.|. Cronache di una Vendetta .|.

5. Per Dolore

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Il medaglione lo chiamava. Lo stava chiamando.

Viggo si allentò il colletto. Era fradicio di sudore. Lo poteva sentire chiaramente. Un richiamo sottile, tagliente, un canto, una preghiera. Volse lo sguardo verso il comodino. Era lì. Lo chiamava. Aveva la voce di sua madre. Aveva la voce di un assassino. Aveva la voce di un cadavere. Aveva la voce di Boris. Aveva la voce di colei che avrebbe dovuto diventare sua moglie. Non aveva voce, ed aveva tutte le voci. Lo pregava, lo minacciava, gridava, piangeva, consigliava.

Fissò il cassetto. Gli parve di vederlo tremare. Era lì dentro.

Tirami fuori, gli sussurrava sua madre.

Liberami, lo supplicava Lillian.

Apri, gli diceva DeMerra.

Apri, rideva l’assassino.

Apri, suggeriva Boris.

Apri. Apri. Apri. Apri.

Si ritrovò in piedi, una mano fremente, protesa. Lo chiamava. Doveva farlo. Non poteva fargli del male. Giusto? Solo un ciondolo. Un indizio. Ma perché tutto questo? Perché?

Apri. Apri. Apri, Viggo. Apri.

Ti abbiamo mai fatto del male? Ti abbiamo mai malconsigliato?

Dacci retta. Apri.

Apri!

Apri. Apri.

APRI!

Si terse il sudore dalla fronte. Dio, stava morendo di caldo. Stava morendo. Voci, che si accavallavano nella sua testa. Urlavano, ridevano, avvolte in un’oscurità barocca, lampi, voci, dovere. Un obbligo insensato che gli attanagliava le viscere. Doveva farlo. Doveva.

Aprì il cassetto, tremante, rabbrividendo al suo cigolio. Una risata scaturì dalle viscere del mobile, partorita dal legno tarlato, ed era il riso di donne, uomini, ragazzi e bambini. Le voci calarono mentre a tentoni raccoglieva il pendente, lo muoveva, lasciandogli catturare scintille di luce, per poi rifletterle in bagliori sibillini.

Sussurri, nelle profondità della sua testa. Ma non riusciva a sentire. Non capiva. Non capiva. Non capiva…

Assenzio. Laudano. Ne aveva bisogno, se voleva sapere. Se voleva capirle. Ma non aveva bisogno di loro. Non gli servivano a niente! Poteva fare da solo. Dovevano andarsene! Andarsene!

Andate VIA!

Silenzio.

Viggo si accasciò a terra, vicino alla finestra, tentando di aggrapparsi alle tende, fallendo miseramente. Si appoggiò contro la parete malconcia, abbandonando le mani in grembo. Avrebbe voluto scostarsi i capelli dalla faccia. Non si mosse.

Se n’erano andati.

Sarebbe impazzito. Impazzito. Non c’era altra possibilità, e lo sapeva bene. Ma ne aveva bisogno. Erano loro a farlo diventare ciò che era. Viggo Mortensen era anche questo. Era anche loro. Non poteva scacciarli, perché erano… lui. La sua componente segreta, la sua anima oscura. La sua personalità non era che una delle tante facce. Non poteva scacciare una parte di sé.

Il ciondolo. Non sembrava più pulsare, ora. Giaceva nelle sue mani bollenti, immobile e smorto. Un pezzo di ferro. Niente di più.

Lo sollevò, a fatica. Chissà cos’era che avrebbe dovuto scoprirvi nascosto. Lo rigirò pigramente. Non vedeva niente. Nessuna scritta. Nessun disegno. Un gancio con, fissata, una catena. C’era qualcosa vicino all’attaccatura…

Si stropicciò gli occhi. Guardò più da vicino. Vi passò le dita, cerando, tastando.

Tlak.

Si aprì, piano. Viggo lo voltò verso la luce. Un’immagine. Una fotografia! Sbiadita, malfatta, sfocata. Ma una foto. Indubbiamente uno di quei dagherrotipi che iniziavano ad apparire nelle case dei signori.

Due visi, in primo piano. Un bambino. Piccolo, molto piccolo. Una donna. I suoi occhi erano quasi del tutto cancellati da una chiazza d’umidità. Riusciva ad intravedere dei capelli, lunghi, non troppo scuri. Il bambino aveva riccioli che gli dondolavano davanti al volto. Sorridevano.

