diventare quel Re, sarei riuscito a sopportare il fardello del comando per lui?

Pensai e pensai, senza raggiungere decisione alcuna. Povero, piccolo pazzo! Per rimuginare su quei pensieri inconcludenti rimasi chiuso nelle mie stanze, invisibile a tutti e sordo a chiunque pronunciasse il nome di Legolas. Quanto tempo passai così? Non saprei giudicare. Ore, sicuramente. Giorni. Forse una settimana, oppure nemmeno quella. Fatto sta che, quando uscii dalla mia solitudine, ero più scosso e confuso di quando non mi ci fossi rinchiuso. Una cosa sola sapevo: volevo vedere Legolas.

No - ne avevo bisogno.

Vagai in cerca di lui per gli interminabili corridoi della Casa di Elrond, setacciai i poggi erbosi e le pareti di roccia che la circondavano, battei le foreste e chiesi aiuto a chiunque incrociasse la mia strada, ma invano. C’era un angoscia montante dentro di me che non sapevo spiegare, e voci frenetiche mi urlavano nella testa che era tardi.

Troppo tardi.

Quando giunse il buio cominciai a urlare il suo nome come un uomo in preda al delirio. Ero come cieco; correvo, ignaro di dove andassi. Sentivo i rami bassi e contorti degli alberi afferrarmi le vesti, strapparmi la pelle, cercando invano di trattenermi. Sembravo pazzo, e nemmeno la pioggia scosciante riuscì a fermarmi. Scivolai più di una volta nel fango, sforzai tanto la mia gola da sentire il sapore ferroso del sangue permearmi la bocca, mi ricoprii viso e braccia di tagli e abrasioni, eppure ancora correvo, urlando il suo nome.

 

Tutto era silenzio, ogni luce spenta, ed una malefica falce di luna ghignava su di me e le mie disgrazie quando, bagnato come un pulcino, contuso e stremato, bussai alla porta dei gemelli.

Fu Elrohir ad aprirmi, ed il suo sguardo di compassione fu quasi troppo per me. Non piansi (non vi è mai stato nessuno, oltre Legolas, di cui mi fidassi abbastanza per mostrargli le mie lacrime), ma mi feci piccolo e lasciai che Elrohir mi conducesse dinanzi al camino scoppiettante. Mi fece sedere su una seggiola di legno e allungare le gambe verso il calore lenitivo delle fiamme. Battevo i denti, tremavo, avevo le labbra livide e la mia pelle era gelata al tatto; eppure, non me ne ero reso conto. Con un telo preso dalle pietre calde del camino, Elrohir mi asciugò membra e capelli, quasi fossi stato un cucciolo disperso, mentre mi sussurrava dolcemente nell’orecchio che tutto andava bene.

Gli avrei quasi creduto, se non fosse stato per gli occhi di Elladan, che mi sentivo addosso, brucianti di una furia quasi pari alla mia disperazione. Balbettai qualcosa, una domanda stentata su dove fosse lui. Il sorriso di Elrohir si fece improvvisamente mesto, ed i suoi occhi si velarono.

“Ah, ora cerchi il nostro aiuto? Ora sei pronto ad ascoltarci?” sbottò Elladan. Stava seduto in un angolo buio, a braccia conserte, e la sua pelle chiara lo faceva sembrare un spettro nel chiarore argentazzurro della notte. “Ora hai imparato ad inghiottire il tuo stupido orgoglio? Ora che è troppo tardi?”

“Elladan,” replicò il fratello. E vi avrebbe stupito sentire quanto fosse tenera la voce di Elrohir. Era soffusa d’affetto più che d’ira o rimprovero, e le fattezze del suo gemello si addolcirono di colpo, come per magia.

“Non è troppo tardi,” aggiunse. Per tutta risposta Elladan scattò in piedi, ed iniziò a misurare il pavimento con lunghe falcate, come un fiera rinchiusa in gabbia. Sembrava esasperato, e preda di un angoscia difficile da spiegare. Io potei solo seguirlo con gli occhi.

