.|. Cronache di una Vendetta .|.

3. Per Volere

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“Mortensen… ci farebbe molto piacere sapere che diavolo ci facevate sulla scena del crimine prima ancora che ci avvertissero!”

Viggo non alzò nemmeno gli occhi dalle tracce che stava esaminando, accovacciato a terra. “Get the fuck, Morris,” sibilò. “Sto tentando di lavorare, io.”

L’agente divenne livido in volto. “Un’altra delle vostre brillanti intuizioni? O forse stavolta c’è di più, l’omicida è il vostro vicino di casa?”

Mortensen lo ignorò, continuando a scrutare l’erba. Vi passò una mano. Maledetta la rugiada di Londra, non avrebbe trovato una singola traccia, ormai. Maledetta umidità, maledetta Londra. Maledetta quella mattina, un’odiosa mattinata di nebbia, grigia e pesante. Maledetta l’aria greve, che si sentiva addosso, pesante, come una cappa di feltro, vischiosa e soffocante.

Maledetto l’assassino. Maledetto quell’assassino che gli era sfuggito.

Che aveva lasciato fuggire…

“Lasciate che vi dica, Mortensen” proseguì imperterrito l’altro. “Non so cosa crediate voi, ma l’essere commissario non vi rende superiore agli altri elementi di questa squadra. E sappiate che se avrò dei dubbi su di voi non esiterò a riferirli all’ispettore di distretto, e vedremo se potrete ignorare anche le sue domande…”

Viggo trattenne un sospiro, alzando gli occhi. E maledetto anche quel piccolo, pedante rompicoglioni. Dio, quanto non lo sopportava.

“Finché a pormi le domande sarà un essere dotato di intelletto, io risponderò, non temere.”

Morris avvampò, stringendo i pugni, e stava probabilmente per gettarsi sul commissario quando, nell’aria umida del mattino, risuonò un richiamo, proveniente dalla villa.

Viggo si alzò in piedi, spazzolandosi con calma la giacca, e rivolse all’altro il più innocente dei sorrisi. “Sta’ a cuccia, Morris… non dimentichiamoci chi è il superiore, qui.” Gli voltò bellamente le spalle e si diresse alla casa, salendo rapidamente le scale fino alla camera da letto di Molière. Nonostante tutto, si sentiva più rilassato. Quasi di buonumore.

Doveva proprio ammetterlo… non c’era niente che gli sollevasse il morale quanto maltrattare uno stronzo. Decisamente.

 

 

Boris abbandonò le braccia lungo i fianchi, reggendo sconsolato un fascio di fogli ed un lapis.

“Allora, commissario… non posso inseguirti per tutta la casa… mi dici qualcosa, qualunque cosa che io possa scrivere in questa dannata deposizione?”

L’interpellato agitò una mano, noncurante. “Rinuncia. Me la scrivo da solo la deposizione…” si guardò intorno. “Aria, ragazzo, vai a fare qualcosa di utile. Come per esempio interrogare quelle cameriere laggiù.”

“Agli ordini…”

Viggo osservò sottecchi il biondo, che si allontanava borbottando. Mentalmente, si scusò con lui. Boris. Disponibile, operoso Boris. eppure, per quanta fiducia riponesse in quel ragazzo, non voleva averlo intorno. Non mentre esaminava una scena del crimine. Non la scena di quel crimine, per lo meno.

Si accovacciò vicino al corpo, esaminandolo con attenzione. A grandi linee, era la stessa modalità usata per D’Agosta e Lautrec… la gola stavolta era ridotta ad una poltiglia di cartilagine e tessuti sanguinolenti. Ma, basandosi sull’urlo che aveva sentito quando era entrato nella casa, poteva supporre che qualcosa fosse andato per storto, costringendo l’omicida a cambiare metodo. Doveva trattarsi della stessa persona, non c’erano dubbi in proposito.

Si appoggiò indietro sui talloni, scandagliando con lo sguardo il cadavere. Più lo osservava, più era convinto della validità della sua tesi. Come al solito, nessun’altra ferita… solo, non capiva perché il cadavere fosse a terra, anziché sul letto. Questo era un elemento nuovo. Se vi fosse caduto durante la colluttazione che si era probabilmente verificata, per l’assassino sarebbe stato pressoché impossibile mandare a segno un colpo alla gola di Molière, o avrebbe almeno avuto delle serie difficoltà; ma non c’erano strappi sul vestito ad indicare tentativi andati male. Dunque, l’uomo era già stato sgozzato quando era caduto. Avrebbe potuto buttarsi dal letto durante gli spasmi dell’agonia, ma era alquanto improbabile. Nel caso, il sangue avrebbe dovuto imbrattare buona parte del letto, del pavimento, senza contare le mani dell’uomo, che si sarebbe certamente portato alla gola. Ma le mani erano invece pulite, e non presentavano nemmeno escoriazioni, o…

Viggo si chinò in avanti. Una delle mani era serrata strettamente, poggiata sullo stomaco. Troppo strettamente.

