.|. Cronache di una Vendetta .|.

2. Per Rancore

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Orlando guardò un’ultima volta il compagno, il suo volto pacificamente addormentato, con quell’aria crucciata che assumeva sempre durante il sonno, ed i capelli incollati alla fronte. Soffocò l’istinto di avvicinarsi a scostarli, preferendo accostare la porta, per poi incamminarsi lungo le deserte strade londinesi.

Delle campane iniziarono a suonare, gravi e macabre nel rispettoso silenzio. Alzò gli occhi. Eccolo là, il Big Beng, che incombeva su di lui, una lancia scura che trafiggeva la notte, osservandola, spiando ogni movimento della città. E di cose doveva averne viste, doveva vederne tuttora, scrutando le nebbie ai bordi del fiume, fra le quali si annidavano i poveracci, fra le quali andavano a morire i senza casa. Di cose doveva vederne, mentre osservava dall’alto le fabbriche scure e caotiche che sorgevano ormai in ogni dove, mentre contava le file di figure curve ed indistinte che ne varcavano i cancelli, ogni giorno, avvolte nei loro stracci.

Orlando stesso aveva visto tutto questo, una fredda mattina di diversi anni prima, quando si era rifugiato lassù, in cerca di un posto dove dormire… o, forse, in cerca di un modo per sfuggire al brulicare delle strade, nel quale si sentiva irrimediabilmente invischiato… e aveva visto. Aveva visto sorgere un sole grigio, soffocato dai fumi nerastri delle ciminiere, illuminando appena la città ancora gelida, rischiarando i passi alle centinaia di disperati che strisciavano fuori dalle Case dei Poveri, disseminate nei bassifondi lungo le rive del Tamigi, verso i luoghi dove avrebbero lavorato fino a morirvi. E aveva tremato, proprio come avrebbe dovuto tremare l’orologio ogni singola volta che gli si presentava quello spettacolo, ricordando come, ancora bambino, era per istinto fuggito agli ufficiali che volevano condurvelo, salvandosi senza saperlo da una lunga e decadente agonia…

Scosse la testa, allontanando i pensieri nefasti che andavano affollandosi nella sua mente. Senza far rumore, fece scivolare una mano fino alla cintura, impugnando saldamente il pugnale che vi era assicurato, esattamente lì donde doveva essere. Una sicurezza, l’unica sicurezza che lo accompagnava in quelle notti, nelle quali era solo… completamente, disperatamente solo, per quanto Boris potesse stargli vicino, per quanti attimi di libertà potesse concedergli... lui era e sarebbe rimasto solo. Solo nella sua gabbia, nella sua frenetica, insaziabile ricerca.

La sua mano abbandonò il coltello, per frugare nella scollatura della camicia, stringendosi intorno al ciondolo che vi stava al sicuro. Lo sfregò con le dita, percorrendone i contorni ovoidali, sentendo l’argento liscio e freddo trasmettergli un inspiegabile tepore, una debole aura luminosa, che eppure sembrava il più robusto degli scudi, capace di proteggerlo da chiunque e da qualunque cosa.

No, non era solo, ammise a sé stesso. Perché con lui c’era Lillian. E lei non l’avrebbe lasciato, finché lui ne avesse conservato memoria. Era l’essenza di Lillian quella racchiusa nel medaglione, la sua luce, il suo amore, che continuavano a ripararlo dai pericoli, che l’avevano sempre sostenuto e consolato nei momenti bui della sua vita. Finché avesse continuato a custodirli, lì, vicino al suo corpo, era certo che nulla gli sarebbe accaduto…

Questi pensieri vennero ben presto fagocitati dalla sua mente come lasciò la presa sul monile, tornando lì donde erano venuti, e lui ripiombò nella tenebra, che penetrò dentro di lui con facilità, cancellando ogni pensiero razionale. Restava solo la consapevolezza di quanto doveva fare, ed un’inumana freddezza, mentre camminava per le strade, incomprensibile e feroce, in attesa di immolare un’altra vittima sul proprio altare.

Le lanterne dei lampioni ardevano debolmente, rendendo più forti i contrasti del suo viso, facendo sì che le sue fattezze apparissero rozze e sporgenti, selvatiche quanto quelle di un randagio, intrise da una debole luce d’una brutale scaltrezza… ma lui non se ne curava, né si curava dei lampioni, delle strade, mentre le sue facoltà si concentravano unicamente sul suo obiettivo; e quei lineamenti distorti si trovavano ad essere, per coincidenza, il perfetto ritratto della sua anima.

Scavalcare il muraglione di pietra, oltrepassare il giardino, trovare la porta di servizio e forzarne la serratura fu questione di secondi, che scalfirono appena la sua attenzione.