“No? Come puoi dirlo?! La nave per Valinor è già partita! Legolas é perduto per sempre!”

 

Come spiegare cosa provai a quelle parole? Un urlo crebbe dentro di me, un urlo selvaggio che sommergeva ogni altro istinto. Trattenevo dentro di me il nome di Legolas, in bilico sull’orlo di una rabbia impotente che non sarei stato capace di controllare. Sapevo che se avessi dato sfogo alla tempesta dei miei sentimenti essa mi avrebbe annientato, così mi nascosi il viso tra le mani, stingendo i denti, e singhiozzando a vuoto.

La mia angoscia era terribile a vedersi. Lo so perché persino Elladan, così furioso fino a pochi istanti prima, venne al mio fianco, e prendendomi tra le braccia mi sussurrò le sue scuse.

Elladan che si scusava! Oh, Valar! Avrei riso, piacevolmente sbigottito, in una qualsiasi altra occasione. Ma rimasi in silenzio, cullato dal mio fratello più grande mentre l’altro mi spiegava in un sussurro la verità sul destino di Legolas.

Quando, quasi quindici anni prima, Re Thranduil aveva concesso a Legolas di divenire mio tutore, aveva posto una condizione sulla durata della sua permanenza nella Casa di Elrond. Già a lungo era stata rimandata la partenza del suo figlio prediletto ed erede, ma fu decretato dal Re che il primo di marzo dell’anno 2951 –fatalmente, il giorno del mio ventesimo compleanno- Legolas avrebbe lasciato Granburrone per unirsi all’ultimo dei suoi cugini in un viaggio che li avrebbe portati ai Rifugi Oscuri, e da lì a Valinor, il Reame Beato da cui non vi è speranza di ritorno.

Io lo sapevo! Per caso o per fortuna avevo origliato Legolas confessare a Sire Elrond della sua partenza, e tra le lacrime cocenti avevo sibilato a denti serrati quella promessa sciocca e infantile di fermare il tempo!

Lo sapevo… ma guidato dalla mia smania di divenire adulto, e così degno dello sguardo amorevole di Legolas, l’avevo dimenticato.

“Ma non c’era nulla… nulla che potesse farlo restare contro il volere di suo padre?” mormorai in preda all’angoscia.

“Si, qualcosa c’era.” Mormorò Elrohir.

“L’amore,” disse Elladan, prevenendo la mia domanda. “Se si fosse innamorato, riamato, di qualcuno, avrebbe potuto implorare suo padre di lasciarlo qui. E persino Thranduil avrebbe dovuto inchinarsi ad una simile preghiera, perché quale Elfo negherebbe mai l’amore ad un suo simile?”

“Ma nessuno--” Elrohir fissò gli occhi nei miei, “--nessuno ha mai dato a Legolas motivo di credersi amato; nevvero fratello?”

Rimasi senza parole.

Li ascoltai parlare, spiegarmi cosa era successo, cosa sapevano, e il perché avevano agito come avevano fatto.

Sembra che i miei fratelli avessero intuito la verità dei miei sentimenti prima di me, e consci della promessa fatta da Legolas a suo padre, avevano tentato di farmi aprire gli occhi. Il viaggio nelle regione selvagge era una scusa per rivelarmi la verità: e cioè che Legolas mi amava, e che se si distanziava da me era solo per paura che il suo amore potesse arrecarmi danno.

Come in un perverso labirinto di specchi, i suoi pensieri erano uguali ai miei, e così i sentimenti: Legolas si struggeva, perché mentre io ero il futuro Re degli Uomini, lui era solo un semplice Principe Elfico. Come poteva aspirare al mio amore? E poi, il mio comportamento era così cambiato nei suoi confronti! Dal fagotto di inesauribile energia e amore per lui che ero stato nella mia fanciullezza, mi ero trasformato in un adolescente schivo e pensoso, che lo trattava con la freddezza di uno sconosciuto, o peggio! di un nemico.

