.|. Cronache di una Vendetta .|.

4. Per Capire

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Eccolo lì. Viggo è fermo, ansima, è lui. È  lì. Nella sua mente urlava, bruciava, la voce, la maledetta voce di fuoco che lo andava sempre a trovare, e gridava di correre, gridava di correre ma non gli diceva mai dove, ma stavolta c’era qualcosa, qualcosa lo attirava, come un falena è attirata verso un incendio, con la stessa forza, la stessa minaccia.

Ed ora è lì. Un ragazzo, il torace sudato, un triangolo nero dipinto di sbieco sul volto. Lo sta fissando dritto negli occhi. Anche lui lo stava cercando, è questo che gli sta ringhiando. Viggo ansima, rabbioso, non riesce a fare altro. Ansima, il torace che va su e giù pesantemente, il sudore che gli cola negli occhi, gli inumidisce i capelli. Ansima.

Ha fame.

E lì ha il suo pasto. Lo sbranerà.

O si farà divorare…

E poi il ragazzo si volta, e fugge via, nella notte, nella folla. E Viggo scatta dietro di lui, facendosi largo fra i fantocci che gli intralciano la strada, senza nemmeno vederli. Un indistinto turbinare nero arancio, e lui corre, vede solo quella schiena abbronzata, continua a correre, ringhiante. Oh, vuole giocare, il ragazzo. È il suo mondo, la notte, lo è diventato, gli è entrata dentro. Lo prenderà. Non può scappare per sempre. Non gli sfuggirà.

Abbassa la testa, sente l’energia che vibra nelle sue membra, rossa e pulsante. Sì. Dio, sì. Sì. Il potere. Il potere che lo assale, il mondo che evapora, si condensa, si fonde a quella strada buia, quelle fiamme. Quello è il mondo. Il suo mondo. Il suo claustrofobico mondo, dove vivrà, morirà, dove è ora. Sospeso nell’indefinito, nel tempo e nello spazio. Sospeso fra le bolle in cui si rifugia ogni giorno, grazie alle droghe, l’alcool. Più reale di ogni altra cosa abbia mai provato in vita sua. Di ogni altro luogo abbia visto, ogni suolo che abbia calpestato. Così reale, come lui è finalmente reale, sente le cose, le sente davvero, l’aria, la frenesia della caccia è quasi palpabile, adrenalina pura che lo invade, lo intossica. È vivo. O si è perduto nella morte. Qualunque sia la verità, lui sente, lui vede, lui vuole come mai prima d’allora. Lui vuole. Lui desidera. Lui vuole quel ragazzo. Lui lo avrà.

D’improvviso, svanisce. Per i vicoli, sta fuggendo. Viggo scatta, dietro, schiva e scarta, corre. Corre.

 

 

Il volto di Orlando sbatté duramente contro la parete di ruvida pietra del vicolo. Bastardo. Il suo polso serrato in una morsa d’acciaio, impossibile da eludere. Non era stato abbastanza veloce. O forse non aveva mai avuto davvero intenzione di fuggire, chissà.

Tese i muscoli, tentando di liberarsi, ma una violenta torsione gli mozzò il fiato in gola, un dolore rapace che si artigliava la strada su per il suo avambraccio, scalando i muscoli fino ad arrivare alla spalla. Gridò.

Non riuscì a sentire il proprio urlo. Non sentiva niente. Un rombo sordo, il suo sangue, forse, un fragore lontano, ritmato, tamburi, tamburi nelle strade, ancora, ancora, ancora, ancora, ancora, ancora, un ritmo violento, il ritmo di un una tempesta lontana, il ritmo del corpo che si premeva contro di lui, e premeva, e premeva, e spingeva, calore che Orlando percepiva sulla schiena, sulle gambe, un respiro bollente sul collo, rauco, spezzato, ritmato, incessante come quel battito sordo, fremente, ansimante.

“Sei uno di loro?”