Sospirò. Avrebbero potuto essere chiunque. La famiglia dell’assassino, magari. Aveva dunque moglie e figli? O era proprio lui? Con sua madre, forse?

Scosse la testa. La fotografia non l’avrebbe condotto a nulla. Ma forse, se l’idea che gli germogliava in mente avesse  funzionato, il suo ritrovamento non sarebbe stato invano.

Sollevò la catenella con ambo le mani, per poi bloccarle a mezz’aria. Cosa diamine stava facendo?

Lo stava indossando. Era l’unico luogo sicuro dove potesse custodirlo, non era forse così?

Qualcosa nella sua testa sembrò ghignare. Sei sicuro?

Certo che era così. Non lo stava indossando perché apparteneva a quell’assassino dagli occhi sfolgoranti. Non lo stava indossando per provare cos’aveva provato lui. Non stava immaginando quel ciondolo adagiato sulla pelle olivastra dell’omicida, dondolante sul suo torace –

Cristo. Ma perché loro avevano sempre ragione?

Si stava comportando in maniera assurda. Non c’era nessun motivo razionale per indossarlo, e per di più quel ragazzo era e rimaneva un maledetto assassino. Fissò con astio il ciondolo, che ondeggiava pigramente davanti ai suoi occhi. Lo nascose nel proprio pugno chiuso, prima di ficcarselo in tasca. Al diavolo.

Dentro il cassetto, qualcosa – o qualcuno – ebbe un breve risolino. Il commissario, però, non lo sentì.

 

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La porta sbatté con violenza contro la parete. DeMerra non sobbalzò, voltandosi con calma, solo per venire aggredito da un Juan furibondo, furente.

“Cosa le è successo? Voi sapete qualcosa, non è così? Parlate, per l’amor del cielo!”

“Juan!” cominciò l’altro. Ma il giovane non si lasciò interrompere.

“Vi ho visto. Ho visto come la fissavate. Ho sentito cosa ne dicevate. Ed ora questo. Non pretendete di non esserne implicato. Non crederò ad una sola parola delle vostre menzogne!”

DeMerra rimase in silenzio.

“Dite qualcosa, per dio!”

L’uomo si sedette con indifferenza al suo scrittoio. “Vorresti avere la compiacenza di spiegarmi di cosa mi si accusa, Juan?”

“Non fingete di non sapere. Mia sorella, seňor, mia sorella è scomparsa. E voi lo sapete bene!”

DeMerra balzò dalla sedia, colpendo il piano del tavolo con ambo le mani. “Che cosa?! La piccola Solead? Ma perché non me l’hai detto subito, pazzo d’un Juan?! Che le è accaduto? Parla, non esitare!”

Juan dovette lottare per non saltargli alla gola.

“Scomparsa. Comprendete cosa significa? Scomparsa! Siete voi che l’avete fatta rapire, per chissà quale motivo. Ammettete!”

DeMerra si avvicinò, poggiandogli con destrezza le mani sulle spalle. Lo fissò negli occhi con sguardo schietto. “Mio fedele Juan. Comprendo il tuo stato d’animo. Ma non accusarmi, dunque! Poiché io amo quella ragazza – ebbene sì, la amo! – e mai, mai potrei farle del male. Siedi dunque con me, parlami di quanto è accaduto. Sono preoccupato quanto te.”

Juan deglutì. No, non doveva credergli. Non poteva credergli. Per tutto il tragitto aveva corso, corso a perdifiato, ripetendosi che era stato lui. Era da lui che doveva arrivare. Doveva arrivare là. Doveva, doveva, doveva, era quello il suo scopo, quella la chiave del mistero, quella la malia che gli avrebbe reso sua sorella.

Ma se così non fosse stato…

“N… non mentitemi. Rivelatemi dove si trova. Ditemelo.”

Non pregarlo, si ripeteva. È stato lui. Non può essere altri che lui. Lei è qui. È ancora viva, ed è qui. L’ho capito in tempo, sono arrivato in tempo. Lei deve essere qui!

Si lasciò condurre docilmente dalle mani di DeMerra, che lo sospinsero su una poltrona poco distante.