Deglutì, mentre sentiva i suoi sensi prepararsi come di consueto alla battaglia, stirandosi, vibrando, avviluppandosi strettamente nel suo petto per poi esplodere tutt’intorno, esplorando l’aria come invisibili sentinelle.

Era dentro. Tempo di aprire le danze.

 

 

Con cautela, Orlando salì le scale che conducevano al secondo piano. Niente servitori, niente governanti, niente guardie… almeno per il momento. Molière era sempre stato un imprudente. Tanto meglio. Scivolò rapidamente attraverso l’ampio corridoio, maledicendo l’oscurità quando inciampò in una sedia, afferrandola proprio prima che cadesse. Rimase immobile, il suo cuore che impazziva, mentre le mani gli vibravano con violenza. Shit, shit, shit! Niente distrazioni. Niente distrazioni, cazzo.

C’erano un sacco di porte in quel cazzo di corridoio. Ne scelse una a caso. La maniglia si abbassò senza difficoltà. Sbirciò all’interno. Pile di lenzuola. Il loro biancore, nel buio, richiamava vecchie immagini di ossa che giacevano sepolte, da qualche parte, in fondo ai suoi incubi. Fuck with it. Le ignorò. Si voltò, tentando un’altra entrata.

Aveva avuto fortuna. Una candela ardeva debolmente su un tavolo, vicino ad un grande letto. Bene. Si guardò intorno. Da un appendiabiti pendeva una cappa scarlatta, ricamata con ricercati ghirigori argentati. Si avvicinò, scostandone un lembo, in cerca dello stemma dei Moliére, senza trattenere un ghigno soddisfatto quando lo vide rilucere fiocamente nella scarsa illuminazione.

In un lampo fu a fianco del letto, poggiandovi un ginocchio e protendendosi verso l’ignaro dormiente. Estrasse il pugnale dalla cintura.

Voleva soltanto fare in fretta, finire in fretta, andarsene il prima possibile, nulla più. La tensione era troppa, ormai, non riusciva più a sopportarla. Voleva soltanto far presto. Levarsi anche quella incombenza, e poi andarsene, tornare finalmente da Boris, tornare a casa.

Tornare a casa… quel pensiero gli ridiede baldanza, ed Orlando strinse più forte la propria arma, chiamando alla mente immagini rilassanti di quanto lo stava aspettando, di ciò a cui sarebbe tornato appena… appena sbrigata quella faccenda.

Strinse i denti, e, dopo un ultimo respiro deciso, diede un violento scrollone alle spalle di Moliére, aprendo nel contempo la bocca per pronunciare la sua frase di rito…

In quel momento, uno schianto secco fratturò il silenzio della casa. I nervi troppo tesi di Orlando si spezzarono al rumore, si voltò con movimento repentino, gli occhi selvaggi che cercavano la  porta,  più che abbastanza perché l’uomo sotto di lui realizzasse e lanciasse un urlo agghiacciante. Con una bestemmia Orlando si avventò su di lui, affondandogli la lama del pugnale in gola fino all’impugnatura, il grido che si tramutava in un gorgoglio disperato. In preda alla rabbia più cieca, spinse giù il coltello con tutto il peso del corpo, insultandosi furiosamente, Jesus fuck, era un coglione, nient’altro che un maledetto coglione! Furibondo, spinse più forte. Il violento contorcersi di Molière andava scemando, e Orlando ruotò un ultima volta il manico che serrava fra le mani, avvitando il pugnale più strettamente nel collo dell’altro, sentendo una voce rimbombare lungo il corridoio, mentre qualcuno si precipitava su per le scale. In un lampo fu alla finestra, con un calcio sfondò il vetro, mentre la mano insanguinata cercava automaticamente il ciondolo che portava al collo. Non c’era.

Con un’imprecazione soffocata corse indietro fino al letto, rovesciando coperte e cuscini, frenetico di ritrovarlo. La voce era ora davanti alla porta, attutita dal legno spesso, la maniglia scattò inutilmente, grazie a Dio l’aveva chiusa a chiave. I suoi movimenti si fecero inconsulti, mentre freneticamente stracciava le lenzuola, senza trovar traccia del medaglione. Un colpo violento fece tremare la porta, mentre un altro urlo si levava al di fuori. Pazzo di rabbia, Orlando gettò a terra il cadavere caldo di Molière, rovistando nella chiazza di sangue sul pagliericcio, ma dove cazzo…

Lo stipite esplose in un mare di schegge, mentre i cardini ne venivano strappati, e l’uscio di quercia crollò a terra con uno schianto. Orlando sollevò la testa di scatto, i suoi muscoli che tremavano tanta era la tensione. Un unico pensiero gli deflagrò in testa.

S’era fatto beccare.