E d’improvviso il suo braccio era libero, mentre due mani gli serravano i fianchi, la vita, toccandolo dovunque potessero arrivare, afferrandolo fameliche attraverso la stoffa dei pantaloni, sfregandolo con ardore, scatenando fiammate di pura elettricità che corsero lungo il suo corpo, risalendo dall’inguine fino al cervello, silenziose e taglienti, da mozzare il fiato.

“Quanto vuoi?” Un sussurro, un bisbiglio, un ansito, umido, da qualche parte vicino al suo orecchio, una lingua che ne sfiorava il contorno, “Quanto vuoi per essere mio, stanotte?”

Neanche il tempo di pensare ad una risposta e già le mani erano all’opera di nuovo, circondandolo, lottando impacciate con i bottoni dei suoi calzoni, ed ecco che una già scivolava al loro interno, impigliandosi nella stoffa ma ben determinata, cercando, stringendo il suo membro, tastando, il pollice che sfiorava il bagnato sulla punta, il pugno che tirava indietro la pelle, per poi proseguire in una goffa carezza, raggiungendo i testicoli, insinuandosi fra i riccioli scuri senza pudore, titillando la delicata pelle del perineo…

Orlando gemette, aprendo le gambe senza ritegno, spingendosi all’indietro, verso il corpo dell’uomo, sentendo l’erezione dell’altro premere contro di lui attraverso due strati di tessuto, mentre la punta di quelle dita svergognate arrivava a sfiorare la sua apertura, il polso che sfregava contro la sua eccitazione, ed il ritmo ipnotico dei tamburi divenne il ritmo di Orlando, mentre si muoveva in avanti, strofinandosi contro quel polso, poi indietro, a sentire l’uomo premere contro di sé, duro, mentre una mano gli stringeva il petto, tenendolo stretto, sempre più stretto…

Una bocca si chiuse sul suo collo, lingua e denti che lo stuzzicavano, lo assaggiavano, mentre già un dito si era spinto più avanti degli altri, fra le sue natiche, la punta che lentamente si insinuava nella sua stretta apertura, facendolo tremare, facendolo spingere più forte, le mani premute contro il muro freddo, gli occhi chiusi, cercando, bramando di più, di più, di più, di più.

E poi non c’era più nulla, il braccio ritirato, un violento strattone che lo costrinse a voltarsi, sbattendo la schiena contro il muro, la straziante sensazione di vuoto colmata in un istante dal corpo dell’uomo che si premette prontamente contro di lui, in fiamme, aderendo con dolorosa perfezione, il bacino che si muoveva a scatti, assetato di contatto, di piacere.

“Ti pagherò,” un ansito, roco abbastanza da essere udito, da qualche parte lungo il suo collo, “Fa’ il bravo. Toccami.”

Confusione, uno sciame di lucciole disperso nella sua testa, ti pagherò, ma io non sono… non sono...

Un tintinnare, fioco, mentre l’uomo scuoteva un borsello, impaziente, “Ce li ho,” un sussurro, prima di tornare a spingersi contro di lui, violando con le mani ogni parte del ragazzo che riuscisse a raggiungere, premendo contro il suo inguine, spingendo, ancora, ancora, prima di sollevare il proprio avambraccio all’altezza del viso, degli occhi socchiusi di Orlando, lasciando che scintille arancioni danzassero nelle gocce che lo imperlavano, luccicanti, strisce vischiose che lo decoravano di umidi arabeschi, ciò che restava delle spinte di Orlando, di quella punta umida che vi aveva sfregato. Una mano afferrò la mascella del ragazzo, mentre due occhi brucianti reclamavano i suoi.