“Juan.” Lo Spagnolo scosse la testa, poggiandosi stancamente alla scrivania. “Juan. Quali notizie rechi con te.”

Juan avrebbe voluto replicare. Ma la disarmante sincerità dipinta sul volto dell’altro non gli permise di aprire bocca.

“Comprendo bene il motivo della tua agitazione. E per questo perdono il tuo sconveniente atteggiamento.” Incrociò le braccia. “Io l’amo, Juan. Ne sono perdutamente innamorato dalla prima volta che l’ho vista. È così… perfetta…” per un istante, i suoi occhi parvero scintillare di gioia, di scherno, di follia. Juan, però, fissava il suolo, e non se ne avvide.

“Va’ dal mio servitore, fatti portare da bere. Prenditi qualche momento per recuperare la lucidità dopo questo trauma. Questa sera stessa, prometto che parleremo. Nel contempo, concedimi di incaricare alcuni dei miei migliori uomini delle ricerche. Puoi fidarti ciecamente dell’amore di un uomo.”

Juan sollevò la testa, stordito. Forse aveva ragione. Si era lasciato accecare da… da…

Tutto si era fatto nebuloso, nella sua testa. L’unico viso che riusciva a focalizzare era quello di Solead. Era stato accecato dal dolore. Aveva sbagliato. Lei non era lì. Lei non c’era. Non l’aveva trovata. Non aveva…

Lasciò che DeMerra lo scortasse fino alla porta, sospingendolo lentamente. La testa gli girava. Riposare. Bere. Solead. Sì, poteva fidarsi del suo protettore. Non aveva forse detto che l’amava? L’avrebbe fatta cercare. Sarebbe andata tutto bene. L’avrebbe trovata. Nessuno poteva opporsi a Felipe DeMerra. Il destino di sua sorella era in buone mani. DeMerra poteva tutto. Sì, l’avrebbe fatta salvare.

Sollievo, sollievo immenso. Gli credeva. Ma non si rendeva conto, povero Juan, che avrebbe creduto anche a Satana, a patto che gli avesse garantito la salvezza di Solead.

DeMerra osservò il giovane Spagnolo barcollare lungo il corridoio. Gli effetti del trauma si stavano facendo sentire, poteva capirlo da quegli occhi neri e nebulosi, da quello sguardo vacuo, dall’espressione del suo viso. Speranza, infantile speranza, confusione. Il volto di un ragazzino, giovane e spaventato, forse per la prima volta nella sua vita. Disarmante.

Lo Spagnolo richiuse piano la porta.

Forse, nel suo prossimo quadro avrebbe potuto cambiare soggetto. Sì, gli pareva di vederlo, lo immaginava già – una stanza riccamente addobbata, un ampio baldacchino nelle tonalità del rosso porporino. E lì, lì avrebbe giaciuto un ragazzo, un bellissimo efebo spagnolo, le tenere carni olivastre segnate da corde e raffinate torture. E sarebbe stato con cura partricolare che avrebbe dipinto la cicatrice, quella cicatrice che rendeva unico il volto del suo modello – il volto di Juan.

Le gambe del giovane sarebbero state aperte, sì, DeMerra poteva già immaginare il piacere di dipingere la pelle levigata delle cosce, per poi macchiarla di sangue, come sarebbe stata dopo che lui – sì, l’avrebbe fatto di persona – avesse posseduto quel corpo inerme.

Una risata sfuggì alle sue labbra, pregna di una malsana gioia, acuta ed isterica.

Ma Juan, ormai, era troppo lontano per udirla.

 

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La taverna era rumorosa ed affollata, come sempre. Era una sensazione unica, quel confondersi fra la gente, sconosciuto ed inosservato. Poteva fingere di essere come loro, uno qualunque. Poteva fingere che non fosse mai successo nulla, che sarebbe tornato a casa dalla sua famiglia come la maggior parte di quegli uomini, fingere di non avere tutti i poliziotti della città alle calcagna…

Orlando sollevò il boccale di birra in un brindisi silenzioso. A cosa brindasse, poi, non gli era del tutto chiaro. Alla normalità, forse.

“Gentile da parte tua brindare alla mia salute.” Disse una voce, proprio dietro di lui.

“Sempre un piacere, Boris” replicò Orlando, prima di gettare la testa all’indietro e buttar giù d’un sorso l’intero contenuto del bicchiere.

