.|. Cronache di una Vendetta .|.

 

Sono passati più di trent’anni, ormai.

Molti fra di voi ricorderanno la serie di omicidi che insanguinò la nostra città, Londra, intorno al 1830, quando alcuni nobiluomini stranieri vennero trovati uccisi nei loro letti, senza nessuna traccia di un assassino; come ricorderanno la sua drammatica, fasulla conclusione.

Io so come realmente si svolsero i fatti. Non fu la bramosia di denaro a portare a questi atti, come si credette, e non tutto avvenne in quelle brevi settimane; le radici di quella vicenda affondano infatti in un passato ancor più remoto, coinvolgendo altri di cui la storia non conosce i nomi. Ora che io solo sono rimasto a custodire la verità, voglio rendere giustizia a costoro. Voglio che siano note le vere storie di due uomini, che si fusero e s’intrecciarono in una sola durante quei terribili giorni; voglio che si conservi memoria di loro e delle scelte che si trovarono ad affrontare; e, dopo lunga riflessione, mi sono risolto a scrivere a questo giornale affinché ciò accada.

Non giudicate coloro di cui leggerete; la giustizia, in quei frangenti, era vaga e nebulosa, ed essi si trovarono a dibattersi ai suoi confini. Io non potei seguirli, poiché le loro menti visitavano mondi a me sconosciuti; io non potei salvarli, poiché la loro determinazione era testarda ed immortale; ed io non potei separarli, quantunque lo desiderassi con disperazione, poiché le loro anime erano una.

  

1. Per Dovere

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Londra, anno 1832.

La finestra cigolò a malapena mentre il ragazzo la spingeva dall’esterno, in precario equilibrio sul graticcio sotto il davanzale. Con cautela, sbirciò nel pertugio che si era venuto a creare.

La stanza era buia, ad eccezione di una candela morente appoggiata in un’alcova del muro, vicino ad un grande letto a due piazze. Le tende del baldacchino erano scostate, quanto bastava a rivelare la sagoma di un individuo disteso sotto le coperte. Si udiva un leggero russare.

Il più silenziosamente possibile, il ragazzo si issò oltre il davanzale, atterrando sul lucido pavimento di marmo con un tonfo appena udibile. Si accucciò a terra, trattenendo il fiato.

Il russare continuò, invariato.

Un passo dopo l’altro, con lentezza esasperante, si avvicinò al letto, i nervi tesi allo spasimo.

Non doveva esitare. La sua mano scivolò fino alla cinta dei pantaloni, serrandosi intorno all’elsa del pugnale che vi stava infilato, quasi a riceverne coraggio. La sensazione del metallo freddo sotto le dita lo rinfrancò, e la sua espressione si fece più determinata. Non avrebbe esitato.

Con l’eleganza di un gatto, la sua figura sgusciò sul letto, finché il suo viso venne a trovarsi a pochi centimetri da quello dell’ignaro dormiente.

Con attenzione ne scrutò le fattezze. L’uomo avrebbe potuto avere dai cinquanta ai sessant’anni, a giudicare dalle guance cascanti e dalle rughe che gli intarsiavano la pelle. Un paio di folte sopracciglia grigie richiamava la rada barba, che circondava una bocca sottile, rilassata in un accenno di sorriso, ad indicare sogni piacevoli.

Era chi stava cercando; non c’era possibilità d’errore.

La tensione d’improvviso abbandonò il ragazzo, svaporò via, portando con sé ogni altro pensiero. La sua mente era in quel momento completamente sgombra da ogni possibile distrazione, esisteva solo lui, lui e lo scopo che si era prefisso. Era mutato in qualcosa di simile ad un automa: freddo, inanimato, letale, proprio come il suo coltello, che aveva estratto da dov’era riposto, stringendolo con mano sicura.

Con uno scatto violento, afferrò il mento dell’uomo, gli occhi del quale si aprirono di botto,  ritrovandosi trafitti senza via di scampo da uno sguardo metallico, feroce oltre l’umano.

“Per Lily” sibilò il ragazzo, il volto contratto in una smorfia di disgusto, sputando un odio antico di anni in faccia all’altro. “All’inferno, dì che ti manda Bloom.”

In una frazione di secondo rovesciò all’indietro la testa dell’uomo, e con un unico, fluido movimento gli fece scorrere il pugnale contro la gola, tagliandola di netto. Un gorgoglio, e l’uomo era morto.