 

 

Alla seconda spallata la porta cedette, e Viggo fece irruzione nella stanza, guardandosi intorno come un cacciatore in cerca di preda. Eccolo là il bastardo, curvo sul letto, con ancora il coltello in mano. Si sentì vibrare di selvaggia bramosia, l’eccitazione della caccia che lo travolgeva, proprio come un tempo.

Tutto si fece silenzio, ad eccezione di due respiri che risuonavano nell’aria, affannati.

Viggo valutò rapidamente la situazione. L’unica uscita era la finestra, sulla destra, ma per arrivarci il ragazzo doveva superarlo. Non l’avrebbe lasciato…

Prima che potesse completare il pensiero, l’assassino si slanciò verso di lui, sguainando una spada. In un lampo, il commissario afferrò la propria, parando un colpo ad un soffio dal torace, e poi un altro, ed un altro ancora. Indietreggiò, sotto gli attacchi furibondi del ragazzo, che si susseguivano inarrestabili, senza lasciare al commissario il tempo di organizzarsi, di colpire a sua volta. Urtò qualcosa col tallone, barcollando, e l’avversario ne approfittò per sferrare una stoccata diretta alla sua gola. Viggo gettò il busto all’indietro, e la lama sferzò l’aria come una scudisciata, pochi centimetri sopra il suo petto. Con un colpo di reni scattò in avanti, prima che l’altro realizzasse d’averlo mancato, menando a due mani un fendente dall’alto verso la sua testa. Viggo scorse appena due occhi scuri lampeggiare mentre l’altro parava, la spada di traverso a pochi centimetri dal viso, e poi abbassava di colpo la lama, mirando al suo fianco. Il commissario parò. Facendo leva sul gomito rovesciò la spada dell’altro, le due lame cozzarono di nuovo, scintillando, fredde e letali.

“Arrenditi… assassino!” riuscì ad ansimare, mentre neutralizzava a malapena un affondo volto a sbudellarlo.

L’altro gli rise in faccia. Viggo avvampò con violenza, realizzando quanto doveva suonare ridicolo, e si scagliò in avanti. Le spade si incrociarono a mezz’aria e lì rimasero, vibranti, sospese in un mortale gioco di forze nel quale nessuno riusciva a prendere il sopravvento.

“Serba quel titolo per loro” gli sputò il ragazzo, la bocca dura come la sua spada. “Io riscuoto un debito.”

Un’amara ironia s’insinuò strisciando nei sensi di Viggo, mentre qualcosa dentro di lui si torceva in un dubbio non meglio definito… ma il ragazzo ricominciò con i suoi attacchi incalzanti, senza lasciargli il tempo di focalizzare, richiamandolo prepotentemente allo scontro. Viggo fece un mezzo giro su sé stesso, schivando l’ennesima stoccata, per poi tornare a affrontare l’altro con una mossa repentina, riuscendo a strisciare la propria lama contro il braccio del giovane. Questi si tirò indietro con un balzo, soffocando un ruggito di dolore, mentre dal taglio netto della manica si vedeva sbocciare una linea vermiglia. I due si fronteggiarono per pochi attimi, dopodiché il ragazzo si scagliò verso Viggo, la sua furia raddoppiata, come una belva ferita, determinato a giocarsi il tutto e per tutto.

Il commissario arretrò, mentre il calore che era affluito al suo viso si diffondeva rapidamente, scorrendo in ogni sua vena, raggiungendo ogni sua singola cellula. Vide un colpo arrivare, ma in quel momento le sue percezioni tremarono, le spade divennero due. Sbatté gli occhi, scartando brutalmente di lato, appena in tempo per evitare di essere trafitto. I suoi movimenti sembrarono rallentare, mentre tutto si faceva indistinto, sfumandosi nei toni del rosso e dell’arancione, fiamme che sembravano consumare la stanza… sollevò la testa, gli occhi spalancati, gli scompigliati riccioli neri che si sollevavano intorno al suo viso, lentamente, così lentamente… vide distintamente il ragazzo sollevare la spada, preparandosi a vibrare il colpo. I suoi occhi bruni tracciarono una scia di fuoco fin nella memoria di Viggo, che d’improvviso ebbe dinnanzi a sé un volto pallido, immerso nel caos, incorniciato da ricci scuri appena umidi… l’immagine svanì improvvisamente com’era comparsa, per venire rimpiazzata da una punta d’acciaio, immobile davanti alla sua gola.

Un silenzio irreale calò nella camera.

Viggo sollevò istintivamente la mano, ma si rese conto che, nel delirio, aveva perduto la spada… poi, la vide scintillare debolmente, per terra, ai piedi del ragazzo, dove era caduta quando questi gliel’aveva strappata di mano. Il commissario imprecò sottovoce, maledicendosi per aver ceduto alle seduzioni dell’oppio in un momento del genere.