Per colpa della mia indole orgogliosa e testarda, avevo condotto Legolas a credere di non contare più nulla per me. E così, temendo che il suo amore sarebbe stato per me un fardello insopportabile e per lui un dolore mortale, Legolas l’aveva portato via, in un luogo per me irraggiungibile.

 

Elladan e Elrohir parlarono e parlarono, fin quando le stelle cominciarono a svanire in cielo e l’alba a stemperare il buio della notte col suo fulgore umido. Mi riferirono piccolezze che resero tremendamente vere le loro parole; quei dettagli segreti e malinconicamente dolci che avevano svelato loro, nel corso degli anni, l’amore che io nutrivo per Legolas e lui per me.

Ma io li ascoltavo come se in realtà loro non fossero là, ed io non fosse nemmeno sveglio, né vivo, né reale. Ero perso in un mondo tutto mio, dove le loro parole potevano si penetrare, ma solo come dolci suoni musicali e tristemente malinconici, di cui non capivo il senso.

Come potevo credere che Legolas mi amasse, come invece insistevano a dire i miei fratelli? Come potevo credere loro quando mi dicevano che la distanza che si era creata tra noi era frutto dell’attrazione reciproca? Possibile che il timore di essere respinti, di rovinare quel legame speciale che ci univa - possibile che solo questo e nient’altro, ci avesse separato?

L’amore, che separa due innamorati, per sempre.

No, impossibile! Non potevo crederci! Assolutamente!

Perché se Legolas mi amava come io lo amavo, allora era solo colpa mia se adesso ero solo! Era colpa mia se Legolas si trovava in viaggio verso la terra del non ritorno, con nessuna certezza in cuore se non che io lo odiassi! Era colpa mia. Solo colpa mia.

Perché mai venivo punito in quel modo?

Non avevo forse sempre agito nel giusto? Non avevo cercato con un ardore che rasentava l’ossessione di diventare un Uomo buono e degno - degno di Legolas?

Era possibile, mi chiesi, essere punito dal fato proprio per essersi dedicato al sogno comune a tutte le creature: quello di essere degni d’amore?

L’urlo che avevo tenuto a freno fino a quell’istante esplose dalla mia gola, ed io inveii lungamente ed ingiustamente contro i miei fratelli, accusandoli che fosse loro la colpa se Legolas se ne era andato.

Se non fossi partito con voi!” Gli urlai contro, “Sarei stato qui, e l’avrei fermato! L’avrei fermato!” Ma dentro di me sapevo che non sarebbe andata così.

 

Seguitai in quel modo per ore, e quando infine mi calmai Elladan e Elrohir accettarono le mie scuse, sperando che lo sfogarsi con (e su) di loro avesse attenuato almeno in parte il mio dolore. Ma niente avrebbe potuto mai lenire il senso di perdita che provavo: ero vuoto, senza Legolas.

E sapevo che lo sarei stato per sempre.»

 

Aragorn esitò un momento. Un osservatore attento avrebbe potuto vedere nei suoi occhi il fulgore umido di lacrime trattenute. Il suo sguardo era fisso sul cielo che andava schiarendosi, ma era come esso fosse solo un velo, ed Aragorn stesse guardandovi attraverso e nelle profondità in conoscibili del Tempo ad un’altra alba, similmente accattivante, in cui la sua vita era cambiata per sempre.

“È… finita così?” mormorò Sam, ed in un eccesso di timidezza arrossì. Lo sguardo di Aragorn si schiarì, focalizzandosi di nuovo sul presente.

“Si, e no.” Mormorò, accennandogli un sorriso. “Al mattino scoprii che solo tre giorni erano passati dalla partenza di Legolas. Così, senza riflettere, balzai in sella ad un cavallo, e cavalcai per giorni e giorni, tra valli e foreste, fino ai Rifugi Oscuri. Ma fu solo per vedere la sua nave candida stagliarsi per un momento sulla linea offuscata dell’Orizzonte e poi sparire. Elladan e Elrohir erano lì con me, sebbene non mi fossi accorto della loro presenza, e se non fosse stato per loro avrei cercato di raggiungere Valinor a nuoto, tant’ero disperato! Devo loro la vita, credo - e se li avessi ascoltati, adesso dovrei loro anche la mia felicità.”

