.|. The Night Before You Die .|.

 

4. Non Stavolta

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Non era riuscito. Lo sentiva ancora, poteva sentirlo benissimo. Sulle sue mani, nei suoi capelli, sulla sua bocca. Quell’odore. L’odore di Haldir, l’odore degli uomini. Non era riuscito a lavarselo via di dosso. Sembrava impossibile.

Avanzò con calma nella stanza di pietra fredda. I capelli bagnati aderivano alla sua pelle nuda, e Legolas rabbrividì. Il freddo era puro, era cristallino come ghiaccio. Forse, se si fosse lasciato gelare, sarebbe tornato pulito…

Allungò una mano verso il telo scuro poggiato sul tavolo, iniziando ad asciugarsi lentamente. Voltando le spalle alla porta, lasciò vagare lo sguardo fuori dalla finestra, nel buio raggelante della notte. Fiaccole, sparpagliate per i bastioni di pietra. Voci, soffocate, reali o di sogno, non poteva saperlo. Il vento sibilava lentamente nella stanza, portando con sé brandelli di quell’oscurità invincibile, drappeggiandoli tutt’intorno all’elfo.

Legolas strinse gli occhi, serrando le mani sulla ruvida stoffa del telo. Tremò. Il freddo era pungente, amplificato dai suoi sensi, ben consci di essere ormai prossimi al disfacimento. Sarebbe morto, e lo sapeva. Sarebbero morti tutti.

Ed il freddo era più vivo che mai, mentre lo sferzava, mentre gli rammentava che la morte era ancora futuro, che il suo corpo era vivo. Poteva sentire. Poteva tremare. Poteva aspettare, in silenzio. Aveva tempo. Per assaporare le ultime sensazioni. Aveva…

Si voltò, con uno scatto bruciante. I suoi occhi, bagnati di gelo notturno, si scontrarono con un paio d’occhi grigi, incerti, avvolti in un debole tepore, che lo fissavano, rapiti. D’istinto, sollevò il telo, a coprirsi.

Aragorn arrossì, voltandosi repentinamente, schermandosi gli occhi con una mano.

“Io… domando scusa, non intendevo…” mormorò, mentre si affrettava verso la porta, allungando una mano verso la maniglia. Valar, non se n’era nemmeno reso conto. Ma Legolas era così… Dei… vederlo così, poterlo guardare, senza che l’elfo se ne avvedesse… non aveva saputo resistere.

“Stai.”

Si bloccò, la mano ancora stretta al metallo freddo del battente. Non si voltò, mentre alle proprie spalle poteva percepire i movimenti di Legolas, mentre questi terminava nervosamente di asciugarsi.

“Cosa desideravi?

“Io… ” Io volevo ammirare il tuo corpo, volevo carpire la tua immagine, e tenerla stretta. Volevo avere un dio da ricordare mentre starò morendo. “Io… volevo solo chiederti… io non intendevo…”

Deglutì, mentre i suoi occhi si muovevano indipendentemente dalla sua volontà, dardeggiando indietro verso l’elfo, la sua carne candida. La sua carne, sulla quale spiccava un segno rosso, sulla spalla, un lampo vermiglio prima che Legolas lo ricoprisse con la leggera stoffa blu di una vestaglia.

Senza potersene accorgere, Aragorn si ritrovò ad avanzare a grandi passi verso Legolas, dimentico della sua nudità.

“Cos’hai lì?”

“Niente.”

L’elfo si strinse nell’indumento, mentre il tessuto aderiva all’umido sulla sua schiena. Si ravviò la massa umida dei capelli, districandone i filamenti intrappolati sotto la stoffa. Li sentì aderire nuovamente alla propria schiena, in ciocche scomposte.

“Fa’ vedere.”

Il ramingo afferrò il colletto della vestaglia, vincendo le deboli resistenze di Legolas, scostandola lentamente fino a scoprire la spalla. Esaminò con cura i segni rossi, evidenti tracce di una stretta violenta, corrucciando le sopracciglia.

“Chi ha osato?”