Si sporse ulteriormente, badando che nessuno lo stesse osservando, ed ostruendo nel contempo la vista del cadavere con il proprio corpo. Afferrò quella mano, resa rigida dal rigor mortis. Aveva visto giusto. Uno spasmo non era sufficiente a spiegare quella contrazione.

Con attenzione, si diede a forzare quelle dita serrate, con lentezza esasperante, sobbalzando ad un loro minuto scricchiolio di protesta. Sbirciò rapidamente attorno a sé, certo che ogni singola persona in quella stanza avesse udito quel piccolo rumore, ormai mutato dalla sua immaginazione nello schianto di un ramo che si spezza. Ma nessuno si era voltato a guardare, nessuno badava a lui, ognuno assorto nella sua precedente occupazione.

Viggo riportò la sua attenzione sul cadavere e, con freddezza, lento ma determinato, schiuse quel pugno, distendendone le dita contratte. Una vaga esultanza s’impossessò di lui quando intravide, stretto nel palmo livido, un brillio argentato…

“Trovato qualcosa, Mortensen?”

Senza riflettere, Viggo allungò la mano ed afferrò l’oggetto, nascondendolo nel proprio pugno, nel preciso momento in cui Boris lo raggiungeva, chinandosi in avanti, su di lui.

“No.” Si sforzò di rimanere impassibile, nonostante i battiti furiosi del suo cuore, che gli rimbombavano nelle tempie. Una vampata di calore lo assalì all’improvviso, mentre gocce di sudore imperlavano la sua fronte. Cercò di rimanere calmo. Era ragionevolmente certo di aver fatto abbastanza in fretta perché l’altro non si fosse accorto di niente...

“Sicuro? Hai fatto una faccia… cosa stavi guardando?”

Il commissario imprecò, fra sé e sé. Non si era nemmeno accorto di essere osservato.

Con naturalezza, portò il proprio pugno chiuso alla tasca della giacca, lasciandovelo scivolare, per poi tirarlo fuori vuoto, ma con una sigaretta fra le dita. Si sollevò in piedi.

“Stavo solo controllando quella ferita. Non ne avevo ancora avuto l’occasione.”

“Capisco.” Il biondo si curvò in avanti, scrutandola con attenzione. “Insolita, non trovi?”

Viggo si accese la sigaretta e la portò alle labbra, traendo una lunga boccata di fumo, cercando di controllare l’impercettibile tremolio che gli scuoteva le mani. “Sì… piuttosto, non capisco perché il corpo sia a terra. L’ipotesi più sensata è che ve l’abbia gettato l’assassino, stesso, ma perché?” Si voltò verso il letto. “E le coperte… quando ho aperto la porta, l’assassino stava…” si bloccò, folgorato da un’intuizione. Le coperte sconvolte. Il cadavere gettato a terra. L’assassino curvo sul letto, come frugando per cercare qualcosa.

Il luccichio stretto nel pugno di Molière. Gli parve di vederlo, agitarsi negli ultimi istanti di agonia, aggrapparsi a… a che cosa? Doveva saperlo. E doveva saperlo subito.

“Viggo? Dicevi, cosa stava facendo?”

Il commissario fissò l’altro, richiamato bruscamente indietro dalle sue riflessioni.

“Stava… lui era…” attese un istante, tentando di afferrare l’idea che gli vorticava in testa. Presa.

“Ascoltami, Boris. Ora devo andare. È per un lavoro urgente, che avevo scordato. Dì che consegnerò la relazione appena la riterrò soddisfacente… e qui finisci tu, ti affido la baracca.”

Con calma si voltò, dirigendosi verso l’ingresso, scavalcando borse e sacche varie accatastate un po’ ovunque sul pavimento.

“Viggo!!!”

Il commissario si bloccò, raggelato, le pulsazioni improvvisamente balzate a mille. Costringendosi alla calma, si voltò, il sangue che gli scorreva violentemente nel cervello.

“Sì?”

Boris lo fissò a lungo, i suoi occhi azzurri ridotti a due fessure indagatrici.

Viggo strinse le mani, era perduto…

“Va’ a farti una dormita. Dirò di non toccare nulla fino al tuo ritorno. Vedrai che domani riuscirai a scoprire qualcosa.”

Mortensen accennò di sì con la testa, prima di affrettarsi fuori dalla stanza. Solo allora, mentre scendeva rapidamente le scale di pietra, si concesse un liberatorio sospiro di sollievo.