Con una risata, Boris si sedette a cavalcioni su una sedia di fronte all’amico. Orlando si passò il dorso della mano sulla bocca, asciugandola con la stoffa cascante della manica.

“Allora. Che notizie dai bassifondi?”

“Tutti ti danno la caccia. Al primo passo falso che fai, sei fottuto. Se vuoi la mia opinione…”

“Non la voglio, la tua opinione” lo interruppe Orlando, fissandolo, gli occhi improvvisamente freddi come la lama del suo fioretto.

Boris sospirò pesantemente. Si sporse verso l’altro, ricambiando quello sguardo di ghiaccio con uno di triste rassegnazione. “Sempre deciso ad andare fino in fondo, immagino.”

“Più che mai.” Orlando si appoggiò allo schienale, allungando le gambe sotto al tavolo. “Me ne manca solo uno, Boris. Uno ancora, e avrò finito. Potrò sparire.” I suoi occhi si fecero, se possibile ancora più gelidi, mentre il suo viso si induriva. “E Lily sarà vendicata.”

Boris scosse la testa. “Non so, Orlando. Ho un brutto presentimento. Non dimenticare che hai a che fare con…”

“LO SO CON CHI HO A CHE FARE!”

Diverse persone si voltarono. Orlando si guardò nervosamente intorno, lanciando loro un distratto sorriso ingenuo e rassicurante. Poi si chinò in avanti, abbassando la voce ad un intenso sibilo. “Non sono arrivato fin qui per fermarmi ad un passo dal successo. Non è per questo che ho inseguito quei bastardi per sette anni, Boris, sette!  Non è per questo che ho passato notti a trafugare documenti, non è per questo che mi sono fatto strada nella feccia, fra i loro sudici scagnozzi, per conquistarmi la loro schifosa fiducia. Non è per questo che ogni singola notte sogno mia sorella massacrata, non è per questo che-” s’interruppe.

L’aggressività e il dolore sembravano fiammeggiare nei suoi occhi. Boris, d’istinto, si ritrasse. Poi, la smorfia di Orlando si sgretolò lentamente in un sorriso triste.

“Scusami…” si prese la testa fra le mani. “Solo non sono abituato ad avere… qualcuno che si preoccupa per me. Sai che non intendevo…”

Boris lo guardò, annuendo lentamente. Certo che lo sapeva. Era stato al suo fianco fin dall’inizio, fin da quella sera in cui si erano incontrati per la strada, a litigarsi degli avanzi. Era lui che conosceva Orlando meglio di chiunque altro.

Prese un respiro profondo. Era entrato nella polizia senza sapere bene se davvero ci credeva o se cercava semplicemente un modo per conoscere in anticipo le mosse del nemico. Si era rivelata una mossa astuta, nessuno dei suoi compagni era più stato beccato, e lui avrebbe potuto continuare così indefinitamente… ma questa era una faccenda troppo grossa, per lui. Non aveva potere, i superiori non si fidavano di lui, nemmeno Mortensen, per quanto lo rispettasse molto più degli altri.

Non avrebbe potuto proteggere Orlando per sempre…

Scrollò la testa. “Due birre!” urlò alla cameriera. Poi sbatté la mano sulla spalla dell’amico, sorridendogli. “Stai su, fratello. È quasi finita, ormai.”

 

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Non era più abituato al calore che lo avvolgeva non appena metteva piede in un locale, rifletté il commissario, oltrepassando la soglia della taverna. Incredibile, averlo potuto dimenticare così in fretta. Stranamente, però, era l’unica cosa che non ricordava: gli ubriaconi, i rissaioli, le prostitute, i piantagrane… gli era tutto ancora così sinistramente familiare. Soprattutto gli era familiare quell’odore diffuso, stagnante, che permeava l’aria, impregnando ogni tavolo, ogni sedia, ogni singolo lembo di stoffa, ogni persona presente… l’odore che assaliva i suoi sensi, riportandogli alla mente i momenti più disperati della sua vita, che sembrava volerlo ricacciare in quei confusi abissi ove lo aveva già attirato una volta. L’odore di quello che era stato il suo migliore amico per anni, con tutte le sue bugie e le sue false promesse... l’odore dell’alcool, che lo attirava irresistibilmente, come il canto di una sirena, verso il bancone.