Impotente, alzò gli occhi ad incrociare quelli dell’avversario.

Sconfitto.

Che equivaleva a morto.

“Ora me ne andrò” disse il ragazzo, con voce stranamente pacata, il respiro ansante che iniziava appena a rallentare.

Viggo lo squadrò con distaccata attenzione. Poteva permetterselo. Stava per morire, dopotutto.

Il suo torace abbronzato era lucido di sudore, così come la gola, dove il pomo d’Adamo si muoveva rapidamente. Il volto del giovane era seminascosto nell’ombra fredda, gli occhi lucenti occultati da ciocche scomposte che vi ricadevano disordinate. Il commissario non riusciva ad intuire l’espressione di quel volto da quel poco che ne vedeva, le labbra socchiuse, la rada barba che nascondeva il mento… per un momento gli parve addirittura di vedere il ragazzo sorridere, ma si convinse d’essersi ingannato...

Il brillio argentato davanti al suo collo tremò, avvicinandosi. Viggo deglutì, senza distogliere gli occhi da quelli dell’altro. Per anni si era chiesto come sarebbe stato morire. L’aveva immaginato, aveva vissuto le sue fantasie, perso nelle allucinazioni delle droghe, aveva creduto di esserlo davvero, a volte, durante i crepuscoli in cui la disperazione urlava dentro di lui, senza lasciargli respiro… ma, quando era uscito di casa, non pensava che l’avrebbe scoperto proprio quella notte.

La sua mente era vuota, un foglio bianco; attendeva, sospesa sull’orlo di un baratro dai colori assurdi, di scoprire cosa vi si nascondesse sul fondo. Attendeva di nascere, come se fino ad allora avesse regnato il nulla, impietrita, attendeva il colpo fatale che avrebbe sconvolto ogni cosa…

Il colpo non venne.

“Addio, uomo.”

Con quelle parole, l’assassino si voltò, inspiegabilmente, incamminandosi verso la finestra in frantumi.

Viggo rimase immobile, sconcertato, incapace di realizzare appieno che nulla era cambiato, che era ancora lì, nella stanza di Molière, ancora… ancora in vita. Abbassò gli occhi al suolo. La sua mente tremava, sottoposta a troppe sollecitazioni, che non riusciva ad assimilare. D’un tratto il suo braccio, abbandonato lungo il fianco, incontrò qualcosa di familiare, ed il salvifico meccanismo dell’istinto si attivò, rimpiazzando la ragione congestionata.

La sua voce si levò nell’aria immota, smorzata ed inumana. “Fermati.”

Il ragazzo non si fermò.

“Fermati. Ora.”

Nella stanza risuonò lo scatto di un cane che veniva armato. Gli occhi di Viggo, al di sopra del mirino in fondo al suo braccio teso, videro l’assassino fermarsi, per poi voltarsi con calma, protetto da una coltre ombrosa.

“Ecco qualcuno che non sa accettare una sconfitta,” lo schernì il ragazzo.

Viggo non replicò. Il dubbio che poco prima si era scavato una tana nel suo petto strisciò fuori, simile ad una grassa larva biancastra, prendendo facilmente il sopravvento sulle deboli vestigia di raziocinio che ancora gli rimanevano.

“Il motivo” pronunciò, in un soffio perfettamente udibile. “Qual è il motivo?”

Nessuna risposta. E, quando Viggo cercò gli occhi del giovane, tentando di strappargliene una, questi sembrarono aggredirlo, fissi e roventi com’erano, per poi chiudersi, a nascondere le loro verità più a fondo possibile.

Quando si riaprirono, il ragazzo fece un passo indietro, celando il viso nell’oscurità.

“Dimmelo!” Un ordine, una supplica, una domanda, una preghiera, una conferma, whatever

Un altro passo indietro, poi un altro. Poi, una risata secca, nervosa.

“Poliziotto. Ce l’hai scritto in faccia. E sai” sibilò il giovane “È per quelli come te che faccio questo. Almeno potete divertirvi, non è così che va?”

Viggo si rifiutò di dargli retta. “Dimmi perchè” insistette.

“Oh, impaziente. Hai preso l’assassino cattivo. Ma che bravo…”

“Per Dio, dimmi perché!!!” gridò il commissario, stringendo forte il calcio della pistola, la voce rauca. Sudava. Tremava. Voleva sapere, doveva sapere. Cos’era che non lo convinceva? Cos’era a bisbigliargli che c’era di più, che c’erano misteri sepolti sotto la sabbia..?

Il giovane rise di nuovo, e quel suono gutturale e forzato causò un brivido gelido lungo la schiena di Viggo. Poi gli diede le spalle, raggiungendo la finestra ed aprendola, con serafica calma.