Legolas abbassò gli occhi, a disagio. Cercò di risollevare il lembo di stoffa, conscio del proprio corpo, e di quello dell’uomo. Alcune ciocche bagnate gli ricaddero sul volto, aderendo alle sue guance. Non se ne curò.

“Nessuno.”

Una mano, poggiata sotto il suo mento. Una mano che lentamente lo costrinse a sollevare il volto, fino ad incontrare nuovamente gli occhi grigi dell’uomo. Un istante, e poi spostò lo sguardo, concentrandosi sui ricci scuri di Aragorn, sullo scollo della sua tunica, sulla parete alle sue spalle.

Non voleva. Erano troppo vicini. Non voleva guardarlo.

Poteva sentire il calore di Aragorn infiltrarsi nel freddo che lo avvolgeva. Poteva sentire il proprio corpo anelare a quel tepore, desiderarlo, volerlo, bramarlo.

Doveva allontanarsi.

“Legolas. Non farò niente che tu non voglia. Ma ti imploro, mio…” Mio dio. Mio amico. Mio fratello. Mio amore. Mio mondo. “Ti imploro… dimmelo.”

Non farmi temere. Non farmi tremare. Non farmi attendere oltre. Cosa ti hanno fatto? Fin dove si sono spinte, queste mani? A chi appartengono? Per cosa devo pregare?

Legolas sollevò lentamente gli occhi.

“Dimmi chi ti ha toccato.”

“Uomini.” Rabbrividì, mentre si scopriva a sputare quella parola. Haldir. “Quattro di loro.”

Aragorn fu come fustigato. Legolas percepì la sua stretta serrarsi, vide i suoi occhi incendiarsi, e si affrettò a proseguire.

“Haldir è giunto in mio aiuto. È rispettato da questa gente. L’hanno ascoltato. Non è successo nulla, te lo assicuro.”

“Immagino che sia stata la mia scenata a porti in cattiva luce ai loro occhi.”

Haldir. Il biondo capitano. Percepì una saetta squarciargli le viscere con la rapidità di una freccia. Ma certo, Haldir era rispettato. Haldir l’aveva salvato. Haldir, Haldir, Haldir! Mentre lui non aveva saputo far altro che rendergli ostili i guerrieri di Rohan.

Un uomo. Fallace come tutti gli uomini. Una bestia da guerra, come le altre.

Non sarai mai come noi, Estel. Come potresti? Tu sei diverso. Tu sei un uomo. E un uomo rimarrai, per quanto tu possa tentare. Un frammento di torba deposto in mezzo ai diamanti non diventa un diamante a sua volta.

Piccolo, patetico umano.

Erede di Isildur. Stacci lontano.

Ecco cosa potrai portarci. Dolore. Sfortuna. Allontanati dalle nostre gemme.

Lascia andare mia figlia! Non permetterò che muoia per te.

MENZOGNE!

 

Strofinò lentamente il pollice attraverso l’ematoma che iniziava già a formarsi sulla candida pelle di Legolas. Non voleva più pensare. Non voleva ricordare oltre. Haldir non era con loro. Elrond non c’era. Arwen era lontana.

Ricordò la morte, che lo attendeva al di là della notte. Riprese forza.

Sentì l’aria vibrare della lieve risata dell’elfo.

“È una ferita da bambini.”

“Ed allora lascia che la guarisca come la guarirebbe un bambino.”

Abbassò il volto, senza fretta, deponendo un casto bacio sulla spalla dell’elfo. La sua pelle era fredda, e per un istante ebbe timore di bruciarla con le proprie labbra. Si scostò, risollevando poi la morbida stoffa della vestaglia, risistemandola con gesti sicuri.

“Cosa… cosa volevi dirmi, Aragorn?”

L’uomo seguitò a toccarlo, scivolando con le mani alla cintola dell’indumento, allacciandola con calma.

“Io… volevo domandarti perdono per il mio atteggiamento di oggi. Sono stato superbo, me ne rendo conto. Non avevi torto. Ed io non dovevo aggredirti a quel modo. Ti chiedo scusa, Legolas.”

Poggiò una mano sulla spalla dell’elfo, lasciando che l’altra riposasse sul nodo che aveva stretto, sulla vita sottile di Legolas.