 

 

“Domando scusa…”

Viggo si voltò, automaticamente, trovandosi davanti un anziano signore. Aspettò che l’altro proseguisse, la testa lievemente inclinata da un lato.

Il vecchio si passò nervosamente una mano fra i radi capelli bianchi. “Io… il mio nome è Gregor, Gregor McCarthy. E sono… ero… il maggiordomo di monsieur Moliére…”

Il commissario si rilassò impercettibilmente. Tacque ancora un istante, osservando come l’uomo muoveva ritmicamente la testa, su e giù, in un ipnotico tic nervoso. “Salve.” Il vecchio, avvolto nel suo completo elegante, aveva una goccia di sudore che dondolava, appesa alla punta lucida del suo naso. “Come posso esservi utile?”

L’anziano si mosse, chiaramente a disagio, mentre il tic si faceva più evidente.

“Ecco… voi siete il commissario Mortensen… e se… ho sentito molto parlare di voi, se vi servisse qualcosa… io sarei felice di… aiutarvi…”

Viggo soffocò un sospiro.

“Dunque… ecco, in una cosa potreste essermi utile, sì.” Si portò un dito alle labbra, con aria solenne. “È un’informazione di routine, capite, ma vi sarei comunque grato se teneste per voi quanto sto per chiedervi. Potrebbe nuocere alle indagini, se venisse divulgato, e voi certo non volete questo… posso procedere?”

Il vecchio annuì, tremolante, disponendosi attentamente all’ascolto, con fare cospiratorio.

“Bene. Dunque… vi risulta che monsieur Moliére possedesse un oggetto… un prezioso di qualche genere, al quale fosse particolarmente affezionato?”

il vecchio esitò un istante, poi fece cenno di no con la testa. Il volto di Viggo s’indurì.

“Mi spiego meglio. Un oggetto che avesse per lui valore. Che non abbandonasse nemmeno per dormire. Pensateci bene. Potrebbe essere importante.”

Il vecchio sollevò al soffitto gli occhi cisposi, concentrandosi, quindi scrollò le magre spalle.

“No, ne sono certo. Non possedeva niente del genere. Ne sono più che sicuro.”

Viggo sentì una calma, fredda esaltazione farsi strada nelle sue vene. “Molto bene, Signor McCarthy. Siete stato di grande aiuto. Con permesso.”

Il vecchio lo osservò voltarsi ed allontanarsi speditamente. Con una seconda scrollata di spalle, gli girò le spalle e si diresse claudicante verso la scalinata che conduceva al piano di sopra. Sorrise fra sé e sé, orgoglioso di essere stato d’aiuto al grande Viggo Mortensen. Che faccia avrebbero fatto, i suoi nipotini, quando gliel’avrebbe raccontato…

E non vide, dietro di lui, il commissario in questione uscire all’aperto, con un sorriso gelido dipinto sul volto.

 

 

Boris si chinò ad esaminare il cadavere più da vicino, poi sollevò con circospezione le coperte del letto, perlustrando ogni centimetro di terreno. Nessuno avrebbe toccato nulla, tranne lui. Doveva assolutamente trovare quel ciondolo prima che Mortensen potesse metterci le mani sopra.

Si avvicinò alla finestra in frantumi, scrutando con perizia il pavimento, si abbassò a controllare sotto i mobili.

Merda.

Si rialzò, passandosi una mano sulla fronte. Non poteva essersi volatilizzato, quello stramaledetto ciondolo. Doveva essere da qualche parte. Orlando era certo di averlo avuto ancora al collo, quand’era entrato nell’edificio. Ebbene, allora doveva per forza trovarsi lì dentro, da qualche parte. A meno che qualcuno non l’avesse già rinvenuto…

Gli balzò alla mente l’atteggiamento che aveva avuto Mortensen poco prima. Possibile che avesse trovato qualcosa? Che avesse trovato lui il pendente?

No, impossibile. Non avrebbe avuto motivo di nasconderglielo. Boris si rifiutava di crederlo.

Si guardò intorno, ricominciando a cercare. L’avrebbe scovato. A costo di impiegarci l’intera giornata, l’avrebbe trovato lui.

 

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Il commissario si sedette stancamente sul panchetto, poggiando sul tavolo una bottiglia, insieme ad una scatola di zucchero in zollette. Un’altra notte in bianco, questo era sicuro.

L’esaltazione del mattino era già scomparsa, sostituita da una nausea appiccicosa, ossessiva. Odiava essere vivo. Dio, la solita merda, la solita vecchia, fottutissima merda.

Ma lui sapeva come fare per sfuggirle.