“Ti… ti giuro che… sparo. Fermo dove sei.”

Il ragazzo scrollò le spalle, uscendo sullo stretto terrazzo. “Fa’ pure.”

L’aria fredda frustò il volto di Viggo, richiamando bruscamente la sua coscienza dal limbo dov’era rimasta invischiata. Con uno scatto bruciante si lanciò in avanti, mentre l’altro balzava agilmente sulla balaustra di pietra.

“Fermati!..”

A malapena il tempo per Viggo di gridare, ed il giovane si gettò nel nulla. Il commissario raggiunse il parapetto pochi istanti dopo, in tempo per vedere il ragazzo cadere, mulinando le braccia, per poi venire inghiottito dal fitto strato di buio che copriva il prato.

Inveendo contro sé stesso e la sua dappocaggine, fece fuoco più volte, a caso, mirando nel nulla sotto di lui, finché non fu evidente che l’altro si era dileguato, approfittando della vicina macchia di alberi.

Sbatté un pugno sull’arenaria grigia, furente.

Con mano tremante si scostò i capelli dal volto, sentendoli umidi ed appiccicosi per il sudore. La notte si avvolse intorno a lui, ghignante, amplificando la sua frustrazione.

“Merda” sussurrò, abbassando la testa, colpendo nuovamente la pietra con entrambi i pugni. “MERDA!”

 

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“Ha mandato a chiamare, seňor?”

L’uomo, di evidente origine spagnola, alzò gli occhi dal giornale che aveva srotolato sulla propria scrivania. “Sì, Juan.” Rimase in silenzio per un momento, concentrandosi. “Allora” riprese poi. “Riferisci.”

“Ho radunato i più capaci fra i suoi fedeli, seňor, e li ho sguinzagliati in cerca di indizi sull’uomo che vi sta arrecando fastidi. Ma la ricerca si è rivelata difficoltosa, in quanto…”

“Taglia corto, non è il momento di perdersi in preamboli” lo interruppe bruscamente l’altro. Si grattò nervosamente il mento, sfiorando la sua barba nera ben curata. “Madre de Dios. Avanti. Siedi qui e dimmi cosa avete realmente scoperto.”

“I suoi uomini hanno passato al setaccio tutte le taverne della città, seňor, tutti gli ostelli, le prigioni; hanno interrogato gli informatori, non uno dei servitori dei suoi amici è sfuggito alla loro ricerca…” Con un tremito malcelato, Juan si sedette dove gli era stato indicato, passandosi una mano fra i lunghi capelli corvini, scostandoli sul lato destro del viso, a coprire la lunga cicatrice che lo solcava, netta e sinuosa, dall’occhio alla mascella. “Abbiamo… abbiamo scoperto ben poco” ammise, dopo un attimo. “Nessuno sa nulla. Sembra che quel maledetto sia scaturito dalle viscere della terra. Non c’è nessuno che si comporti in modo strano, a quanto pare, e anche le nostre fonti alla polizia non hanno saputo dirci molto. In verità, io credo che…”

“Non m’interessa quello che credi tu!” gridò lo spagnolo, scattando in piedi. “Io voglio fatti! Voglio risultati, Juan, è per questo che vi tengo con me, tu e la tua ciurma di manigoldi!” Con gesto fulmineo, afferrò un tagliacarte dalla scrivania, brandendolo dritto davanti agli occhi dell’altro. “Un bastardo qualsiasi non può ammazzare due dei miei soci e passarla liscia: è vostro compito trovarlo. Ed io pretendo che lo troviate, sangre de toros!!” Mosse lentamente il tagliacarte, seguendo la linea della cicatrice di Juan. “Ricordati bene che sono io a comandare. E che i miei ordini vanno eseguiti senza esitare!”

Si chinò in avanti, poggiando la gelida lama sulla pelle dell’altro, abbassando la voce ad un intenso sibilo. “Nessuno è insostituibile, qui” gli ricordò con un ghigno. Poi, con uno scatto si tirò indietro, rigirandosi l’arma fra le mani, ed osservandola come si farebbe con un buon sigaro.

Juan deglutì, abbassando gli occhi fiammeggianti al suolo. Quanto avrebbe voluto ficcargliela nel cuore, quella lama. Ma doveva trattenersi; era il suo protettore, e questo gli aveva già fatto comodo più volte. Senza contare che non avrebbe vissuto a lungo, con un tale nemico; neanche abbastanza per uscire da quel palazzo.

Soffocò un ringhio. La sua indole era focosa per natura, e, se fosse stato nel suo territorio, a Madrid, avrebbe potuto far di tutto; ma, in quella città fredda ed ostile, era costretto ad affidarsi ad un potente, che gli coprisse le spalle. Con le sue capacità non era stato difficile assicurarsi l’appoggio di un compaesano, ed un compaesano intoccabile, per di più: ma gli toccava tacere e subire, sopportare tutti i suoi capricci.