Aragorn si rabbuiò e tacque. Sam abbassò la testa, mesto e imbarazzato. Gli bruciavano gli occhi, e non si vergognava ad ammetterlo. Oh, no! Chi non si sarebbe commosso davanti a tanta sfortuna?

Il silenzio aleggiò su di loro per un lungo momento, finché,

“No, no, no!” urlò Pipino, imbronciato e gesticolante. “Qui è tutto sbagliato! Si vede che voi Uomini non ne sapete un granché del raccontare storie.”

“Sbagliato?” chiese Aragorn, con un sorriso per metà divertito e per metà offeso. “E in che modo?”

“Ma nel finale!” fece Merry. “Voi Uomini non lo sapete? Ogni storia che si rispetti ha un finale allegro.”

“Ogni!” annuì Pipino.

“Soprattutto le storie d’amore!” Continuò Merry, e: “Soprattutto quelle!” convenne Pipino, annuendo. Aragorn rise, ma la sua era una risata priva di gioia.

“Avete ragione. Ogni storia d’amore dovrebbe avere il suo lieto fine, ma non la mia. Mi dispiace, ma l’unico finale di questa storia è quello che vi ho raccontato, e non ne ho altri.” Chiuse gli occhi; emise un sospiro da cui trasparì una spossatezza senza pari. Si girò, e alzando le palpebre a metà fissò le ceneri del fuoco. Era un paesaggio grigio e desolato quello che si presentò ai suoi occhi, ma sotto di esso covavano, calde e sorprendentemente lucenti, le braci ardenti. Vide se stesso in quelle ceneri, e non riuscii a dire altro.

“Io…” tentò Sam, all’apice della sua timidezza. “Io credo che… lo rivedrai un giorno. Basta sperare.” L’angolo della bocca di Aragorn si curvò in un sorriso impercettibile mentre scuoteva la testa.

“Ho aspettato per quasi settant’anni, Samvise. E non l’ho mai più visto.”

“Ma tu… l’ami ancora?” Aragorn lo fissò negli occhi, ed il suo sguardo sembrava pura fiamma.

“Come il primo giorno.”

“Allora lo rivedrai.” Fece Sam, tutto convinto.

Per un momento, nessuno disse niente, poi Aragorn scosse la testa, ed indicando il cielo disse:

“Forse dovreste riposarvi un po’, amici. È giorno fatto ormai, e chi sa cosa ci porterà questa nuova alba.”

“Già-già, dovremmo proprio,” convenne Pipino, alzandosi in piedi. “Chi mi accompagna a fare un spuntino prima di andare a letto?”

La stanza si svuotò di tutti gli Hobbit che conteneva in un baleno. Genuinamente divertito, Aragorn rise, ma presto la sua voce si spense in un sospiro. Ricordare Legolas, parlare del suo dolore con qualcuno, lo avevano spossato, fisicamente ed emozionalmente. Si ritirò a testa bassa verso le sue stanze, ma i suoi passi lo condussero in un corridoio alto e augusto, traboccante delle ombre azzurrognole del mattino dove, su una statua recante le fattezze di sua madre, stava adagiata la spada dei suoi antenati.

“Ah, quanto ho bisogno del tuo consiglio, adesso,” mormorò, tracciando con la punta delle dita la pallida gota fredda della statua. Fu solo un gioco delle ombre che danzavano su quelle labbra immobili, ma per un momento gli sembrò che ella sorridesse, ed il suo cuore sorrise con lei.

Attentamente tirò a sé i frammenti di Narsil, contemplando i bagliori riflessi che scaturivano dalla lama, come se arcobaleni interi fossero stati rinchiusi in essa dalla fiamma del suo forgiatore. Tracciò il filo della lama con un dito, guardando trasognato una goccia di sangue rigare l’argento della spada come un’offerta.