Si sfregò la fronte. Aveva avuto la possibilità di sparare all’omicida e non l’aveva fatto.

Prese un bicchiere e vi versò una generosa dose di assenzio. L’odore acre della mistura gli artigliò la gola. Quella roba l’avrebbe ammazzato, prima o poi. Avrebbe dovuto smetterla, una volta per tutte. Davvero, avrebbe dovuto.

Ma non quella notte, decise.

Da un cassetto, estrasse una boccetta di vetro scuro. La svitò con calma, assaporando la fragranza dolciastra che sprigionava.

Aveva esitato. Aveva avuto l’occasione di sparare, e non l’aveva fatto. Qualcosa… c’era qualcosa che non riusciva a focalizzare, un passo stonato nella musica che era preparato ad ascoltare. Ma non riusciva a trovarlo. Non riusciva ad isolarlo, a dargli un nome…

Afferrò una zolletta, appoggiandola all’imboccatura della bottiglia, quindi la capovolse. Attese, finché il liquido scuro ebbe completamente impregnato lo zucchero, quindi la rigirò, tappandola.

Gli occhi di quel ragazzo. Scuri, violenti. Così maledettamente sensuali. Non riusciva a levarseli dalla mente. Erano lì, davanti a lui. quel ragazzo, che l’aveva lasciato vivere. Quel ragazzo, che profumava di morte.

Oh, sì. Annusò il cucchiaio. La dolce amarezza del laudano scivolò nelle sue narici, e Viggo fremette, in anticipazione a quanto sarebbe seguito. Un brivido. Non si stupiva di trovarsi duro, alle volte, mentre pregustava questi preparativi come il preludio di una notte di sesso.

Ma in qualche modo lo era, avrebbe stuprato i suoi sensi, la sua mente. Anche quella notte.

Si frugò in tasca, estraendone una malconcia scatola di zolfanelli.

Perché ti torna in mente quel ragazzo, Viggo?

Ne accese uno, il suo sfrigolio pungente che si perdeva nella semioscurità della stanza, insieme al suo debole chiarore. Appiccò fuoco alla zolletta, lasciandola subito dopo cadere nel bicchiere. La mistura alcolica divampò in fiamme.

Ti viene duro, pensando a lui?

Viggo fissò per pochi secondi le vive lingue di fuoco che guizzavano nella loro prigione di vetro, protendendosi verso l’alto, poi soffiò con forza, spegnendole.

Pronto per il viaggio, right?

In un solo sorso, mandò giù.

Onda d’inchiostro, lo assale. Oh, sì, il sentiero da seguire. Lo vede, Viggo, lo vede. Si torce tutto, intorno a lui. Morbido, confuso, libero. Libero. Irregolare. Orologio distorto, gocciolante giù dai muri. Muri ocra. Muri di tegole. Spade annodate intorno a lui, ed il ragazzo. Occhi scuri di ossidiana, brillio, brillio d’argento, ciondolo. Il ciondolo che ruota. Ciondolo, ciondolo, mistero del ciondolo, segreto, segreto.

Indovina chi si nasconde nel ciondolo, Viggo?

Segreto, segreto. Nome. E Molière e D’Agosta e Lautrec e il ragazzo. E lo vede ammazzarli, distorto, frammenti di ombra rossastra che appaiono e svaniscono nell’acqua, occhi terrorizzati mentre una lama d’argento si chiazza di rosso. Vede le sue mani. Stringono il coltello. Accarezzano il ciondolo. E le vede, cercarlo tastoni su un letto disfatto. Molière Lautrec e D’Agosta D’Agosta Molière e Lautrec. Turbinano nella sua mente. Qualcosa si muove. Un ricordo dai toni vermigli. Si torce e si stira, lo insegue e non riesce a carpirlo, cos’è?

Segreto, segreto.

Non ricorda. Gira, e si annebbia, sta per crollare. Non vuole. Chi sono? E gira più forte. Chi è? Disperato, mentre il nero s’intreccia di fuoco, consuma i suoi sensi, lo avvolge, lo attira, lontano. Cos’è? Non ricorda… cos’è? Sa che è lì… turbina, turbina, gira, rigira. Una donna che corre, gonne stracciate, a brandelli, corre, la segue. Turbina, tutto. Ondeggia e lo accoglie, ovatta di tenebra intorno ad ogni pensiero, sta cedendo, gli occhi della mente gli si appannano, si chiudono, non ora, che ha quasi potuto ricordare… ma quelli impietosi scivolano chiusi, ed in quell’istante preciso lo afferra, stringe il braccio della donna e la costringe a voltarsi, e quel nome devasta la sua mente…

 

Viggo barcollò un’ultima volta, s’irrigidì, quindi crollò a terra, i capelli sconvolti, gli occhi chiusi. E lì rimase, trascinato oltre lo Stige del confine alla realtà dal suo Caronte personale. Libero, di vagare nei labirinti d’impossibile in cui si torceva la sua mente. Di svanire nelle viscere d’un incredula pazzia, dell’universo dove si aprivano le porte di ogni realtà desiderasse visitare. Si smarrì in quel mondo di cui era prigioniero, il mondo in cui si rinchiudeva, spalancandosi i cancelli per raggiungere le sue verità insensate.