Ma no. Doveva concentrarsi. Non era quella la ragione della sua presenza lì. Lui doveva cercare informazioni. Erano passati tre anni, ma erano ancora molti quelli che gli dovevano un favore, o più d’uno. E non erano pochi quelli interessati a guadagnarsi la benevolenza del commissario Mortensen.

In primo luogo, il ciondolo che aveva rinvenuto era di fattura pregiata; non sarebbe di sicuro sfuggito all’occhio di un ladro, o di un qualsivoglia uomo di strada. Dunque, c’erano buone probabilità che qualcuno lo riconoscesse, e che magari si ricordasse di chi lo indossava, specie se l’assassino aveva bazzicato nei dintorni. Meglio ancora, l’assassino poteva essere un frequentatore abituale della zona.

Una cameriera lo urtò. D’istinto l’uomo balbettò qualche parola di scusa, distratto dalle prominenti, tondeggianti forme della ragazza. Al diavolo.

Si guardò intorno. Ecco là il vecchio TrincaBill, nell’angolo da cui probabilmente non si muoveva da un paio di decadi, e sulla destra Biscia, insieme a Léon e all’arabo. Da loro era meglio star lontano… non gli avevano ancora perdonato di averli schiaffati in galera il mese prima, con l’accusa di ubriachezza molesta. Alla faccia, avevano dato fuoco a metà delle barche ormeggiate sul fiume, come potevano chiedergli di… holy shit!

Il respiro gli si mozzò in gola. Per tutti i numi, non era possibile. Eppure, sembrava proprio lui! Là, sulla sinistra. Non riuscì a trattenere un moto d’esultanza. Non poteva essere così maledettamente fortunato da incappare addirittura nell’assassino stesso.

Si costrinse alla calma, cercando di rallentare il pulsare furibondo del sangue nelle sue vene. Con lentezza, riportò gli occhi sul ragazzo. Sedeva di fronte ad un’altra persona, stava ridendo. I capelli mossi, ravviati all’indietro, il pizzetto, i baffetti appena accennati, quel sorriso luminoso, gli occhi intriganti… poteva essere lui, sembrava lui, ma non ne era sicuro. Dopotutto, era buio quando si erano incontrati. E, durante un duello, non è alla fisionomia che si presta attenzione…

D’improvviso, il giovane alzò il viso, incrociando il suo sguardo. La risata gli si gelò sulle labbra. In una frazione di secondo distolse gli occhi, riprendendo la conversazione come se niente fosse stato, ma quell’istante era tutto ciò di cui il commissario aveva bisogno.

Viggo sentì i suoi muscoli tendersi, mentre adrenalina veniva pompata impetuosamente in circolo nel suo corpo. L’aveva riconosciuto anche lui, gliel’aveva letto in faccia. L’aveva riconosciuto, e ne aveva paura.

Era lui. L’aveva trovato.

Deciso, iniziò ad avanzare a grandi passi verso il fondo del locale, dove il ragazzo sedeva.

 

 

 

Orlando abbassò lo sguardo, i battiti del suo cuore che gli rimbombavano furiosamente nelle orecchie, rapidi e concitati.

Merda, l’aveva visto. Quell’uomo, il commissario, l’aveva visto. L’aveva anche riconosciuto? Ma maledizione… di tutti i posti del mondo, proprio nella sua taverna doveva andare? Non era il luogo adatto ad un poliziotto, per la miseria! No, doveva stare calmo. Non doveva dar segno d’inquietudine, forse poteva ingannarlo. Ma quell’espressione, quando i loro occhi si erano incrociati… oh, merda. Ecco perché era lì. Stava cercando lui. E l’aveva trovato, goddamnit.

Boris continuava a parlare. Lentamente, Orlando alzò la testa, solo per vedere l’uomo che avanzava velocemente nella sua direzione. Merda!

Il più silenziosamente possibile, si alzò in piedi, iniziando ad indietreggiare verso l’uscita secondaria. “Ehi” cominciò Boris, prima che Orlando lo zittisse con un’occhiataccia. Quando il ragazzo riportò la sua attenzione sul poliziotto, vide che aveva iniziato a correre verso di lui, zigzagando fra le sedie e gli avventori.