“Juan, non trovi che i giardini siano splendidi in questa stagione?”

Juan bofonchiò qualcosa che poteva sembrare un ‘sì’. Cosa poteva esserci di stupendo nei giardini, se erano uguali al resto della città: nebbia, grigio, nebbia. Ma qualcosa nel tono dell’altro lo mise in guardia. Non era dei giardini che doveva preoccuparsi.

“Quanto mi mancano i colori di Madrid. Non è così anche per te, amico mio?” L’uomo si esibì in un sospiro teatrale. “Il sole, il calore, le fieste. Non come in questo… posto… grigio, opprimente… non lo senti? Non lo senti pesare su di te? Non senti il bisogno di fare qualcosa per tirartene fuori… qualunque cosa… non soffoca forse anche te?”

“Sì, seňor.”

“Bravo, Juan, bravo. Obbediente e giudizioso… è così che ti voglio.” Si voltò verso di lui, seguitando a trastullarsi con il tagliacarte, prima di aggiungere, con tono casuale: “Come sta tua sorella, Juan?”

Il ragazzo s’irrigidì, cercando di non lasciar trapelare il nervosismo che l’aveva assalito d’un tratto. Non riuscì a trattenersi dall’inveire contro di lui, seppur mentalmente. Hijo de puta! Ecco a cosa voleva arrivare. Erano mesi che quel figlio d’un cane rognoso aveva messo gli occhi addosso alla sua piccola Solead…

“Bene, seňor.”

Bene seňor un cazzo, si disse con ferocia. Aveva solo che da provare a toccarla, e avrebbe scoperto che sangue scorreva nelle vene di Juan de la Quiesta.

“Un giorno potresti invitarla qui, a palazzo. Puoi star certo che la tratteremmo con ogni riguardo.” S’interruppe per un istante, fissando il sottoposto negli occhi con uno sguardo innocente. “Me ne occuperei io. Personalmente.”

“Non credo sia una buona idea, seňor” riuscì a rispondere Juan, sussurrando fra i denti serrati. Faticava a respirare dalla rabbia. Doveva uscire di lì, o l’avrebbe ammazzato. Sarebbe stato così facile balzargli alla gola, l’avrebbe dilaniata con le sue stesse unghie, se soltanto ne avesse avuto l’occasione, era così semplice... ma non mosse un muscolo, invece. Li sentiva guizzare sotto la propria pelle, frementi, carichi come non mai. Si limitò a chinare il capo, facendo in modo che la sua liscia chioma corvina scendesse a nascondergli il volto, sfiorandogli le spalle.

“No? Beh, non importa. Ora va’, va’ pure, mio fidato.” L’uomo si sedette con tranquillità alla scrivania, sollevando il tagliacarte davanti al viso e puntandolo in avanti, in un atteggiamento che sarebbe potuto apparire scherzoso. Ma quando parlò, il suo tono conteneva una minaccia profonda, inequivocabile. “Bada di non deludermi, Juan.”

“Non lo farò, seňor DeMerra.”

Con un rigido inchino, Juan lasciò in fretta la stanza.

 

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“Ahi… fa’ piano… ah... aspetta, aspe… maporcaputtana Boris, fa’ piano, cazzo!!!”

“Fermo e zitto, Orlando!!”

Boris premette di nuovo il canovaccio imbevuto di whisky sulla ferita di Orlando, mentre questi mordeva un lembo della propria camicia, le membra sudate che tremavano per il dolore.

Allontanò le mani, immergendo lo straccio in un catino di ceramica poggiato sul tavolo, per poi strizzarlo. Orlando gemette, voltando la testa per guardare il taglio, le sopracciglia aggrottate.

“Mi ha fatto meno male quando me l’ha procurato, dannazione!” protestò.

Boris non si lasciò intenerire, strattonandolo per l’avambraccio. Gli tenne fermo il gomito con una mano, mentre con l’altra preparava il panno.

“La colpa è la tua. Ti sei fatto beccare come un pollo. Io ti avevo avvisato.”

“Colpa mia una accidente… e ti prego, risparmiami i ‘te l’avevo det… AHU! Brucia, maledizione!!” s’interruppe, serrando gli occhi per resistere al bruciore, i pugni che si stringevano spasmodicamente, finché l’altro non allontanò nuovamente la stoffa. “Non doveva andare così…”

Boris lo ignorò, chinandosi ad esaminare la ferita pulita. Un taglio netto, di circa quindici centimetri, proprio sotto la spalla sinistra di Orlando. Non era particolarmente profondo, per fortuna…

“Ora tu te ne rimani qui, in casa. Ti ha visto in faccia, Orlando… ti ha visto in faccia, quel… ecco, appunto… sei almeno riuscito a capire chi era?”