E lì rimase, abbandonando la realtà, finché le tenebre calarono su Londra.

 

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Il ragazzo si muoveva rapidamente lungo i corridoi del comando di polizia. Dio, l’odore di quel posto non avrebbe mai smesso di dargli il voltastomaco. Come non avrebbero smesso le lunghe ore che era costretto a passare alla sua maledetta scrivania, compilando moduli su moduli dei quali non gl’importava assolutamente niente. Una buona metà erano finiti nel cestino della spazzatura, ma erano le nove passate, e…

“Oh, ciao, Morris… senti hai per caso visto…”

Il rosso si voltò repentinamente, scrollando la sua zazzera riccia. “Se stai cercando Mortensen, sei capitato nel posto sbagliato, Boris. Qui non si vede da stamattina, e sono tutti incazzati a morte con lui. Anzi, se lo trovi,” si piantò le mani sui fianchi robusti. “Digli che c’è chi gli farà un discreto culo, quando si degnerà di ricomparire.”

Con un sospiro, Boris alzò gli occhi al soffitto, facendo per voltarsi e andarsene. Altra tipica abitudine di Mortensen, disertare i colloqui con i superiori. Ma non aveva fatto i conti con la cocciutaggine di Morris, un diavolo d’Irlandese che era stato fra i primi ad entrare in polizia, quando il primo corpo non specializzato in operazioni militari, i cosiddetti Bobbies, era stato creato, pochi anni prima.

“Già che ci sei,” proseguì questi, “Digli che se non mi porta entro due giorni la relazione su quanto è successo in quella cazzo di casa la notte scorsa, può anche consegnarmi al suo posto una lettera di dimissioni. Sono stato chiaro?”

Boris strinse le labbra, seguitando ad ignorarlo, e preparandosi psicologicamente alla lunga tirata che sapeva sarebbe seguita.

“Ascolta, non possiamo permetterci di sprecare tempo. William quarto è appena salito al trono al posto di suo fratello George, e già infuriano le recriminazioni. I conservatori hanno avuto il potere per decenni, e tenteranno di tutto pur di spazzare via un monarca liberale, che da parte sua si sta già dando da fare. La prima carta delle riforme è stata approvata dal parlamento proprio ier l’altro, e non hai idea del baccano che ha sollevato…”

“La prima carta?” lo interruppe Boris. “Hanno approvato le riforme?”

“Esattamente,” rimarcò l’Irlandese, con tono grave. “Sono già scoppiati diversi tumulti nelle zone ovest di Londra, ma è molto probabile che gli effetti della notizia non tardino a farsi sentire anche qui.” Si grattò la fronte. “L’East End è la zona dei poveracci… specialmente qui, nel quartiere di Smithfield, e forse potremo cavarcela con qualche tafferuglio sparso. Ma ad ogni modo, dobbiamo chiudere questa faccenda degli omicidi nel più breve tempo possibile, in modo da non disperdere le nostre forze.”

Boris rimase in silenzio. Una lunga serie di moti stava probabilmente per scoppiare, e Londra ne sarebbe stata il cuore. E lui non poteva che condividere le preoccupazioni di Morris, nonostante l’altro stesse probabilmente esagerando, come al suo solito.

“Il commissario vi consegnerà la relazione non appena la riterrà soddisfacente.”

Ma, mentre lo diceva, Boris aveva già deciso che non avrebbe riferito una sola parola di quel dialogo a Mortensen. Sarebbe stato un disastro per Orlando se le indagini si fossero fatte serrate.

E, nonostante ritenesse alquanto improbabile che Viggo se ne sarebbe fatto qualcosa degli ordini, era più prudente non rischiare.

 

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La bruna ragazza sedeva nella piccola stanza da letto, che fungeva anche da soggiorno e sala da lavoro. Le sue dita volavano agilmente fra il fuso e la ruota, mentre filava quel poco che aveva da filare. Sorrideva. Nonostante il grigio crepuscolo e la nebbia che avvolgevano la casa, fuori dalla finestra, Solead de la Quiesta sorrideva, e nel suo sorriso risplendeva un barlume di sole.

Presto Juan sarebbe tornato. E lei voleva sorridere quando gli avrebbe aperto la porta.