Il giovane assassino lo fissò con disprezzo, la sua furia per nulla placata dalla vista del sangue che già impregnava le candide lenzuola di mussola. Con un guizzo ritrasse la mano, pulendo poi la lama sulle coperte, prima di rinfoderare il pugnale. Senza un secondo sguardo al cadavere, in un istante stava volteggiando oltre il davanzale, per poi volatilizzarsi nella nebbia londinese, fagocitato dalle ombre.

 

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“François Lautrec,” constatò con voce asciutta il commissario Mortensen. “Odio i ricchi cadaveri di primo mattino.”

“È quasi mezzogiorno, signor commissario” giunse da dietro le sue spalle. “Grazie di essersi incomodato a venire a fare il suo lavoro.”

“Prego.” E vaffanculo, Morris, aggiunse mentalmente. Stronzo d’un agente. Ancora piccato perché non lo era lui, il ‘signor commissario’.

Oltrepassò un paio di agenti, spostandoli piuttosto rudemente dal suo cammino, avvicinandosi al letto. Jesus fuck, faceva caldo in quella stanza. Si sistemò con un gesto automatico la giacca nera, aggiustando rapidamente le maniche della camicia, che avevano quella brutta tendenza ad arrotolarsi, anziché penzolare ordinatamente come dovevano a coprirgli le mani. Con una scrollata della testa, si tuffò poi nella sua dose quotidiana di orrore.

“Ferita di arma da taglio” commentò, osservando il letto impregnato di sangue. Si chinò in avanti. “Nessun segno di colluttazione, nessun’altra ferita a parte questa, in apparenza. Potrebbe essere stato sorpreso nel sonno.”

Scrutò con attenzione il mento del fu cavalier Lautrec. “Cos’abbiamo qui” mormorò.

Nessuno fiatò. In quella fase, Mortensen diventava una bestia da ricerca, un tutt’uno con la scena del delitto, con la vittima, l’assassino, perfino gli indizi. La sua capacità di concentrazione era qualcosa di stupefacente. Sarebbe stato capace di uccidere, se qualcuno avesse tentato di distrarlo; non era più un uomo, era un animale, un animale in caccia.

Aveva qualcosa, qualcosa dentro, che lo spingeva a soffrire, lottare, per la vita di sconosciuti. Sarebbe morto invischiato in un caso, li considerava missioni personali, amanti, cui dedicava tutto sé stesso, la sua passione, la sua energia, la sua anima, la sua… la sua vita…

Per questo era il miglior agente della città…

“Qui” chiamò. Si raddrizzò, additando il mento dell’uomo. “Vedete quei piccoli segni circolari? Dita. L’assassino l’ha afferrato, l’ha costretto a guardarlo negli occhi prima di farlo fuori.” Si mosse, scavalcando una borsa di attrezzature, osservando la finestra. “È entrato da qui, effrazione. Poi si è avvicinato di soppiatto.” Si guardò intorno, muovendosi a scatti. Fece un passo indietro, verso il letto. Le sue pupille scintillavano pericolosamente. “L’ha fissato negli occhi prima di tagliargli la gola. L’ha guardato morire. Una vendetta, una punizione. Gli ha parlato, se avesse voluto soltanto ucciderlo l’avrebbe afferrato per i capelli. No, l’ha voluto svegliare per parlargli, faccia a faccia. Essere il suo ultimo ricordo.” Deglutì, rigirandosi nervosamente, simile ad una belva in gabbia. “D’Agosta. Porta scassinata. Lì c’è stata lotta, ma le modalità generali sono simili. Un colpo mortale. Nessuna violenza inutile.”

Una mano si appoggiò sulla sua spalla. Si voltò con uno scatto bruciante.

 “Andiamo, Vig… ehr, commissario. Siete richiesto altrove.”

Obbediente, Viggo si lasciò guidare fuori dalla stanza, ignorando il sorriso maligno di Morris.

 

 

“Immagino di doverti ringraziare, Boris…” disse, lasciandosi cadere su una seggiola.

Boris rise, gettando il pastrano su un tavolo prima di accomodarsi a sua volta. “Figurati. Sai che li odio quanto te.” Si chinò in avanti. “Coraggio. Dimmi tutto.”

Lo guardò, gli occhi colmi di aspettativa. L’acume di Mortensen era materia di leggenda fra le reclute. Nessuno sapeva dove o come si procurasse gli indizi e le intuizioni che lo conducevano ricostruire nei dettagli i delitti più complessi… come nessuno si preoccupava di appurare se questa abilità avesse qualcosa a che fare con il suo massiccio consumo di oppio, e di ogni droga in grado di stravolgerlo...