“Un poliziotto, ne sono sicuro. Si sente la loro puzza lontano un miglio…” non riuscì a soffocare un ghigno di fronte all’espressione quasi offesa dell’amico. “Tu ovviamente sei l’eccezione, Boris!”

Boris ghignò di rimando, appioppandogli un sonoro scappellotto sulla testa. “Ma lascia perdere… piuttosto… com’era? Cos’ha detto?”

“Alto…. Ben fatto, muscoloso… capelli scuri, ricchi, credo… piuttosto lunghi… e due occhi che… Dio” rabbrividì “Tremo al solo ricordo… glaciali, furibondi, come un oceano in tempesta… come se dovessero trapassare, comprendere, catturare tutto ciò che incontrano…” tacque un istante, come per districarsi dalle profondità in cui quelle orbite tentavano di trascinarlo, seppure attraverso i suoi ricordi. “Non so che altro… continuava a chiedermi perché…”

Boris non impiegò più di due secondi a capire di chi si trattava. E, a dire il vero, non ne fu neanche particolarmente sorpreso. Alzò gli occhi al soffitto, per poi riportarli su Orlando, colmi di rimprovero. “Grandioso! Non solo ti sei fatto beccare, ma proprio da Viggo Mortensen in persona! Non posso crederci…” gemette, abbandonandosi su una sedia. “Tu, tu, tu sei un… un…” gli puntò contro l’indice, in un’accusa diretta. “Sei un… non esiste parola per descrivere la tua stupidità, Orlando!”

Orlando lo fissò, chiaramente confuso. “Chi..? Mortensen… aspetta… non è quel tizio che si occupa insieme a te del mio caso?”

“Lui non è ‘un tizio’, Orlando… è Viggo, maledizione, il più fottutamente abile investigatore di questa fottuta città, che si occupa di ogni fottuto caso come se ne andasse della sua fottuta vita, e che ora conosce la tua fottutissima faccia!”

Orlando ammutolì.

“Tu non hai idea di…” Boris puntò nuovamente un dito verso di lui, poi con un sospiro lasciò cadere il braccio, scrollando la testa. “Ma che parlo a fare? Tanto, testa di cazzo come sei…”

“Anche io ti adoro, sweetie.

“Vaffanculo.”

L’altro gli lanciò un bacio. Poi tornò serio. “Oh, andiamo, non ha il mio stramaledetto ritratto. Era buio, stavamo lottando, non aveva carta e inchiostro con sé per prendere appunti! Anzi,” realizzò, portandosi un dito alle labbra. “Ora che ci penso, non mi è sembrato completamente… lucido, capisci, era come… inebetito da qualcosa.”

Boris sbuffò. “Tipico di Mortensen,” disse. “I suoi oppiacei sono famosi in tutto il distretto.” Si alzò, e si diede a misurare la stanza a grandi passi. “Ma questo non cambia le cose. Poniamo pure che lui non ti riesca a riconoscere, va bene. Ma se lui non sa, c’è chi invece chi è al corrente di tutta la faccenda. E vedere i suoi colleghi cadere uno ad uno non mancherà certo di destare la sua attenzione… certa gente non crede alle coincidenze. Chiederò in giro, ma scommetto quello che vuoi che hai già una cospicua taglia sul collo, ragazzo…”

“E cosa dovrei fare?!” Orlando gli si parò davanti, il volto teso. “Non ho intenzione di scappare, o di lasciar perdere. Rischierò qualsiasi cosa, non m’importa di nulla, ma io devo farla finita, una volta per tutte, non posso più aspettare…”

“Orlando, ascolta…”

Il ragazzo gli diede sulla voce, senza lasciarsi interrompere. “No, tu ascolta me, adesso. Io posso farcela. So cosa rischio, ma ti dico che posso farcela. Io sono abbastanza, e quand’anche non lo fossi,” infervorato, si portò una mano al torace, per afferrare il medaglione. “Ho te al mio fianco, e ho il mio…” s’interruppe bruscamente.

Boris lo scrutò, corrugando leggermente la fronte. “Cosa stai cercando..?”

