.|. Wound (il Dono degli Uomini) .|.

2. Memory

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Pochi bagliori di brace languente nel camino. Il fuoco stava per spegnersi.

Senza muoversi, rimase sul sedile di legno, le mani appoggiate alla superficie liscia, il capo chino.

Una raffica di vento improvvisa aprì un battente dell’alta finestra, di lato a lui, facendo rientrare la pesante tenda di panno, che sventolò gettando voli d’ombra sul pavimento.

La sala delle udienze, la prima in cui era entrato da re.

 

 

“Stasera tu stavi per morire. Io stavo per vederti morire”.

 

Aveva un volto serio e sgomento, e la sua voce gli aveva ripetuto più volte, perentoria, di non farlo più.

 

“Non devi più correre un rischio del genere. Guardami. Devi prometterlo, Estel!”

 

Era vero, aveva rischiato più di quanto fosse sensato fare. Ma una collera infuocata era avvampata nel suo cuore durante il combattimento, e per questo si era parato da solo davanti a quella creatura enorme, mostruosa, circondata da orchi. Andúril scintillava nel buio e una ferita terribile aveva inferto all’essere. Ma sarebbe stato sopraffatto dalla sua mole. Già si pensava finito.

Poi un sibilo, e il rumore sordo della freccia. E altre frecce, una dopo l’altra, scoccate con una tale velocità da posizioni diverse che non era riuscito a percepire il suo spostamento.

Ma sapeva che era lui: solo lui era capace di questo.

Un colpo violento, in mezzo agli occhi. Il mostro aveva vacillato con un lamento bestiale, ed era crollato a terra

Ma Legolas non si era fermato a guardarlo: aveva cercato lui, e aveva uno spavento mortale dipinto negli occhi. Lo aveva trascinato via con una tale forza che lo aveva quasi fatto cadere.

 

*

 

Quando lo assalivano quei ricordi, senza che potesse arginare l’onda della loro amarezza, pensava che vivere e andare avanti fosse una prova troppo grande da sopportare. Lo pensava sempre, e ogni volta si sentiva come se il suo dolore non potesse essere più profondo.

E ogni giorno si accorgeva, incredulo, che poteva.

 

 

Voltò il capo, come riscosso, in direzione del fuoco, e rimase in silenzio a osservare la mano bianchissima e leggera che lo ravvivava, con il ferro appuntito.

Incontrò il suo sguardo dolce, preoccupato per lui, e le sorrise con tenerezza.

 

Non vedeva volentieri molte persone, in quel tempo, al di fuori delle occasioni ufficiali. Ma lei sì. Tante cose avevano affrontato insieme ed era come, ormai, se avessero un passato comune.

Un amore non vissuto, profondo come era stato quello di lei, può unire due spiriti che non si sono incontrati in un legame tenero d’amicizia, capace di durare una vita.

L’attese mentre si avvicinava, e prese la mano che gli tendeva.

Ed Éowyn, dama d’Ithilien, carezzò i suoi capelli mentre il capo di lui si appoggiava al suo grembo, con un sospiro che non nascose.

Lo tenne così, senza dire nulla.

 

Éowyn, fanciulla guerriera di Rohan, che un tempo lo aveva amato, e non aveva desiderato più nulla quando egli le aveva dato solo comprensione e pietà.

Aveva cercato una morte coraggiosa in battaglia, uccidendo il Re dei Nazgûl, e la ferita che aveva ricevuto allora non era stata più viva di quella che già portava nel cuore.

 

Éowyn, che poi era guarita tra le braccia di Faramir, che non le aveva offerto la sua pietà.

 

Era stato felice, quel giorno che li aveva visti baciarsi sopra le mura, davanti a tutti. Perché finalmente quel giorno, fuori dalle Case di Guarigione, l’inverno era scomparso da lei e il sole brillava nei suoi occhi. Era stato felice di renderla Dama d’Ithilien, sposa di Faramir, principe e compagno del Re sui colli dell’Emyn Arnen.