Lui l’avrebbe sollevata per la vita e le avrebbe fatto fare un volteggio in aria, per poi salutarla. “Como estas mi senorita?”

E lei avrebbe riso, e lui l’avrebbe messa giù. Poi avrebbero cenato, e lui le avrebbe raccontato le favole della città, le avventure in cui si trovava coinvolto ogni giorno, o in cui si trovavano i suoi amici. E lei avrebbe saputo che lui inventava, come sempre quando raccontava, ma avrebbe fatto finta di credere, ascoltando con il cuore, come una bambina.

Si chiedeva se Juan sapesse che lei fingeva. Ma non glielo avrebbe mai domandato. Suo fratello era troppo fiero di poterla allontanare dal pattume londinese con quelle storie, che avevano il sapore e la magia della loro terra. E, se a farlo felice era l’illusione che Solead gli credesse, non sarebbe stata lei a spezzarla.

Scrollò la testa, ricacciando dietro le spalle la lunga treccia corvina, nella quale aveva confinato i capelli lucenti.

Juan. Quante volte avevano parlato della Spagna, la loro bella Spagna, della loro Madrid, calda e vitale, come la loro gente. Quante volte si erano intrattenuti fino a tarda notte, svegli nel buio, narrandosi di come e quando vi sarebbero tornati, promettendosi vicendevolmente che l’avrebbero fatto. Che sarebbero tornati là insieme. E là avrebbero cercato gli amici di un tempo, e se non li avessero trovati, ne avrebbero cercati di nuovi. Juan era forte, lei stessa era forte, più forte di quanto non desse a vedere, e avrebbero saputo cominciare da zero, come avevano d’altronde fatto una volta, lì in Inghilterra.

Quando erano giunti a Londra, non credevano di trovarla così. Così nuvolosa, così indifferente. Così diversa dalla loro terra. Così polverosa, quella città di misteri, ma non della calda povere aranciata delle arene di Madrid, no. La polvere inglese era grigia, fredda e pungente, come se la nebbia della città si fosse sbriciolata, imbrattando anche il suolo oltre quel cielo disperato. La polvere inglese scivolava nell’animo…

Una carrozza trotterellò lungo la strada, lenta e pesante, crocchiando sui ciottoli del selciato. Poi il rumore cessò, sostituito per un attimo da uno sbuffo equino. Doveva essersi fermata.

Strano, pensò distrattamente la ragazza. Era insolito che una carrozza si fermasse da quelle parti.

Tornò a concentrarsi sul filo, che si dipanava senza sosta. Ne aveva abbastanza per due abiti ancora. Poi avrebbe dovuto ingegnarsi a trovarne dell’altro. Forse Juan avrebbe potuto provvedere, proprio come l’ultima volta…

Tum, tum.

Solead alzò la testa, sorpresa. Si mise in ascolto. Dopo qualche secondo, il suono si ripeté.

Tum, tum.

La giovane si alzò, raggiungendo l’uscio. Rimase in silenzio.

Tum, tum, tum.

Esitò, una mano sul catenaccio. Chi mai poteva essere? Juan non bussava in quel modo…

“Chi è?”

La voce che giunse dall’esterno era compita, perfettamente udibile nonostante lo spesso legno.

“Es Felipe DeMerra, seňorita.”

“Oh!”

La ragazza s affannò ad aprire la porta, affrettandosi ad una riverenza, sorpresa. DeMerra, elegante ed impeccabile, chinò brevemente il capo in avanti, facendole cenno di rilassarsi.

“Yo me desculpa por venirla a disturbare aquì,” esordì, la voce bassa e studiata.

“Oh, non preoccupatevi, senor… cosa posso fare per voi?”

Aveva parlato in fretta, ansiosa. Sapeva quanto fosse potente quell’uomo, e quanto fosse importante per suo fratello averne l’appoggio… un pensiero la fulminò. Suo fratello le aveva parlato poche volte di DeMerra. Non voleva che lei avesse il benché minimo tipo di rapporto con quel nobile. Ed ora se lo ritrovava davanti all’uscio di casa.

Rabbrividì. Cosa stava succedendo?

DeMerra le accennò un sorriso. “Sono dolente di recare comigo una brutta notizia, senorita. Suo fratello…”

Il colore sparì dal viso di Solead. “Oh madre de Dios!” le scappò detto, mentre si portava le mani alla bocca, spalancando gli occhi scuri.

“No, no, bella senorita, non è il caso di allarmarsi,” la placò l’uomo, alzando una mano. “Porto un messaggio da suo fratello. Egli ha riportato alcune lievi ferite durante uno scontro, che lo costringeranno tuttavia a letto per un breve periodo di tempo. Ha espresso il desiderio di avervi al proprio fianco durante la convalescenza; ed è con viva sollecitudine che mi sono accollato personalmente il soddisfacimento della sua richiesta, essendo lui il mio migliore uomo.”