Aldilà di grandi archi, nei giardini tenebrosi, la nebbie si stava alzando in volute leggere ed intricate. Tra le nubi candide e lucenti e gli edifici scintillanti di bianco, si riversava un fiotto di luce colore dell’oro, una luce copiosa e chiara che rasserenava il cuore e faceva sembrare ogni sogno assolutamente puro e realizzabile.

Aragorn chiuse gli occhi e si concentrò sullo sforzo di non tremare; erano molti i desideri che si rincorrevano nella sua mente, ma tutti erano centrati su un’unica figura.

Legolas.

Credeva di essere riuscito, dopo tanti anni, a rassegnarsi. Ad accettare il paradosso che una decisione poteva essere coscienziosa ed allo stesso tempo ingiusta (perché formulata nell’ignoranza dei sentimenti altrui); e che si poteva fare il male più grande, nel perpetrare ciò che crediamo essere il bene. Credeva di essere riuscito a mettere in atto le lezioni di Legolas, scegliendo il suo destino –o meglio, accettando su di sé il destino da cui era stato scelto- senza mai guardarsi indietro.

Ma non si sentiva affatto grande.

Anzi.

Sopraffatto, desiderò, desiderò con tutto se stesso, che Legolas fosse là.

Ho bisogno di te, lirimaer, melethron-ne, aniron nin, mio Legolas…

Improvvisamente, dalla nebbia uscì, camminando lungo il letto del ruscello scintillante tra le pietre, una visione che Aragorn ben conosceva. L’Uomo trasalì, chiedendosi se fosse incappato in un sogno, o se dopo tanti anni fosse semplicemente impazzito.

Un’ondata di emozione lo sopraffece, gonfiandogli il cuore in petto, privandolo della voce, portandolo all’apice della gioia come un onda che s’alza, solitaria, sul mare tranquillo. Non si rese conto di aver abbandonato la spada tra le braccia della statua e di essere corso nel giardino sottostante finché non si trovò a due passi dall’Elfo, col petto ansante, gli occhi sgranati e la bocca come inaridita.

“Legolas…” mormorò, ansimante, e con muto stupore guardò quella visione socchiudere gli occhi e sorridergli.

“Estel…” rispose Legolas col suo tono morbido e accattivante. Né la voce, né il suo viso, né altro di lui era cambiato. I suoi occhi rivaleggiavano ancora con le acque più profonde, ed ancora i suoi capelli alzati dalla brezza rilucevano come se fossero di oro filato - esattamente come facevano ogni notte nei sogni di Aragorn, da una vita.

“Sei cresciuto,” osservò con una punta di nostalgia. “Ho sentito tanto parlare di te e delle tue eroiche gesta, e trovarti qui ora-” sospirò “-è una sorpresa gradita e insperata.” Eppure, per un attimo, Aragorn credette di vedere un lampo umido riflettersi nei suoi occhi, fra le lunghe ciglia abbassate. Per un lungo momento i due si guardarono, senza proferir parola. Poi Aragorn riuscì a scuotersi dal suo torpore. Parlò, ma lo fece  con un tono più duro di quanto lui stesso avrebbe voluto, poiché Legolas si voltò e si chiuse nelle spalle.

“Hai sentito parlare di me?” disse l’Uomo. “Avevo sentito… mi era stato riferito… ti ho visto lasciare la Terra di Mezzo per Valinor, decenni or sono! Come puoi aver sentito parlare di me?” sbottò, scuotendo la testa. “Com’è possibile? Tu non puoi essere qui. È un sogno? Un’altra punizione dei Valar, forse?”

“Ah, Estel,” fece Legolas, meditabondo, ferito, malinconico. Il suo sguardo si perse nelle ombre cangianti del mattino mentre mormorava: “Non ho potuto lasciare questi lidi, non ancora. Forse mai potrò: troppo forte è la catena che mi lega a queste Terre! Nulla mai potrà spezzarla, né io potrei desiderare il contrario.” Scosse la testa, ed i suoi occhi cercarono di nuovo la figura di Aragorn. Forzò un sorriso. “Ho sì accompagnato la mia incantevole cugina Laurëloth fino ai Porti, ma da lì ho diretto i miei passi verso casa. Mai avevo lasciato quel giardino di solitudine prima di oggi; né l’avrei fatto, se non ci trovassimo in una situazione di così grave pericolo.”