Viggo congiunse le mani sotto al mento, fissando un punto imprecisato vicino ai suoi piedi, cercando di concentrarsi. “D’Agosta. Lautrec. Due stranieri uccisi in meno di due settimane. Stesso modus operandi…”

“Ma D’Agosta presentava altre ferite, oltre a quella che l’ha ucciso…” cominciò il sottoposto, per zittirsi quando il commissario lo fulminò con gli occhi. Aveva scordato che non tollerava interruzioni mentre inseguiva le sue idee.

“Poteva averle ottenute nella colluttazione. Andiamo, questo non è un tipo da torturare, infierire, indugiare. Si accontenta di ammazzare e filare… non farsi scoprire è abbastanza.”

Boris si appoggiò allo schienale. “Due stranieri… le frange conservatrici della nobiltà potrebbero essere interessate alla loro morte.”

“Ma allora perché questa fissa del guardarli negli occhi, del parlare? La politica non richiede coinvolgimenti personali.”

“Potrebbe darsi di sì. Un avvertimento, un’intimazione… il fanatismo può giungere a farne quasi una questione mistica. Potrebbe essere una di quelle stronzate sulla purezza dell’Inghilterra, i discendenti di Artù e cose simili…”

Viggo scosse la testa, appoggiando le braccia sulle ginocchia prima di sporgersi avanti. “No, non sta in piedi. Mi sembra più… personale… come faccenda.”

“Un serial killer?”

“Non saprei…” Viggo si sfregò distrattamente il mento. “Come dicevo prima, è la pista della vendetta quella che mi stuzzica.”

Boris si alzò, andando a versarsi un bicchiere di scotch. “E una volta che supponiamo si tratti di vendetta? Dove ci porta questo?”

“Bella domanda.” Mortensen scrollò la testa. “Chiediamo in giro se hanno commesso qualche sgarbo… o se di recente sono stati invischiati in qualcosa… ma non possiamo fare molto.”

“Non hai notato nessun indizio, nessuna traccia?”

“No. Come per D’Agosta. Un lavoro dannatamente pulito, il bastardo è entrato e uscito.” Tese la mano a prendere il bicchiere che l’altro gli porgeva. “Alla fine, non ci resta che aspettare la sua prossima mossa… se ci sarà una prossima mossa.”

L’attendente lo sbirciò sottecchi, incredulo. Non poteva credere ad una cosa del genere. Non detta da Viggo Mortensen, dannazione. “E ce ne restiamo qui, aspettando che ammazzi qualcun altro?”

“Già.” Il commissario si accese una sigaretta, prendendo una lunga boccata. Con calma, piegò la testa all’indietro, lasciando che il fumo gli scendesse nei polmoni, caldo ed ipnotico. “Dammi del paranoico, se vuoi… ma io sento… qualcosa…” Le volute di nebbia turbinarono nel suo corpo, mentre un’impercettibile voce sussurrava qualcosa nella parte sopita della sua mente. “Qualsiasi cosa accada… non sarà senza conseguenze, Boris.”

Boris rise, levando il bicchiere. “Tu e le tue premonizioni…”

Viggo soffiò fuori il fumo, fissandolo con aria assente. Qualcosa stava per succedere. Se lo sentiva nelle ossa. E aveva il presentimento che ne sarebbe stato coinvolto ben più di quanto potesse desiderare.

 

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Il ragazzo sobbalzò bruscamente sentendo due rapidi colpi alla porta.

In un lampo si portò di fianco all’ingresso. I colpi si ripeterono, impazienti, rimbombando sinistramente fra i muri spogli e crepati della camera, violenti e aggressivi nel silenzio notturno.

Trattenendo il fiato, il giovane attese. Altri tre colpi. Poi silenzio.

“Andiamo, Orlando, lo so che sei lì dentro” disse una voce, attutita dallo spesso legno.

Con un sorriso, il ragazzo sbloccò i catenacci che chiudevano l’uscio. Solo in quel momento si accorse che le sue mani si erano serrate spasmodicamente sul metallo del chiavistello, tanto che gli facevano male. Ormai bastava un nonnulla per farlo scattare… ma poteva resistere. Ancora un po’. Ancora un altro giorno, uno soltanto. E poi uno ancora. E quello dopo. Per poi ricominciare il giro.

“Dai, entra.” Voltò le spalle all’entrata e si diresse verso un saccone buttato in un angolo della piccola stanza, lasciandovisi cadere pesantemente.

“Alla buon’ora… stavo per andarmene, e tu avresti saltato la cena.” Ci fu una pausa, mentre l’uomo entrava, scrollandosi dal pastrano l’odore della città. Si guardò intorno, spalancando costernato gli occhi. “Ma insomma… quando farai qualcosa per questa topaia?”