“Oh merda!” imprecò. “Tu non mi conosci” sibilò poi, rivolto a Boris, prima di spiccare a sua volta la corsa. Schivate abilmente mezza dozzina persone, si volse a controllare l’avanzata del commissario, ed in quel momento una cameriera gli apparve davanti. Incapace di evitarla, la travolse, buttandola a terra. “Chiedo scusa!” le gridò, senza neanche rallentare.

Due massicci inservienti si pararono fra lui e la porta. “Ehi, tu! Che hai fatto a Giselle?!” sbraitò uno, mentre, da dietro il ragazzo, giungevano le strida indignate della cameriera. Orlando, senza esitare, balzò su un tavolo, rovesciando quanto vi stava appoggiato.

“Perdonatemi, signori, ma vado di fretta” esclamò con un sorriso. Si aggrappò saldamente al grosso candeliere appeso sopra di lui, tramortendo nel frattempo con un calcio un terzo uomo che gli si era avvicinato. Dio, era una vita che sognava un’uscita di scena di quel genere. Un urlo si levò d’un tratto fra il vociare degli avventori. “Fermatelo! Polizia! Fermatelo!!!!”

Orlando strinse  più forte i bracci di legno del lampadario e si lanciò in avanti, raccogliendo le gambe contro il torace, superando una decina di clienti, per poi lasciare la presa ed atterrare a braccia aperte sulle due guardie, rovinando a terra insieme a loro. Con un volteggio si rimise in piedi, “Au revoir, m’sieurs!”, per poi sprintare in avanti e tuffarsi nell’oscurità che lo attendeva al di fuori.

 

 

 

Imprecando, Viggo scavalcò d’un guizzo i due inservienti, ben determinato a non lasciarsi sfuggire la sua preda. Sebbene ne distinguesse a malapena la sagoma, sfocata nella scarsa luce dei lampioni, poteva udire distintamente lo scalpiccio dei suoi piedi sul selciato. Era lì, davanti a lui, per la seconda volta, e lui doveva prenderlo. Voleva prenderlo.

Forte della sua decisione, accelerò ulteriormente. D’improvviso, si rese conto di non sentire più i passi. “Maledizione!” inveì, svoltando in un vicolo che aveva intravisto sulla destra, dove il ragazzo avrebbe potuto facilmente nascondersi. Ansimante, rallentò, ostacolato dal buio che lo circondava. Aguzzò la vista, scrutando i barili disseminati qua e là fra le due strette pareti di pietra, avanzando con cautela. Sentiva un rivolo di sudore bollente scorrergli lungo la spina dorsale. Sarebbe stato così semplice per l’assassino farlo fuori di sorpresa, al riparo dietro una qualsiasi di quelle botti. I suoi nervi erano tesi allo spasimo, tutti i sensi in allerta.

D’un tratto percepì un rapido movimento, da qualche parte, sopra di lui. Alzò la testa, e proprio in quel momento una sagoma scura piombò giù dal tetto, balzandogli addosso come una tigre, abbattendolo al suolo con il suo peso. Il commissario si ritrovò incapace di reagire, immobile a fissare il volto dell’assassino, ad un pollice dal suo.

Il ragazzo lo guardava dritto negli occhi, le sue iridi erano una tempesta di fiamme, un maelstrom di rabbia, paura e selvaggia determinazione. “Lasciami finire” sibilò, la voce bassa e suadente, il respiro affannato che accarezzava sensualmente le labbra di Viggo. “Fatti da parte, commissario.” Con questo si sollevò bruscamente, abbattendo un pugno sul volto dell’uomo, tramortendolo. In un istante, era di nuovo lanciato nella sua fuga per le anguste strade di Londra.

Stordito, il commissario riuscì in qualche modo a rialzarsi, incespicando nei propri piedi, per poi riprendere l’inseguimento. Ma era rimasto troppo indietro, e la sua testa girava violentemente a seguito del pugno, facendo ondeggiare e vorticare la strada davanti a lui…

E, d’improvviso, vedeva con chiarezza la sagoma del ragazzo stagliarsi nettamente contro il cielo grigio intenso, più in alto di dove avrebbe dovuto essere. Ma certo, gli balenò nella testa in uno sprazzo di lucidità, muovendosi verso nord avevano raggiunto il muraglione che dava a strapiombo sul Tamigi, diversi metri più sotto, e che sbarrava irrimediabilmente la via al fuggitivo. Si sforzò di ricordare. La strada curvava sulla sinistra, ma era un vicolo cieco che, dopo un tornante, terminava in una galleria a livello del fiume. L’aveva preso in trappola.