Senza spezzare il contatto, l’uomo portò la bocca al proprio braccio, lasciando scivolare fuori la lingua a ripulirlo da quelle tracce perlacee, lentamente, ed Orlando si sporse in avanti, come stregato, anch’io, e la pelle dell’uomo era salata sulla sua lingua, con un vago sapore amaro laddove assaggiava il suo stesso seme, chiuse gli occhi, aggrappandosi al corpo dell’altro, finché non ci fu più pelle ma un’altra bocca, affamata, un’altra lingua, bollente, che s’intrecciava alla sua, catturandola, trascinandola in un bacio famelico, bagnato, sapore di assenzio, e quel bacio divenne tutto, fondendosi al ritmo dei tamburi, al ritmo dei loro due corpi che si muovevano a scatti, l’uno contro l’altro, fianchi contro fianchi, maschio contro maschio, finché l’uomo non inchiodò Orlando alla parete, aprendogli le gambe, abbassando il bacino quanto bastava a scivolare fra di esse, per poi prendere a spingere verso l’alto, violento, mentre le loro bocche si violavano a vicenda, feroci, fino a separarsi, poi, per lasciarli respirare.

Orlando prese fiato, pronto a replicare, ribattere, qualcosa, ma era tutto svanito, di nuovo, nebbia che gli ottenebrava i pensieri, sì, sono una puttana, prendimi, prendimi qui, dammi i tuoi sporchi soldi in cambio del tuo piacere, sì, è questo che voglio, stanotte. Doveva annegare nell’orrore, voleva soffocare nel disgusto, scavare, scavare oltre il fondo che aveva toccato, e perché no, allora, perché no?

Affondò una mano nei riccioli scuri dello sconosciuto, gettando la testa all’indietro, lasciandogli libero accesso al suo collo, mentre a tastoni cercava la sua cintola, oltrepassando l’orlo dei pantaloni, eccolo, duro, umido, caldo, vivo, lo strinse, sentendo l’uomo gemere contro la sua gola, mosse la mano, la strinse, circondandolo, spingendola in avanti e ritraendola, una volta, due volte, e lo sentì pulsare, sentì i muscoli contrarsi, spasmi, un rapido susseguirsi di ansiti sul suo collo, e qualcosa di caldo gli bagnò la mano, calde ondate, appiccicose, mentre l’uomo si faceva inerte, un peso morto, comprimendolo contro il muro.

Cercò di liberare la mano, senza riuscirvi, impedito da quel corpo che ora poggiava interamente contro il suo, “Ehi,” cercò di spingerlo lontano, poi con forza tirò via il braccio, tenendo la mano imbrattata a distanza, mentre l’uomo, lentamente, scivolava a terra.

Svenuto.

Con gesto stizzito, Orlando passò la mano sulla malconcia camicia dello sconosciuto, pulendosi come poteva. I tamburi continuavano a pulsare, così come il sangue nelle sue vene, rapido, insoddisfatto. Sarebbe stato così facile, strattonargli giù i pantaloni, prendersi quello che voleva. Poteva già sentirlo, sarebbe stato facile, così facile, era alla sua mercé, e lui aveva voglia di venire.

Poteva farlo. Poteva farlo.

Si chinò, le mani brancolanti che si strinsero rapidamente sui calzoni dell’altro, uno strattone, un altro, quindi il tintinnio del borsello, sperduto in qualche tasca.

Poteva farlo. Poteva farlo.

La testa che girava, girava, si portò le mani all’inguine, slacciando a fatica un bottone dopo l’altro, cercando di liberarsi, mentre si stendeva sulla schiena dell’uomo, a cavalcioni sulle sue cosce. Uno strano vapore si spandeva nella sua mente, amaro, pungente come l’alcool che gli scorreva in corpo, addensandosi, comprimendo la sua capacità di pensare, non ora, goddamnit, non ora, abbassò gli occhi, l’uomo accasciato faccia a terra sembrava girare, vorticare,  lentamente, poi più in fretta, e con lui l’intero sporco vicolo, arancione che scoppiettava nei suoi occhi, sempre più luminoso, luminoso, luminoso, luminoso, accecante, come una torcia che si avvicinasse, ed anche i tamburi si erano fatti più vicini, le voci, come se tutti stessero andando verso di lui, e qualcosa entrò nel suo campo visivo, una caotica sarabanda di dannati, che andava facendosi più nitida, di momento in momento – 

Shit!