Man mano che il nobile parlava, il volto della giovane s’era andato via via ricolorando, mentre i suoi grandi occhi si facevano lucenti di lacrime.

Quando parlò, la sua voce tremava.

“La imploro, senor, por la gracia de Dios, mi conduca da mio fratello.”

DeMerra annuì.

“Son qui per questo. Prenda con sé quanto pensa le possa esser utile, se crede, ma non si appesantisca di bagagli; provvederò io ad ogni vostra necessità.”

“Oh, gracias, senor, gracias…”

La giovane si profuse in ringraziamenti, baciando la mano dell’uomo, prima di correre in casa. Raccolse pochi abiti, per sé e per Juan, gettandoli alla rinfusa in una sporta, insieme a pochi oggetti per la toletta personale. Stava per tornare all’ingresso, quando s’immobilizzò, le mani che stringevano la borsa a mezz’aria.

Qualcosa nel suo intelletto pronto aveva trillato, improvvisamente, cogliendo forse un motivo d’allarme che alla ragazza sfuggiva. Un’incongruenza, un particolare inesatto, un filo di cotone nascosto in una pezza di seta, qualcosa di… ‘sbagliato’. Ma la preoccupazione per il fratello ebbe la meglio, e la voce venne ignorata, il suo appello disperato relegato in un angolo della mente.

Solead corse dunque alla porta, dove DeMerra l’attendeva, paziente. Chiuse l’uscio dietro di sé e ne sprangò battenti.

“Eccomi, senor.”

L’uomo la condusse alla carrozza, aprendole lui stesso la portiera, e porgendole la propria mano come aiuto. Ma la ragazza, che della sua gente aveva intatti l’orgoglio e la fiera indipendenza, la rifiutò con garbo, inerpicandosi da sola per la scaletta, reggendosi le lunghe gonne chiare.

DeMerra salì subito dopo di lei, e le si sedette di fronte. “Adelante, Justicio,” chiamò, rivolto al cocchiere, e la vettura si mise lentamente in movimento, sobbalzando sul terreno ineguale.

Il nobile alzò gli occhi verso la giovane Spagnola. Questa teneva lo sguardo fisso oltre il finestrino, e si stringeva le mani in grembo, mentre osservava con finto interesse il paesaggio al di fuori.

L’uomo distese la mano che lei aveva baciato poc’anzi, rimirandola con tranquillità. Sorrise.

Divertente, pensò, mentre gli tornava alla mente un passo delle Sacre Scritture su cui aveva spesso riflettuto, compiacendosi della sua tragica ironia. Per una volta, era stato il Cristo sacrificale a baciare il Giuda, e non il contrario.

 

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La notte non era mai silenziosa. La notte non era mai buia. Non lì, non nel quartiere del Tempio. Fiamme rosse accese ovunque illuminavano i vicoli, affollati di uomini e donne vocianti. Musiche si mescolavano nell’aria, insistenti, ora violente e ora scomparse. Dilagavano in quell’umanità variegata, vecchie meretrici, giovani omosessuali in vendita al miglior offerente, donne che si aggiravano provocanti in abiti scollati, di rete, strappati, logori dal tempo. Donne e uomini truccati pesantemente, che vivevano lì la loro vita, nella notte, si divertivano lì e lì guadagnavano il proprio pane, vendendosi e vendendo altri, rubando, uccidendo, stuprando, bevendo. Lì, immersi nella luce cangiante, ora rossa, ora arancio, ora nera, che si aggiravano fra i fenomeni da baraccone, le creature deformi, artisti da circo di strada che si esibivano lungo i vicoli, in una successione variegata ed ossessiva, guardandosi intorno con sguardi affamati, pronti a ghermire e sbranare chi si fosse troppo avvicinato…

Le pareti sottili non riuscivano a soffocare i suoni che venivano dal di fuori. La stanza era buia, immersa in una penombra rossastra grazie ai fuochi della strada. Un rullo di tamburi si levava da qualche parte, pesante e ripetitivo, incalzante, mentre un uomo gridava qualcosa.

Lo specchio era incrinato, poggiato contro una parete, sopra un tavolo fatto con quattro assi. Orlando sedeva lì, fissando il proprio riflesso, il capo piegato di lato, gli occhi insolitamente brucianti, ustionanti, bagnati in una rabbia perversa, pieni di morte.