Con un sussulto si rese conto che il ragazzo non si stava preparando sostenere uno scontro, come aveva pensato, ma che bensì era ritto sul parapetto, pronto a tuffarsi nelle impetuose acque del fiume.

“Fermo!!!!” ruggì Viggo. D’istinto, senza che la sua mente stordita potesse interferire, afferrò la pistola e fece fuoco.

La detonazione rimbombò ferocemente nel suo cranio.

Il tempo poi sembrò ghiacciarsi, ed inseguire lo sparo, mentre il ventaglio di pallettoni si apriva con un sibilo, strappando l’aria in una serie di squarci tubolari, per poi accelerare di scatto e colpire quasi a tradimento la carne del giovane, sollevando un debole schizzo di sangue.

Immobile, il commissario vide il ragazzo vacillare sotto l’impatto, per poi perdere l’equilibrio e cadere scompostamente nel vuoto.

 

 

 

Proprio mentre stava per saltare, Orlando sentì una detonazione, seguita immediatamente da un dolore lancinante alla spalla. Prima che potesse capire cosa stava succedendo, si ritrovò a precipitare verso il violento turbinare nerastro.

La violenza dell’impatto con l’acqua lo lasciò senza fiato, e un migliaio di spilli sembrarono trafiggerlo da ogni parte, mentre affondava in un'oscurità gelida e rombante. In qualche modo si ritrovò in superficie, annaspando fra i mulinelli di spuma, bianca spuma dolciastra che gli entrava nella bocca, nel naso, mentre lui cercava disperatamente dell’aria. La corrente lo trascinò velocemente in avanti, mugghiando rabbiosa, ricacciandolo sotto. Con un guizzo disperato, Orlando riemerse una seconda volta, lottando contro i suoi stessi abiti, ora gonfi d’acqua lurida, ora attorcigliati intorno al suo corpo, che gli imprigionavano le braccia, intrappolandolo, rendendogli impossibile nuotare. Come se non bastasse, la sua spalla sinistra rifiutava di obbedirgli, era attraversata da fitte lancinanti, e non rispondeva ai suoi frenetici tentativi di muoverla per cercare di tenersi a galla. Lottò inutilmente contro la furia del fiume, finendo sommerso un'altra volta in una specie di vortice, riuscendo a strappare all’aria un po’ d’ossigeno prima che la bocca gli si riempisse di nuovo d’acqua, che gli invase con prepotenza la gola. Riaffiorò, ostinato, tentando di respirare, impedito dai conati con cui il suo corpo tentava di fargli espellere il liquido invasore, ignaro di starlo invece uccidendo, negandogli ciò che più gli serviva.

Il rombo delle rapide si fece più forte e, voltandosi, gli occhi sbarrati, Orlando vide con orrore la roccia dell’argine venirgli incontro a velocità vertiginosa. “Lily” riuscì a mormorare, prima che la corrente ve lo sbattesse contro con tutta la violenza di cui era capace.

Un dolore abbacinante…

Il mondo si spense.

 

 

 

Qualunque cosa avesse annebbiato la sua mente, si volatilizzò bruscamente con il rumore dello sparo. Incredulo, con un moto di rabbia, Viggo gettò a terra la pistola, vergognandosi di sé stesso, mentre gli lampeggiava in testa il sorriso del ragazzo quando aveva scostato la spada dalla sua gola. Quella slealtà non gli apparteneva, colpire un uomo alle spalle, che diamine gli era mai preso?!

Attaccò nuovamente a correre, rifiutandosi di rallentare, cozzando duramente contro il muretto con il torace. Vi si abbrancò con mani tremanti per non perdere l’equilibrio, sporgendosi quanto più poteva, cercando freneticamente di scorgere qualcosa.

In principio non vide nulla, fra l’oscurità e la spuma creata dalla corrente tormentosa, almeno sette metri più in basso. Poi, intravide una sagoma, come un ammasso di stracci bagnati, una macchia chiara che spiccava nel nero violaceo delle acque.