Barcollò alzandosi, cercando come poteva di reggersi in piedi, appiattendosi nell’ombra, contro una parete, ed in un istante stava scivolando via, lungo il muro, al di là di un angolo, nell’oscurità, ora, e svaniva, si volatilizzava, nelle viscere della città, disperso nei suoi intestini, via, via, abbandonando lo sconosciuto al suo destino.

 

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Juan sbatté la porta con violenza, colpendola con entrambi i pugni, per poi rimanere immobile, ansimante, nel freddo della strada buia, deserta. Si sforzò di respirare, di ignorare il groppo che gli serrava prepotentemente la gola. Un tremore diffuso prese a scuotere le sue braccia, scivolargli lungo le gambe, intrecciandosi ai suoi nervi, per poi concentrarsi nel suo stomaco, che si era fatto improvvisamente pesante, uno stretto viluppo, dolente, quasi. Incredulità.

Dov’era sua sorella?

Doveva esserci una spiegazione logica. Doveva. Doveva. Doveva.

Si sforzò di calmarsi, di ragionare lucidamente. Ma il suo corpo e la sua mente rifiutavano di obbedirgli, rifiutavano di calmarsi. I suoi occhi si erano fatti lucidi, la vista gli si annebbiava, non poteva pensare, non poteva quasi respirare. Brevi respiri, solamente, rapidi, secchi, come quelli delle vittime di uno shock. Uno shock. Era scomparsa sua sorella. Sua sorella. In un istante la sua mente fu piena di lei, distante, lontana, ogni cosa appariva vaga, indistinta, e Juan tremò. Era come se non potesse ricordare. Non poteva aver dimenticato, come poteva essere accaduto? Non poteva aver scordato… eppure quei momenti scivolavano via, veloci, e gli pareva di non poter più afferrare il suono della sua voce, il trillo della sua risata, il biancore delle sue vesti, lo scintillare dei suoi occhi. Tutto così familiare, lei era lì, al suo fianco, poche ore prima, vero? Vero?

Eppure era tutto così distante… così nebuloso… perché non aveva guardato con più attenzione, perché non l’aveva stretta, perché non le aveva detto che amava come i suoi denti scintillavano mentre parlava? Poteva farlo. Poteva farlo in qualsiasi momento, non era così? Certo. Aveva tempo. Poteva farlo, quando voleva. Avrebbe potuto farlo quando avesse voluto.

Ma non l’aveva fatto. Ed ora, ora che lei non era lì, il dolore lo attanagliava, il timore che non avrebbe potuto farlo. Mai più.

No. Doveva esserci una spiegazione logica. Qualcosa, dannazione, qualcosa! Non doveva lasciarsi sopraffare dal panico. Lui era un guerriero, uno navigato, la sua pellaccia ne aveva sopportate tante. Aveva la capacità di restare calmo. Sì.

Non anche questo… con tutto quello che ho passato… perché anche questo?

No! Non doveva. Non poteva permetterselo. E non era di sé stesso che doveva preoccuparsi, ma di lei. Solo ed esclusivamente di lei. Lei non era perduta, era da qualche parte, ovunque fosse, ed attendeva che lui la trovasse. Che lui arrivasse e la traesse in salvo, come aveva sempre giurato di fare. Lui era in grado. Non era forse stato sempre così, a Madrid, durante i loro giochi, da bambini?

‘Aha! Ti ho scovato, fellone! Libera la mia damigella, o dovrai assaggiare la mia spada!’

‘Sei contenta, Solead? Hai visto? Ti ho salvata anche stavolta.’

‘Ma se tu non mi riuscissi a salvare?’

‘Io sarò sempre pronto a salvarti. Sei la mia sorellina. Sei la mia principessa.’