“So che gli abbracci non sono... comuni… fra gli elfi. Ma… vorresti…?”

Legolas percepì il proprio volto rilassarsi nel più timido dei sorrisi, di fronte agli occhi impacciati di Aragorn. Si lasciò attirare in un lento abbraccio, mentre l’uomo nascondeva il volto contro il suo collo, gli afferrava una mano, portandosela al petto.

Aragorn rimase immobile, stringendo piano quella mano candida, prima di strofinare piano la fronte ed il naso contro quel collo delicato, assaporando il freddo che sembrava emanare.

Non c’era più tempo. Niente tempo per domandarsi se fosse giusto, niente tempo per rimandare un rischio, niente tempo per attendere oltre. Stavano per morire, stavano già morendo. Non aveva tempo. Ed eppure aveva tutto il tempo del mondo, mentre chiudeva gli occhi, sfregando lentamente le labbra contro quella pelle liscia, incantato, rapito. Non esisteva più nulla. Iniziò a muovere piano le proprie labbra, socchiudendole e poi serrandole di nuovo, assaggiando, catturando quel freddo immacolato, risalendo lentamente… seguì la linea netta del suo mento, la mano dell’elfo che stringeva spasmodicamente la sua, gli parve di sentirlo tremare…

Senza fretta, continuò a salire, spingendosi oltre ogni barriera si fosse sempre imposto. Ogni barriera che avesse creato, con convenzioni, norme, imbarazzi. Oltre il freddo, oltre la paura.

Le sue labbra sfiorarono l’angolo di quelle di Legolas, si permisero si carezzarle, si dischiusero, poi, catturandone la parte inferiore. Strinse più forte il corpo fra le sue braccia, mentre osava, stringendo per un istante il labbro inferiore di Legolas, vezzeggiandolo con la propria lingua nell’arco di un respiro…

“Dobbiamo smettere.”

La voce di Legolas, un sospiro, un bisbiglio, contro la sua bocca. Avrebbe voluto negare, rispondere, rifiutare. Non riuscì.

Lo abbandonò, indietreggiando, voltandosi, raggiungendo la porta. La maniglia sembrava bruciare, mentre il freddo della stanza lo invadeva, straziandolo. Uscì. Richiuse quell’uscio, quel maledetto uscio. Se ne andò.

Legolas si mosse, verso quella porta serrata, protese la mano ferita. Desiderò gridare, desiderò chiamarlo. Desiderò che tornasse.

Ma era tardi. L’aveva scacciato.

Rimase immobile, di fronte alla porta. Avrebbe potuto toccarla, se solo avesse voluto.

Rimase solo.

 

Un istante, e la porta si riaprì. Gli occhi di Aragorn erano pozze di oscuro calore, mentre la richiudeva alle proprie spalle. Fissò l’elfo dritto in volto. Senza esitare.

“Potrebbe essere l’ultima notte che passiamo su questa terra.”

Lo prese fra le braccia, lo strinse, ed il freddo parve ritrarsi, concedergli tregua. Poteva salvarsi. Era questo il segreto.

“Non voglio più mentire.”

Catturò la bocca di Legolas con una fame disperata, le loro labbra si unirono, senza vergogna, senza timore, mentre i loro corpi si stringevano l’uno all’altro, le loro mani vagavano, fameliche. Le mani di Aragorn si spinsero senza pudore oltre la vestaglia di Legolas, mentre la sua lingua invadeva quella bocca in attesa, abbeverandosi ad un calore stordente, ed il freddo era svanito, se n’era andato, li aveva lasciati, liberi di perdersi nella loro passione. Liberi di ubriacarsi di vita, di baci, liberi di credere che sarebbe stato infinito.

Labbra contro labbra, poi, due respiri affannati che si scontravano, unendosi, mentre mani roventi li strattonavano l’uno contro l’altro, mentre i loro corpi si cercavano, bramando di unirsi, di fondersi…

“Non mi fermerò.”

Per poi tornare a perdersi nel calore, lasciandosi rapire. Lasciandosi bruciare.

Non si sarebbero fermati. Non stavolta.