Orlando rise, incrociando le braccia dietro la testa. “Ma perché non sei diventato arredatore anziché poliziotto, Boris?”

Boris lo ignorò, appoggiando sul rozzo tavolaccio di legno una grossa bisaccia. “Devi deciderti a cambiare alloggio” proseguì, sfilandosi il cappotto. “Perché non vieni a stare da me? Sai che ho molto più spazio di quel che mi serve…”

“Ne abbiamo già…”

L’uomo non si lasciò interrompere, continuando a parlare mentre apparecchiava il tavolo con quello che aveva nella borsa. “Senza contare che hai bisogno di riposare come si deve… guardati, sei un mucchio d’ossa, hai i nervi così a fior di pelle che posso quasi contarli. A casa mia nessuno ti cercherà mai, potresti stare tranquillo e…”

“Ma…”

“Niente ‘ma’… capisco che tu voglia finire ciò che stai facendo, e non discuterò oltre su questo… ma per lo meno, visto che proprio non vuoi coinvolgermi, per lo meno lascia che ti offra un rifugio…”

S’interruppe. Orlando si era alzato dal suo giaciglio e gli si era avvicinato da dietro, lasciando scivolare le braccia intorno alla sua vita.

“Ne abbiamo già parlato,” gli disse, avvicinando la testa alla sua. “Non ti ringrazierò mai abbastanza per l’aiuto che mi stai dando, Boris… ma no, non posso venire a casa tua.”

“Ma…”

Fu il turno dell’agente di venire messo a tacere, mentre Orlando continuava con decisione. “Tu sei un poliziotto. Io sono un ricercato. E non posso, non voglio mettere a repentaglio la tua…”

Boris lo interruppe con veemenza. “La mia che? Carriera, forse? Ma quale carriera! Sai bene quanto me che sono diventato poliziotto solo per…”

“…libertà” concluse in un soffio Orlando, con un morbido sorriso.

L’altro ragazzo sospirò, chiudendo gli occhi. Era completamente inutile… eppure, desiderava con tutto se stesso poter fare qualcosa per… non sapeva nemmeno per cosa. Avrebbe voluto poter strappare Orlando al suo passato, cancellare tutto quello che aveva visto, rubargli almeno la memoria della verità… così che potesse essere libero davvero. Così che potessero entrambi tornare a come avevano vissuto prima dell’ultimo, terribile periodo… sorrise, ricordando com’era stato crescere insieme a quell’incredibile persona dal sorriso sempre vivo, in ogni momento, attraversare insieme la vita di strada, le scorribande, i furti, i pestaggi, le notti senza riposo, il pararsi le spalle a vicenda… che era sfociato infine in quell’intreccio inscindibile li legava l’uno all’altro, un vincolo di fiducia, assoluto ed indiscutibile.

Tutto era cambiato quando Orlando aveva fiutato finalmente ciò che aveva cercato per anni… allora, la sua antica rabbia era tornata prepotentemente in superficie, e lui era stato rapito da una disperata fame di vendetta... era solo a quella che pensava, che agognava, il suo cuore e la sua mente erano ottenebrati da una ferrea determinazione, che non avrebbe accettato compromessi…

Orlando si staccò dall’amico, mettendosi a cavalcioni su una sedia, e attaccò senza molta convinzione un piatto di legumi. Boris scrollò il capo, e prese posto davanti a lui.

“Cerca di fare attenzione” gli mormorò. Con un gesto stanco si tirò indietro i lisci capelli biondi, che gli erano caduti sugli occhi. “Mortensen dice di non avere indizi… a quanto pare, non sa dove sbattere la testa.” Staccò un morso ad una fetta di pane. “Non nego di essere preoccupato… se dovesse tagliarmi fuori dall’indagine, non potrei più aiutarti in nessun modo. Per ora, mi ha affidato alcune indagini da svolgere nei quartieri ad ovest… finché non hai una faccia, comunque, non corri pericoli.”

Guardò corrucciato Orlando spingere lontano il piatto ancora mezzo pieno.