Con un profondo respiro, si scansò dal grezzo legno scuro della porta, portandosi le mani alle tempie, cercando di imbrigliare quel respiro affannato, di costringerlo ad una parvenza di calma.

Così, ragazzo. Devi stringere forte le ginocchia, o verrai disarcionato. I tori sono forti. Ma tu hai la volontà. Puoi dominarli.

Abbassò le braccia, il tremolio quasi scomparso, il respiro stabile, quanto bastava, almeno. Si sforzò di sgombrare la mente dalle immagini della sorella, dalle paure, di districare quel nodo asfissiante che gli tranciava il fiato, che gli serrava lo stomaco. Ma, pur con tutta la sua volontà, riuscì appena ad allentarlo.

Strinse i denti, mentre si incamminava lungo la strada, una lama tagliente che fendeva l’aria notturna, ridotto a ciò che aveva per anni cercato di evitare, nulla più che un’arma, affilata e letale, tesa allo spasimo. Perché non c’era altro a cui pensare. Era in gioco tutto ciò che contava, tutto ciò che aveva mai realmente contato.

E Juan lo sapeva. Era in gioco il suo mondo.

Spiccò la corsa, allontanandosi rapidamente, lanciandosi senza esitare nel dedalo di strade del quartiere, scomparendo alla vista, un unico pensiero, una certezza, una missione, una volontà che nemmeno la morte avrebbe potuto spezzare.

‘Io ci sarò sempre.’

 

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Il commissario si richiuse alle spalle la pesante porta di legno di pino, sfilandosi poi il pastrano bagnato. Lo appoggiò su una sedia di fianco all’ingresso, disponendovelo con cura, più per abitudine che per altro.

Sollevò la lanterna.

/vicolo, ragazzo, pittura, fame, fame, ragazzo, spingi, dio, sì, spingi, toccami, ce li ho, ce li ho, quanto vuoi, ragazzo, dio, sì, toccami/

L’archivio era una buia stanza circolare, le pareti coperte da scaffali che salivano in alto, perdendosi oltre il debole chiarore della lampada, in innumerevoli cerchi stipati di scatole, centinaia e centinaia di scatole. Un odore acre di muffa sembrava addensarsi nell’aria, quasi palpabile nella sua opprimente intensità. L’atmosfera stessa era stantia, pregna di polvere; ecco, sembrava suggerire, ecco una buia tomba polverosa destinata ad accogliere a tutti i vostri sforzi e le vostre parole formali. Custodite qui, esse vi sopravvivranno, ma verranno infine a raggiungervi nell’oblio, ricoperte da edere secolari, sepolte in una torre di memoria, quand’anche la vostra stessa scrittura sarà ormai dimenticata...

/oblio, non dimenticare, ricorda, ragazzo, riccioli, le sue mani, toccami, sì, toccami, ce li ho, non fuggire, mi chiama, mi chiama, aspettami/

Viggo scrollò la testa, lanciando gocce tutt’intorno. Afferrò una delle apposite scalette e la fece scorrere per alcuni metri lungo la sua guida metallica, scrutando le etichette ingiallite che gli passavano davanti. Finalmente si fermò ed iniziò a salire, piolo dopo piolo, seguendo l’ordine alfabetico, finché non trovò quello che cercava.

“Anno 1817. Omicidi insoluti, giovani donne” recitò a fior di labbra, prima di estrarre dal suo alveo la lunga scatola verde scuro, appoggiandola ad una delle tavolette di legno opportunamente fissate alla scala. Sollevò il coperchio.

/vicolo, risveglio, a terra, pantaloni bagnati, alzati, perché qui, non capisco, non capisco, perché qui, archivio, raggiungere l’archivio, uscito per questo, perché a terra…/

“Arnheim, Martha. Atkinson, Catherine. Barrymoore-Welfare, Hirde.” A bassa voce, pronunciava tutti i nomi che gli capitavano sotto gli occhi, mentre sfogliava rapidamente i vari fascicoli. Nel silenzio ovattato, i volti di quelle donne fluttuavano intorno a lui, concretizzandosi nell’oscurità, quasi a circondare minacciosamente quell’uomo che ardiva disturbare le loro carte, vergate anni prima ad eternare le loro morti terribili.