“Il… oh, cazzo… ho perso…” Orlando quasi lacerò la stoffa della camicia, allargando il colletto e tastandosi freneticamente il torace, per poi abbandonare la testa all’indietro, strizzando le palpebre, una frustrazione cocente che gli pungeva gli occhi. “Il ciondolo… ho perso il ciondolo…” Una rabbia animalesca s’impadronì di lui. Non poteva essere stato così cretino da dimenticarsi del ciondolo. Non poteva averlo perso… era troppo. Tutto il nervosismo accumulato, l’essersi fatto scoprire, il dolore fisico, l’umiliazione della sconfitta, il timore di non poter più portare a termine la sua opera… tutto semplicemente traboccò da lui, il suo corpo ormai incapace di contenerlo. “MALEDIZIONE!!!” gridò, due lacrime roventi che scivolavano sul suo volto, lente ed amare come gocce d’acido, prima di afferrare la ciotola e scagliarla contro una parete, mandandola in pezzi. Abbassò la testa di scatto, afferrandosi la spalla ferita con un tremito, trapassato da una fitta lancinante.

Boris fece un passo nella sua direzione, sollevando il canovaccio con gesto istintivo. “Orlando…”

“No, no, no, STA’ LONTANO E TIENI GIÚ LE MANI!!” gli gridò contro il ragazzo, voltandosi dall’altra parte, così da nascondere il viso. “Levati di torno. Non mi serve niente, non ho bisogno di niente!”

Boris fece un passo verso di lui, senza riuscire a nascondere la propria preoccupazione, che trapelò irrimediabilmente dalla sua voce. “Calmati, Orlando, non serve a niente fare così…”

Niente serve a niente, Boris!” la voce di Orlando si era fatta rauca, mentre la gola gli si stringeva in un nodo che minacciava di sciogliersi in lacrime da un momento all’altro. “È tutto vano, non c’è un cazzo di scopo in tutto ciò che sto facendo… e ora vuoi levare le tende per favore?? Vattene, fuori da qui, maledizione!!”

Boris gli fissò in volto i suoi occhi azzurri, senza una parola, nascondendo la sua espressione ferita dietro le lunghe ciocche bionde che gli ricadevano sul viso. “Ai tuoi ordini,” disse, rigido. Poi si voltò, e marciò fuori dalla porta, richiudendola seccamente dietro di sé.

Con un ruggito di rabbia, Orlando sferrò un calcio ad una delle seggiole, ribaltandola. Strinse più forte il proprio braccio dolente. Aveva ottenuto quello che voleva, no? L’aveva scacciato, se l’era levato di torno, così che non dovesse vederlo… non dovesse vederlo così… le lacrime che cercava di trattenere riuscirono quasi a rompere gli argini, rigandogli il volto una, due volte, per poi fermarsi… ed Orlando abbatté il proprio pugno sul tavolo, fissando con occhi spalancati la parete davanti a sé.

Respirò a fondo, tentando di smettere di tremare. Sarebbe andato tutto bene. Sarebbe andato tutto bene. Doveva resistere un altro po’. Solo un altro po’…

La porta si riaprì, e fece il suo ingresso Boris, placato, accostandola lentamente, gli occhi bassi. In silenzio, si avvicinò ad Orlando, scostandosi un lungo ciuffo biondo dalla fronte.

Il moro sollevò lo sguardo, ancora lucido di lacrime, fissandoglielo in volto. “Ehilà,” disse, con un debole sorriso.

Le labbra di Boris tremarono, come se cercasse di dire qualcosa. Tacque, invece, preferendo sollevare una mano, poggiandola sulla spalla del compagno, lasciando che il gesto parlasse per lui, esprimendo concetti che non avrebbe saputo spiegare a parole. Sperando che Orlando potesse capire che lui era lì, al suo fianco, e vi sarebbe rimasto. Con o senza il suo permesso.

Una mano gli strinse il polso, facendolo sussultare. Ma il suo braccio non venne spostato, ed i due rimasero così, aggrappati l’uno all’altro, a testimoniare una muta solidarietà.

Un risolino interruppe il silenzio che si era venuto a creare.

“Nemmeno il diavolo potrebbe fermarti, bastardo.”

“Puoi giurarci, dolcezza. Non ci riesci tu…” Orlando scrollò le spalle, senza potersi impedire di sorridere.

Rispondendo al sorriso, Boris si staccò da lui, accingendosi a raddrizzare la sedia ribaltata. “Avanti… dammi una mano a sistemare questo casino.” Afferrò uno straccio e s’inginocchiò a terra, affaccendandosi a raccogliere i pezzi in cui era esplosa la scodella. D’un tratto, si accorse che Orlando era rimasto immobile, in mezzo alla stanza, e fissava assorto il pavimento ai propri piedi.

“Orli?” chiamò, esitante.

Dopo alcuni momenti, Orlando voltò la testa, osservandolo attraverso  i propri riccioli scomposti, con occhi pensosi.

“Niente di tutto questo potrà fermarmi.” Suonava sinceramente stupito, come se avesse appena realizzato una cosa alla quale non aveva mai veramente pensato. “Io li ucciderò, Boris. Li ucciderò tutti… costi quel che costi.”