“Questa notte andrò da Moliére…”

Boris lasciò cadere la forchetta, con aria di rimprovero. “Non essere avventato… lascia che si calmino le acque. Se cominci ad avere fretta, finirai per commettere un errore…” allungò un braccio, sfiorando la mano del compagno con la propria. “E finisci quei piselli…”

“Non ho fame…” mugugnò Orlando, mentre il suo bel viso s’imbronciava come quello di un bambino… d’istinto, sollevò gli occhi ad incrociare quelli di Boris, mentre le loro dita s’intrecciavano lentamente. Si specchiò negli occhi dell’altro, osservando il loro azzurro schietto ed intrigante al tempo stesso, dietro il quale riusciva ormai a vedere senza difficoltà le ragnatele di emozioni che vi si nascondevano…

“Come farei…” sorrise. “Senza te a tormentarmi ogni giorno?”

Ricambiando il sorriso, Boris si alzò e girò lentamente intorno al tavolo, portandosi alle spalle dell’amico. Gli appoggiò le mani sulle spalle ed iniziò a muoverle, massaggiandolo con delicatezza, sentendo i muscoli tesi ammorbidirsi sotto il suo tocco. “Ammettilo che non puoi vivere senza di me…”

Orlando si abbandonò contro lo schienale, appoggiandovi la testa.

“Mmmh…” gemette. “Come fai…”

Erano quelli che passava accanto a Boris gli unici momenti in cui tutto il resto del mondo sembrava svanire… ogni cosa si faceva indistinta, confondendosi in una lontana sfera nebbiosa. Ne rimaneva solamente una  sgradevole sensazione strisciante, a ricordargli in silenzio che lui era vivo per un unico scopo, che continuava a scavalcare giorni su giorni unicamente in funzione della sua vendetta… ma era in grado di ignorarla, era in grado di soffocarla, se Boris era con lui… gli bastava volerlo.

E lui lo voleva…

“Amo il modo in cui mi fai sentire… amo il modo in cui riesci a…” si tese all’indietro, simile ad un grosso gatto, cercando di incrementare il contatto. “…ad allontanare dalla mia mente ogni pensiero… tu…” la sua voce si abbassò ad essere appena un sussurro mentre le mani di Boris scendevano lungo il suo petto, sfregandolo con dolce pazienza… “…sei… la mia salvezza…”

Boris abbassò il viso, sfiorando l’orecchio di Orlando con le proprie labbra mentre mormorava…

“E allora…” le sue mani scivolarono senza fretta verso il basso, sfiorando il ventre del compagno mentre lentamente gli slacciavano i pantaloni… “…lascia che ti salvi…”

Orlando soffocò un altro gemito, mordendosi le labbra mentre sentiva le dita di Boris chiudersi su di sè...

“…lascia che ti faccia dimenticare…tutto…”

Il ragazzo iniziò a muovere la mano, con lentezza esasperante.

“…lascia che ti aiuti a non perderti nell’oscurità…”

Abbassò il volto, sfiorando con le labbra il collo di Orlando, lasciando che la punta della propria lingua danzasse sulla sua pelle, mentre continuava ad accarezzarlo come gli suggerivano i gemiti e i sospiri del ragazzo. Dio, amava vederlo abbandonarsi con quella sua completa, assoluta fiducia… amava ascoltare le parole sconnesse che gli sfuggivano dalle labbra, fra i respiri che si facevano sempre più rapidi… amava sapere di esserne lui la causa… sapere che lui, e lui solo lo stava conducendo vicino a quel paradiso che desiderava…

“Ti… ah… ti pre… go…”

La voce di Orlando era sommessa, tremante, mentre tutto il suo essere veniva percorso da intensi brividi… quasi senza accorgersene iniziò a muovere i fianchi, spingendosi nel pugno dell’altro…

“Avanti… dimmelo” con un soffio, Boris morse il collo del ragazzo nel punto in cui si congiungeva con la spalla, per poi risalirlo lentamente, concedendosi di assaporarlo senza fretta. “Dimmi quello che vuoi…”

Non riusciva più a pensare… a niente… sentiva la mano di Boris, ora lenta ed ora più energica, rabbrividendo in preda ad un piacere che non sapeva, non poteva, non voleva controllare… le nebbie dei suoi pensieri erano strappate da lancinanti ferite di luce, un fuoco tumultuoso ribolliva da qualche parte, sepolto sotto quei vapori, bramando disperatamente di emergere, di spazzare via tutto, e lui lo chiedeva, voleva farsi travolgere, farsi inghiottire, perdersi nelle sensazioni che l’altro gli stava donando…

Mentre si lasciava trascinare alla deriva, fu bruscamente richiamato indietro.

“Avanti, dimmi… cosa vuoi che ti faccia…”

“Io… ti… io…”

“Avanti… cosa desideri?... ordinamelo…”

Orlando sentì il mondo disfarsi rapidamente intorno a sé, mentre le onde del piacere iniziavano a scuoterlo con frenesia… Dio, era… al limite, lo sentiva, qualcosa iniziò a vibrare dentro di lui, le sue labbra si spalancarono in una muta implorazione…

I movimenti di Boris cessarono di colpo.