/ora basta/

Il commissario rabbrividì. Era stato proprio quello a piegarlo, anni prima. L’ossessione che sviluppava per ogni caso, mista alla sua incapacità di vedere le vittime come semplici enigmi…

“Bloom, Lillian.”

Scrollando la testa, estrasse l’incartamento, lasciando che il coperchio ricadesse a zittire i fantasmi delle altre a cui non era stata fatta giustizia. Qualcuno verrà anche per voi, promise silenziosamente. Poi aprì il fascicolo, scorrendo rapidamente le pagine.

Era quel nome, Bloom, che gli era trillato in testa, fra i fumi dell’oppio e dell’alcool. Lui era solo un ragazzo all’epoca, ma quello era stato il primo caso a cui lo avevano assegnato; anche se la polizia non era ancora stata istituita, gli ispettori autonomi erano molto diffusi, in città, ed era da loro che aveva imparato. Durante quella vicenda, aveva partecipato solo ad alcuni sopralluoghi, in veste di assistente, prima di venire estromesso. Aveva continuato a tenersi informato, però, ci aveva provato, sebbene sempre più saltuariamente, per poi disinteressarsene proprio mentre il cappio delle indagini si stringeva intorno ad alcuni sospetti. Anni dopo, aveva sentito dire per caso che costoro erano alla fine risultati innocenti, e che il caso era stato archiviato; non vi aveva prestato molta attenzione, ed infine si era scordato definitivamente di quella donna e del suo mistero.

O almeno, così aveva creduto.

Referto, indizi… man mano che leggeva, i dettagli del caso iniziarono a riaffiorare nella sua memoria. Sì, ora cominciava a ricordare. Lillian Bloom, anni venti, una sconosciuta qualsiasi, impiegata in una casa chiusa del quartiere di Smithfield. Era stata ritrovata in una nebbiosa mattina di febbraio, nuda e contorta, abbandonata al gelo del fiume, in una zona dove l’acqua ristagnava in un’ampia pozza.

Dio…

Viggo chiuse gli occhi, cercando invano un riparo dalle visioni che sapeva sarebbero seguite…

 

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Gli occhi della donna erano bianchi, vuoti. Spiccavano nel livore del viso, gonfio e tumefatto… la lingua, nerastra, penzolava dalla bocca, quasi del tutto strappata. Il corpo della ragazza era livido quanto il viso, bluastro perfino, accartocciato a terra, le sue linee spezzate in angoli innaturali, dovuti ad innumerevoli fratture. Giaceva nell’acqua bassa, rigido come il ferro a causa del rigor mortis.

Il giovane agente Mortensen lo guardava, immobile, sconvolto.

Sweet Jesus, Mary and Joseph.

Deglutì a fatica. Che cosa poteva aver mai commesso, quella creatura, per meritare una tale violenza? Per meritare che il suo corpo martoriato giacesse lì, inerme, esposto al gelo dell’aria, agli ancor più glaciali sguardi degli altri investigatori...?

Un movimento attrasse il suo sguardo. Si voltò, alzando la testa. Seminascosto nell’ombra di un angolo, un bambino lo stava fissando, stretto in laceri abiti cascanti, i grandi occhi sgranati, le guance imbrattate di polvere e lacrime.

Viggo distolse il viso, guardandosi intorno. Nessuno a parte lui sembrava averlo notato. Tornò a sbirciare verso il piccolo. Esitante, mosse qualche passo, timoroso di spaventarlo, accucciandosi poi a terra, a pochi metri da lui.