Afferrò il barattolo posato sul legno, immergendovi due dita, per poi passarsele sul volto, striandolo di un nero lucente. Fissò la sua immagine con astio, continuando, tracciando gesto dopo gesto un grande triangolo nero, che copriva il suo occhio sinistro e metà della sua faccia, dalla fronte alla mascella. Piegò la testa in avanti, fissandosi fra i riccioli sciolti che gli cadevano sul volto, sulle spalle, bagnati. I suoi occhi si fecero ancora più maligni, mentre le sue labbra si torcevano in un ghigno. Vi passò le dita, tramutando la propria bocca in una linea nera nel biancore della pelle, alzando il viso, abbandonandosi ad una risata crudele, insensata, di malefico divertimento. Oh, era la notte. Da sempre era così. Troppo accumulato, troppo orrore, e nell’orrore doveva immergersi, allora, nell’orrore doveva annegare. Come gli avevano insegnato i suoi fratelli della strada. Dipingiti il volto, diventa un altro, creatura della notte, selvaggio, scendi nell’orrore più profondo, perditi, inoltrati nel labirinto e lì fatti uccidere. E rinascerai, epurato da ogni coscienza e pietà. E tornerai a camminare, la tua umanità stracciata. E potrai andare avanti nel tuo inferno personale, non pregare per nessuno, né esitare. Andrai avanti finché non sarà troppo di nuovo. E tornerai. Sempre tornerai. Qui.

E così si dipinse il volto, Orlando, quel triangolo acuminato, simbolo di ciò che l’avrebbe trafitto, ridendo come un folle, un ubriaco, lanciando lampi da quegli occhi di una belva, mentre il tamburo impazzava nella strada, e le fiamme vibravano sui muri, nel buio della stanza. Si dipinse il volto, perdendo ogni momento contatto con il mondo, con sé stesso, fino all’essere solo più una maschera, un demonio pronto ad uscire per le strade, e vagare fra le anime perdute, cercando di lasciare sé stesso alle proprie spalle, di diventare come loro, uno di loro, prima dell’alba. Vieni, notte, vieni, finché c’è ancora fuoco. Finché ardo. Finché tremano i miei passi, vieni e conducimi all’inferno, e scorderò. Calpesterò altro sangue senza coscienza per vederlo. Ed Orlando si alza, rovesciando il tavolo, getta il capo indietro, stringe i pugni a mezz’aria, tende i muscoli, il torace, respira, Orlando, sente l’odore di quanto lo salva ogni volta, del delirio, delle donne e degli uomini, la perdizione che lo chiama, la puttana che lo assolve dal bisogno di pensare. Gli entra dentro, la frenesia che ben conosce, fame, odio, desiderio, eccitazione senza nome, trema, Orlando, trema mentre il potere vola intorno a lui, i fantasmi della strada che lo chiamano, lo invitano a raggiungerli, e lui lo vuole. Ombre sporche di arancione che si contraggono e comprimono, e si affollano nei suoi occhi, ed Orlando è perduto, l’incantesimo ora ha inizio. Apre gli occhi. È là fuori. E lo chiama.

Fuori, fra le troie e gli arcidiavoli, Orlando corre nella feccia.

Occhi che lo seguono, mani che lo sfiorano, il suo torace nudo sotto unghie lunghe laccate di vermiglio, sorrisi gialli e consumati, occhi languidi, che lo cercano, lo invocano, vecchie maschere di trucchi e di belletto, mani di ragazzi che si stringono su di lui, i suoi calzoni neri strattonati, toraci glabri in maglie di rete, succinte, donne dallo sguardo provocante che lo affiancano, i capelli indomiti e sconvolti, lo chiamano, lo toccano. Orlando si svincola, le scosta, spinge via chi gli ostacola il cammino. Brucia dentro. È davanti. Che lo aspetta.

Sta chiamando. Sta cercando.

Fuochi intorno a lui, giocolieri con torce di scintille, ventagli che gli solleticano il volto, ma Orlando deve obbedire, deve cercare, trovare. Brucia, brucia dentro. Più veloce. I capelli che gli cadono sul volto, scuri come di catrame. Sente. Lo chiama. Lo chiama, lo sta chiamando, un sussurro nella sua mente, sensuale, una sibilla nascosta, non la vede ma la sente, si nasconde e poi riappare, e lo chiama, inesistente, e lo aspetta. Lo ferisce, scudisciate nella mente, infida sibilla che gli scivola nei sensi, lo chiama a sé, lo conduce, più avanti, nel buio fratto di arancione senza senso, fra i dannati delle strade, e lui la segue, cerca e brama di trovarla. E questa cresce, il respiro non si lascia catturare, cresce ancora, e lo serra nelle spire della sfida, cerca, Orlando, e lo sente, e poi divampa...

Spazio vuoto intorno a lui, e lì davanti, chi chiamava.