“No! No… ti prego…” Orlando quasi singhiozzò, muovendo con violenza il bacino, cercando di non far smettere quei brividi…

“Dimmi cosa vuoi…”

“Toccami… toccami, ti prego… dammi… la…” Orlando non riusciva più a controllare la propria voce, spezzata da gemiti sempre più disperati. “…liberami…”

Senza farsi pregare oltre, Boris ricominciò ad accarezzarlo, veloce, senza più lasciargli respiro, sentendo i gemiti di Orlando accelerare di nuovo… Dio, quant’era splendido in quel momento… senza quasi rendersene conto, spinse il proprio inguine verso di lui, mentre gli mordeva sensualmente il lobo, determinato a non concedergli più tregua, fino a scagliarlo fra i tentacoli di quell’estasi cui tanto agognava…

“…fammi… Dio… sì…”

“Orlando, sei libero… ora, fammi sentire…”

Orlando chiuse gli occhi, sobbalzando ripetutamente, senza controllo, mentre i movimenti dell’altro lo trascinavano verso il punto di non ritorno, oltre il confine estremo …

“…te…”

Spinse ancora una volta nel pugno dell’altro, con un ultimo gemito strozzato…

“…Boris!”

…per poi perdersi al culmine dell’estasi… finalmente dimentico anche di sé stesso…

 

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Viggo sedeva al tavolo, la camicia mezza slacciata, la pelle lucida di sudore che riverberava lentamente la fiamma della lampada sul tavolo. Fissava il piano di legno con occhi di brace, attraverso le ciocche umide che gli ricadevano disordinate sul viso.

Strinse i denti, serrando ulteriormente la mano sulla bottiglia brunita, prima di gettare indietro la testa e prendere un lungo sorso. Sbatté il recipiente sul tavolo. Un’altra notte del cazzo.

Nella penombra aranciata della stanza, le onde della fiamma dondolavano su di lui, si riflettevano nelle sue pupille in bagliori inquietanti.

Il silenzio era scheggiato solo dalle malinconiche note di un vecchio carillon, poggiato sul cassettone vicino alla finestra. Lì, una minuscola ballerina girava stancamente su sé stessa, ripetendo lo stesso triste balletto ancora, e ancora, e ancora.

Ogni tanto pensava di essersene liberato. Credeva di aver dimenticato, e invece. Oh, invece no. Ricordava bene, benissimo. Li ricordava, stesi sui tavoli d’acciaio dell’obitorio, che lo fissavano con quegli occhi bianchi. Mentre un ciccione in camicia sudata giocherellava con i loro organi, tutti quei fantocci di carne, quei manichini, sfregiati, sfigurati… quelle donne e quegli uomini…

Sollevò gli occhi. Eccola lì, una di loro, in piedi nel mezzo della stanza, le danze rossastre che la illuminavano debolmente mentre la attraversavano. Stava lì, le braccia abbandonate lungo i fianchi, graffiate ed illividite. Un sudario lacero le avvolgeva il corpo acerbo, i suoi lembi stracciati che pendevano immoti, insieme con le lunghe chiome color di miele, arruffate e scomposte. Ricambiava il suo sguardo con occhi bianchi, sanguinanti, le guance striate da copiose lacrime vermiglie ormai da tempo asciugate.

La fissò con rabbia, stringendo i pugni.

“Lasciami in pace” le ringhiò. “Non è più come prima.” Il suo petto si alzava e si abbassava velocemente. “Ora posso resistere, a te e a tutti gli altri. Va’ via.”

La ragazza però non si muoveva, limitandosi a tacere e restare immobile.

“Va’ via” ripeté Viggo, prendendo un sorso rabbioso, senza levarle gli occhi di dosso. Tutto quello che aveva fumato nell’ultima ora gli salì prepotentemente alla testa, causandogli un violento capogiro. “VAFFANCULO LONTANO DA ME!!!!” le gridò, scagliandole la bottiglia, che la trapassò, fracassandosi contro il muro.

Abbassò la testa, colto dalle vertigini. Un calore intenso si stava sviluppando nel suo corpo. Strane onde facevano dondolare la sua mente, i suoi pensieri, ribaltandoli, avvolgendoli… era il suo cuore, ogni singola pulsazione un colpo di mazza che rimbombava per tutto il suo essere. Abbandonò la testa all’indietro, chiudendo gli occhi.