“Ehi” disse, sporgendosi in avanti. Gli allungò la mano, alzando le sopracciglia in un’espressione sincera e preoccupata. Il piccolo caracollò obbediente nella sua direzione, fermandosi proprio di fronte alla sua mano tesa. Sbatté gli occhioni lucidi, ricambiando lo sguardo incerto dell’agente con uno di grave responsabilità.

Viggo percepì un fremito scuotergli la schiena. Per Dio, non poteva avere più di sette, otto anni, ma i suoi occhi erano profondi e addolorati come quelli di un adulto, come se fosse lui e lui soltanto a dover badare a sé stesso. Come se avesse visto qualcosa che…

Qualcosa nel suo sguardo lo spinse a voltarsi indietro, per un istante, verso i suoi colleghi, verso il cadavere. Intuizione.

“La conoscevi?”

Una scrollata di testa, , una tirata su col naso, riccioli che rimbalzarono su e giù, ma avevano anch’essi un che di lugubre, di… sbagliato. Non in quella situazione, era sbagliato, avrebbero dovuto rimbalzare nel sole, nella luce, in una corsa, risate, gioia. Non così. Non così…

“MORTENSEN! Dove diavolo sei?!”

“Arrivo!” urlò di rimando, girandosi istintivamente verso il suo superiore. Tornò poi a volgersi in avanti, scoprendo di essere solo, lì, in ginocchio sul selciato ghiaioso…

 

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Sospettati. Ecco il paragrafo che stava cercando. Lo scorse rapidamente, non riuscendo a trattenere un sorriso di trionfo. Eccoli lì. D’Agosta, Molière, Lautrec… era certo di averne sentito parlare, quando ancora raccoglieva sporadiche informazioni sul caso. Ed il fatto che tutti e tre fossero stati implicati nel medesimo caso di omicidio non poteva essere una semplice coincidenza. Troppo improbabile.

L’occhio gli cadde su un quarto nome. DeMerra.

Ne aveva sentito parlare, pur non avendovi mai avuto a che fare personalmente. Nuovo ricco d’origine spagnola, esponente dell’alta borghesia, Felipe DeMerra era famoso per il suo comparire sovente sulle bocche degli informatori, come mandante di questo o di quell’altro crimine. Ovviamente, nessuna prova era mai stata presentata ad avallare queste soffiate, e comunque nessuno si sarebbe mai neanche sognato di intraprendere un qualsivoglia procedimento contro uno degli uomini più influenti della città, il cui buon nome era una garanzia di legalità. E di ricchezza.

Aveva spesso sentito circolare voci insistenti su un manipolo di bricconi, disposto al suo servizio, pronto a fare tutto ciò che DeMerra comandasse; più che abbastanza per scoraggiare ogni indagine, se mai qualcuno ne avesse avuto l’idea.

Il commissario ricollocò la scatola al suo posto, senza però riporvi il fascicolo, che mise invece al sicuro nella tasca interna del gilet. Nessuno se ne sarebbe accorto, e a lui avrebbe fatto comodo poterlo analizzare con più calma.

Avvertì come una leggera scarica elettrica alla base della spina dorsale. Forse si stava sbagliando, ma al diavolo: che fosse dannato se il suo istinto aveva scelto proprio quella volta per tradirlo. C’era qualcosa di oscuro in quella faccenda.

E, per Dio, avrebbe scoperto cos’era.

 

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La porta si schiuse, silenziosamente, perfettamente oliata. Lo Spagnolo la mosse lentamente, avanti, poi indietro, compiacendosi della sua efficienza.

Avanzò nella stanza, con passi sicuri, seguito dal leggero scatto della porta mentre questa si richiudeva automaticamente. Una bambola dai grandi occhi azzurri lo fissava, elegante nel suo impeccabile vestitino azzurro, da uno scaffale solitario posto in fondo allo stretto sgabuzzino, circondata da altre bambole, tutte diverse, accomunate dai lucenti riccioli biondi, ordinati, perfettamente disposti.