“Bosco Atro!” gemette Aragorn, coprendosi la bocca con la mano. L’unico luogo su tutta la Terra di Mezzo che aveva evitato, per timore di trovarvi un pallido spettro del suo amore, era proprio quello che custodiva in seno il suo amato! Strinse gli occhi, soffocando di nuovo quell’antico urlo, quell’antica rabbia impotente.

Sciocco, sciocco! Di nuovo hai plasmato il tuo dolore ed il suo con le tue stesse mani!

Guidato da un impulso antico, e troppo forte per poter essere fermato, vedendo Aragorn disperarsi Legolas scivolò al suo fianco, e con dita fresche e gentili gli sfiorò la guancia.

“Oh, mio Piccolo Principe. Cosa c’è che ti tortura così?” mormorò.

“Tu,” rispose Aragorn, catturando la mano dell’Elfo con la sua, e premendosela contro il volto. L’altro braccio scivolò intorno alla vita di Legolas, e lo strinse. L’Elfo tremò; impercettibilmente, ma Aragorn sentì quel corpo a lungo sognato sciogliersi contro il suo. “Tu, che non sei mio.”

La scena era troppo familiare, l’intensità degli occhi di Aragorn troppo forte, ed il suo calore gli era mancato troppo, perché Legolas potesse rispondere in altro modo che questo:

“Ma lo sono. E basterebbe una tua parola, perché lo fossi in tutto e per tutto.” Aragorn rise, una risata arrochita dal tempo e dal dolore, ma una risata che gli fece brillare gli occhi.

“Una mia parola? Allora, la urlerò questa parola, mio Legolas, farò di essa un poema, una canzone, e l’affiderò al vento perché tutti possano udirla!” rise, stringendosi l’Elfo –piacevolmente sorpreso e stupito- al petto; avvicinando i loro visi fino a sfiorare quella pelle di luna col respiro, mormorò: “Se c’è qualcosa che ho desiderato in questa vita, Legolas, qualcosa che ho cercato per tutti gli anni della mia maturità, quello sei tu.”

“Estel…”

C’era un espressione negli occhi di Legolas che lo toccò profondamente, e le sue labbra tremarono percettibilmente quando Aragorn si avvicinò per sigillarle con le sue. Fu un bacio, il loro, che rispecchiava tutto il desiderio degli anni passati in solitudine, tutta la tenerezza e tutta la passione di cui era composto il loro sentimento.

 

In tutta onestà, cos’altro poteva chiedere Aragorn ai Valar?

“Piccolo Principe”, Legolas l’aveva chiamato. E dentro di sé, Aragorn sapeva di non essere nient’altro che quello, un principe solitario, in erba, sperduto lungo la via; ma stringendo Legolas a sé, beandosi nel suo calore, sorbendo la dolcezza delle sue labbra, per la prima volta Aragorn si sentì veramente un Re.

 

- Fin

 

Oh, oh oh! Che finale sdolcinato! Ma che ci posso fare? Una fic zuccherosa è la migliore cura per la depressione, e vi assicuro che la mia è proprio sparita!!! ^___^ Mi è piaciuto molto scrivere questa fic, (anche perché la coppia Estel/Legolas mi ha sempre affascinato… è così dolce! Non trovate?), e spero che a voi sia piaciuto altrettanto leggerla. ^_^ Oh, lo so che sono riuscita a infilare *di nuovo* l’elemento del “regalo” in una mia fic, ma vi assicuro che non era intenzionale! Mi è scappata! Eh-eh… direi che era più una reminiscenza Frankenstein-iana che altro. Spero che non vi sia dispiaciuta! ;-)