“Va’ via” gemette ancora, i fumi dell’oppio che gli annebbiavano il cervello. Il calore soffocante era ora tutto intorno a lui. Il suo volto s’imperlò di sudore, che iniziò a scorrere copiosamente per il suo corpo. Riaprì gli occhi. La figura era ancora ferma, senza aver abbassato quei suoi occhi morti.

“Va’…” un altro capogiro sconvolse i suoi sensi. Con un lamento cadde di lato, atterrando pesantemente al suolo. La stanza prese ad ondeggiare, roteare, non riusciva a sollevarsi, il pavimento era ghiacciato, non era il pavimento ma il soffitto, era appeso a testa in giù sul soffitto. In qualche modo sollevò la testa, la donna era anche lei sul soffitto, lo guardava e continuava ad oscillare, destra, sinistra, e poi erano due, poi una, poi due, poi la realtà si capovolse e lui ricadde  a terra.

Con un gemito si voltò, spostando il peso dal fianco dolente, mettendosi carponi davanti alla ragazza. “Vaffanculo…” sussurrò, la voce incerta. Aprì gli occhi, e vide che aveva allungato un braccio verso di lui, la mano protesa come gli artigli di un falcone.

“VAFFANCULO!” le ripeté, boccheggiando, mentre il mondo rullava di nuovo violentemente. Rivoli di sudore bollente scorrevano lungo il suo viso come serpenti. Vacillò, urtando con la testa il metallo del letto. Strinse le mani, mentre di nuovo la sua testa roteava, un gorgo di luce e ombre rossastre che gli tremolava davanti agli occhi.

Si aggrappò al tavolo, cercando di sollevarsi. Quello barcollò e la lanterna rotolò giù, infrangendosi sul pavimento, la fiamma ebbe un guizzo, che si propagò alle lingue di fuoco dipinte sui muri, sulla donna, che sembrò ingigantirsi con esse, incombendo su di lui. L’intera stanza si incurvò in avanti, cercando di avvolgerlo, di soffocarlo, tutto si strinse in un’avida ventosa...

Viggo cercò di sollevare la testa, fissando quelle orbite che tentavano di inghiottirlo. Un terrore profondo s’impadronì di lui, insieme ad un’immensa, sconsolata tristezza...

“Cosa vuoi…” gemette, la bocca impastata di pianto, mentre dei singhiozzi desolati gli scuotevano dolorosamente il petto. La sua vista si offuscò, un dolore straziante quanto immotivato si faceva strada a gomitate nei suoi pensieri…

Mentre abbassava la testa, udì una voce, limpida e suadente.

“Guarda.”

E dietro i suoi occhi esplose un vortice, un’immagine gli saettò davanti, un ragazzo dai lunghi ricci castani che lo scrutava, il suo sguardo un fumoso pozzo enigmatico, poi un sibilo, mentre una freccia gli volava incontro…

Buio.

 

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Lentamente, Orlando riprese conoscenza di quanto gli stava intorno... le braccia di Boris erano serrate con forza intorno al suo petto, e udiva dolci parole sussurrate al proprio orecchio, ma pronunciate così a bassa voce che non riusciva a dar loro un senso... poteva sentire il respiro del compagno, rapido e sconnesso... e d'improvviso gli parve di riuscire a capire qualcosa, frammenti di quelle parole che si facevano più chiari...

“Orli... Orli...”                             

Il suo nome, ripetuto ancora ed ancora, insieme a decine di altri sussurri ancora incomprensibili... sistemandosi gli abiti, si alzò. Scostò con delicatezza le braccia dell'altro e rimase in piedi davanti a lui, per poi appoggiare la propria fronte a quella dell'altro ragazzo.

“Grazie...”

Boris chiuse gli occhi, tremante, senza poter trattenere un sorriso malfermo... quando li riaprì, si ritrovò trafitto senza via di scampo da quelli oscuri di Orlando... poteva leggervi qualcosa, ma non riusciva ad interpretare ciò che vedeva, una sorta di promessa, forse, o forse nulla più che desiderio...

Orlando percepiva chiaramente contro di sè l'eccitazione del compagno... lo spinse su una grande poltrona di velluto, forse l'unico vero e proprio mobile della stanza, sebbene rosa e scurita dal tempo. Boris ricadde all'indietro senza protestare, lasciandosi sfuggire un gemito di sorpresa solo quando Orlando s'inginocchiò fra le sue gambe...

“Orli... che... fermo...”