Perfino da dove si trovava lui, era evidente che il ragazzo era in difficoltà, il dislivello era troppo elevato per un tuffo, senza contare che doveva averlo colpito. Vide un cespo di capelli castani, che poi scomparvero sott’acqua, poi riapparvero, e poi scomparvero di nuovo. L’intera figura venne sommersa, per poi riemergere, dibattendosi, trainata sotto dal suo stesso peso, e dalle correnti traditrici. Senza perderla d’occhio, il commissario iniziò a correre lungo la strada, con tutte le energie di cui disponeva. Poi, vide la corrente gettare con violenza inaudita il ragazzo contro l’argine, ed i movimenti convulsi cessarono di colpo.

Il cuore di Viggo mancò un battito.

Rifiutandosi di pensare, si portò avanti, correndo disperatamente lungo la strada, e svoltando poi con uno scatto nella scalinata che, tornando indietro, scendeva fino alla galleria. La scese quattro gradini alla volta, tenendo gli occhi fissi sulla marionetta abbandonata che veniva spinta senza sosta verso di lui. Sotto i suoi occhi sconvolti, la figura sprofondò, ma quella volta non riemerse più.

Il commissario quasi volò attraverso l’argine di pietre sotto la galleria, entrando nell’acqua ed avanzando a grandi falcate. Giunto che fu con l’acqua all’altezza del petto, afferrò il corpo del giovane sotto le braccia, tirandolo a forza con la testa fuori dall’acqua, ed iniziando poi ad indietreggiare lentamente, cercando di non scivolare sul fondale insidioso, posizionando saldamente una gamba dopo l’altra per non farsi spazzar via dall’impetuosità del fiume. Il suo viso si contrasse in una smorfia, mentre la sua fronte si corrugava per lo sforzo. Finalmente, sentì sotto le suole la consistenza dello stabile selciato che saliva in un dolce declivio fino al marciapiede. Continuò ad arretrare a fatica, la schiena mezza tesa all’indietro, sentì l’acqua che piano piano scendeva, passando dallo sferzargli il torace al circondargli la vita. Digrignò i denti, mentre il peso del ragazzo, non più sostenuto dal liquido, rischiava di fargli perdere l’equilibrio.

Si abbassò, quasi accovacciandosi per terra, continuando a tirare finché non furono entrambi al sicuro. Allora si lasciò cadere seduto, il corpo del giovane adagiato fra le sue gambe, la testa a riposare contro il suo collo.

Non riuscì a trattenere un brivido. Il ragazzo non si muoveva, era completamente inerte, spezzato, come una bambola rotta. Viggo poteva sentire i suoi capelli fradici sotto al proprio mento, la linea gelida delle labbra contro la propria gola.

Con una mano gli cinse la schiena, attirandolo più vicino a sé, tentando di capire se respirasse o meno. Istintivamente mosse anche l’altra, sfiorando col palmo la spalla del giovane, e sobbalzò vedendo del sangue imbrattargli le dita. Ecco perchè non era riuscito a nuotare, damn it. Poi, ad un tratto, uno spasmo corse lungo il corpo stretto fra le sue braccia, ed il ragazzo eruppe in una serie di violenti conati misti a colpi di tosse, vomitando l’acqua lercia del fiume. Troppo bagnato per preoccuparsene, Viggo gli sorresse la testa, aiutandolo come poteva.

“Dai, butta fuori” sussurrò. “Bravo, così. Bravo.”

Lo guardò in viso, mentre quello prendeva alcuni respiri convulsi, singhiozzanti, che in breve iniziarono a farsi più stabili. In un impulso di tenerezza, gli scostò dalla fronte i capelli bagnati, sfiorando delicatamente la pelle gelata.

Parte del suo cervello gli gridava che aveva catturato uno spietato assassino, che avrebbe dovuto lasciarlo morire, che non importava il perché.

Domande roteavano nella sua testa, vorticanti, indistinte e feroci. Forse gli gridavano di trascinarlo in pasto ai giudici del tribunale, forse gli consigliavano di ributtarlo lì da dove l’aveva tratto in salvo, forse gl’intimavano di freddarlo con un colpo di pistola, forse gli chiedevano se dopotutto era davvero un assassino, quel misero fantoccio che stringeva fra le braccia…

Qualunque cosa fosse, Viggo rispose di no.

Poi, appoggiata la mano sulla guancia del ragazzo, rimase fermo, immobile, limitandosi a guardarlo.