Que pasa aquì, Rosita?” DeMerra si curvò lievemente in avanti, allungando una mano a sfiorare il pizzo celeste del vestitino. “Niente, vedo. Hai fatto buona guardia.”

Le scostò la piccola gonna, risalendo lungo la liscia ceramica della gamba con mano leggera. “Sei stata brava. Ora però devo passare. Devo accogliere una nuova amica. Sì, proprio così,” sorrise, mentre le sue dita incontravano la giuntura con il busto. Afferrò la gamba e la torse verso sinistra, venendo ricompensato da un sonoro scatto. Lasciò la presa, mentre lo scaffale cigolava ed iniziava lentamente a ruotare su sé stesso, brontolando. “Proprio così. Una nuova amica. Sono sicuro che ti piacerà.”

Si infilò nello stretto pertugio, attendendo finché questo non si fu richiuso alle sue spalle. Quindi batté le mani, ed una serie di lampade affisse alle pareti si accesero, una dopo l’altra, illuminando quanto bastava un’angusta stanza ovale, ricolma di scaffali, stretti tavoli, cavalletti, bambole. Marionette penzolavano dalle mensole, dondolavano dai ripiani, affollavano le scansie, e vecchi fogli tappezzavano le pareti, insieme ad altri più recenti, documenti relativi alle più disparate analisi anatomiche, rivoltanti schizzi a china di organi, occhi, fegati, mani, ossa, visi di donna stravolti dall’agonia. DeMerra li oltrepassò senza badarvi.

Si avvicinò ad uno dei tavoli, ingombro di larghi involti bianchi, squadrati, sottili. Ne afferrò uno, il più recente, e lo liberò con cura dal lenzuolo che lo proteggeva.

Un dipinto.

Rappresentava un’arena, arancione, dal suolo sabbioso, circondata da tribune, sfocate, a malapena visibili. Figure danzavano in questa arena, uomini con indosso abiti variopinti e svolazzanti, nelle pose più grottesche, persi in una malsana celebrazione, un’incauta gioia, pregna di malvagia follia. Più avanti stava un uomo, parte indubbiamente del soggetto principale, brandente una lunga lama ricurva, imbrattata di sangue vermiglio, gli occhi fissi su un largo tratto di tela in primo piano, vuoto, lasciato intonso, come in attesa di accogliere una nuova porzione di dipinto.

Con dolcezza, lo Spagnolo accarezzò la tela, allontanando alcune particelle di polvere.

“Presto,” sussurrò. “Presto sarai terminata anche tu. Ho la modella adatta. È perfetta, davvero. Perfetta. Degna di comparire in quest’arena.”

Depose il quadro su un cavalletto vicino, dandosi poi a disporre sul bancone pennelli e barattoli, dove i pigmenti attendevano, pronti all’uso.

“Come le altre. È perfetta, davvero. Semplicemente perfetta. Andrò ora a prepararla.”

Osservò gli oggetti allineati sul bancone, quindi annuì, soddisfatto. Si protese dunque verso un piccolo armadietto, aprendolo ed estraendone una lunga spada, in tutto e per tutto simile a quella raffigurata nel dipinto. Ne saggiò il filo, legandosela poi elegantemente alla cintola, quindi raccolse una manciata di piccoli strumenti, lame, arnesi dall’aspetto grottesco, stivandoli in un sacchetto di stoffa, che infilò con destrezza nella tasca interna della giacca. Si sistemò il colletto con gesto raffinato.

Perfetto,” sussurrò ancora. Quindi, raccolta una candela, si avviò verso lo scaffale girevole, illuminando mentre passava alcune delle tele già terminate, ognuna in paziente attesa sul proprio cavalletto. Riproducevano paesaggi, stanze anguste, larghi saloni – ma erano anch’esse accomunate da qualcosa.

Dalle donne, una in ogni dipinto. Ed ognuna di loro era nuda e contorta, ognuna di loro era stata barbaramente massacrata.

Con un sorriso compiaciuto, DeMerra batté le mani. Le luci si spensero.