Sussultò quando sentì le mani dell’altro sbottonargli rapidamente i pantaloni dell’uniforme. Orlando alzò gli occhi, sorridendo divertito allo smarrimento che leggeva nello sguardo celeste del compagno…

“Davvero vuoi che mi fermi?”

“I… io…” oh Dio… il suo respiro che lo sfiorava… “…n… no.”

“Bene…” disse in un soffio Orlando, prima di abbassare il volto, per restituire ciò che gli era stato dato.

 

 

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Era in piedi sul fondo del Tamigi. Di fronte a lui, una scalinata di metallo scendeva al di sotto del fondale. Un corvo azzurro gli nuotò accanto, sbattendo con forza le ali, creando una corrente violenta che lo trascinò irresistibilmente giù per i gradini. Il cielo era coperto d’erba grigiastra, sopra di lui, e tutt’intorno, come pareti di una caverna, e un grosso albero si stava incurvando in avanti, in una sorta d’inchino. Poco lontano, un enorme serpente piumato scivolò fuori da una sfera luminescente sospesa a mezz’aria, per poi disfarsi in migliaia di piccoli tralci che crebbero velocemente, riempiendo la grotta di strani arbusti scuri, nubi di gufi d’argento, cinque folletti a danzare su un tronco per poi caprioleggiare fino ad un gigantesco candelabro rosso che ruotava al di sopra di un fiume…

Un cavallo si avvicinò al galoppo. La luce della luna lo colpì, impregnando in pochi istanti i tralci d’edera di cui era fatto, facendoli risplendere debolmente, riflettendosi sul ragazzo che lo montava. Quello scosse i riccioli bruni, bagnati, il suo torace nudo percorso da rivoli di pioggia. I suoi occhi erano un punto fermo nel caos circostante, fissi e caldi in quel turbinare vitreo ed insensato… Viggo se ne ritrovò irresistibilmente attratto, senza riuscire più a distogliere lo sguardo. Con un gesto rapidissimo, il giovane scagliò un pugnale contro un albero. Il legno si sgretolò intorno alla ferita che cominciava a sanguinare, cerchi concentrici di assurdi panorami che ne increspavano la corteccia. Poi tutto si cristallizzò, mostrandogli una villa dal tetto color ocra. Con un guizzo anche questa fu inghiottita dallo squarcio nel fusto, che prese ad allargarsi sempre più, risucchiando al suo interno l’erba, la sfera, i folletti, attirando velocemente l’intero spazio, come un tessuto afferrato nel mezzo e aspirato, mentre la voce di prima tornava a bisbigliare, aleggiando in quel piccolo mondo in implosione…

“Trovalo.”

Viggo veniva trascinato irresistibilmente verso lo strappo… si voltò indietro, cercando di incrociare gli occhi del ragazzo… questi lo guardò con un’intensità soffocante, e per un istante fu il nulla… poi il cuore di Viggo iniziò a pulsare violentemente, gonfiandosi fino ad inglobare il corpo dell’uomo, mentre questo si deformava, allungandosi e contorcendosi per scivolare in quel varco troppo piccolo… vide il giovane voltare il cavallo e spronarlo, prima di precipitare nel buio, dove risuonava un martellare violento…

 

 

Il martellare continuava, ininterrotto… Viggo mosse la testa, rendendosi lentamente conto di essere sdraiato su qualcosa di liscio e freddo. Piano, con grande fatica, aprì gli occhi, trovandosi avvolto da una semioscurità rossastra. Tutto era fermo… il martellare accelerò mentre cercava di sollevarsi… confusamente, intuì che non era altro che il battere del suo cuore, che gli rimbombava dolorosamente nel cranio. Alla cieca, mosse le mani sul liscio pavimento di marmo della sua stanza…

La sua stanza?

Sbatté le palpebre, riprendendo contatto con la realtà. Puntellandosi sulle mani, in qualche modo riuscì a sollevare il volto da terra… una nausea intensa lo assalì, mentre il suo stomaco si contraeva in una morsa violenta. Chinò il capo, vomitò. Riprese fiato, ansante, strinse i denti, gelando nei vestiti fradici di sudore, che si raffreddavano rapidamente nell’aria della camera. In qualche modo si ritrovò in piedi, aggrappato al tavolo mentre si puliva la bocca con una manica.

D’improvviso gli balenò in mente tutto ciò che aveva visto… il tetto color ocra, il tetto di villa Moliére, invischiato nello sguardo fumoso del ragazzo. Senza un secondo pensiero, il commissario afferrò la giacca e, tentando di non rovinare a terra, incespicò fuori dalla porta.