 

Puoi dimenticare qualcuno con cui hai riso. Ma non puoi dimenticarlo se avete pianto insieme.

 

E avevano pianto, troppo presto, insieme, Aragorn ed Éowyn.

Lei aveva ascoltato il suo dolore, cullandolo con voce tenera sulle labbra. E poi aveva avuto un bisogno disperato che lui l’ascoltasse. Perché Faramir era morto nel pieno del loro amore, e l’aveva lasciata sola con il cuore annientato.

 

Anch’egli aveva sofferto moltissimo quella morte. Faramir era suo amico, ed era come lui. Coraggioso, e gentile, e capace di leggere dentro ai cuori. La luce nei suoi occhi era intensa: tenera e grave, e triste quasi di un presagio dolente dentro al volto bellissimo.

 

“Non riposerai dunque mai, Re Elessar?”

“Non più, temo, diletta amica. Ma è bello quando il tuo viso compare nella notte”.

Pensò che non avrebbe voluto lasciarla partire, perché tornasse al suo posto nell’Ithilien. Troppo rare erano le visite che faceva al palazzo, da quando il governo della terra di Faramir era stato suo.

L’aveva lasciato a lei, perché aveva un cuore valoroso e buono. Ed era diventata forte, per aver molto sofferto.

Ella conosceva il suo compito. Se l’era assunto col coraggio tenace che, sempre, nelle anime grandi, è il frutto inatteso della fragilità.

Questo egli sapeva, degli uomini e delle donne.

E chissà perché è proprio la perdita definitiva di ogni speranza a rendere giusto un essere umano.

 

“Éowyn, tu pure non puoi dormire, stanotte. C’è dunque un luogo o un momento su questa terra in cui si possa deporre la fatica di vivere, almeno per poco?”

Egli le parlava sempre col cuore aperto, come non faceva con nessun altro.

“Non lo so, sire. Il dolore che vedo nella tua anima è troppo simile al mio perché possa darvi una risposta. Forse esiste, ma è soltanto un momento, e tutto il resto sta intorno per ricordare alla mente quanto sia incerto e prezioso”.

“Eppure non si può vivere senza averlo conosciuto”.

“No. Senza credo di no. Ma dopo sì. Dopo averlo conosciuto si può, temo”.

 

Egli si alzò, e la prese tra le braccia e la strinse forte.

“Io vorrei che tu non avessi dovuto soffrire. Vorrei aver avuto il potere di decidere sulla felicità solo per ordinare che tu ne avessi infinita”.

Ella si sciolse appena, e posando il braccio sul suo petto, portandogli la mano al viso, lo carezzò piena d’amore e malinconia. Per la prima volta, dopo tanto tempo, lo chiamò per nome.

“Aragorn, mio amico e signore. Io conosco il bene che mi vuoi. E tanto è il bene che ti ho voluto. Se adesso posso vivere ancora è anche per questo, e non voglio che tu soffra per me”.

Le sfiorò la guancia, con gli occhi lucidi.

“Ti manca molto”.

“Lo amavo”, ella rispose limpida, senza abbassare lo sguardo.

 

*

 

Amore è una parola troppo dolorosa, a un certo punto della vita.

Non la si pronuncia spesso.

Egli non la diceva mai, e sentirla gli fece chinare il capo.

Non aprì le sue braccia, e la tenne a sé ancora un poco.

 

Eppure, un giorno, l’aveva detta.

 

 

***

 

“Non abbandonarmi, Estel... non perdere la fiducia...”

Stava piangendo mentre glielo diceva, e la pioggia gli cadeva sul viso mescolandosi alle lacrime.

Piangeva, perché lui non credeva più in se stesso, e lo aveva visto spezzato quando lo aveva trovato solo, accanto al corpo di Boromir, con la mano inerte stretta tra le sue.

 

La Compagnia dispersa, e gli Hobbit che non c’erano più, Gimli che si era lanciato all’inseguimento degli orchi. E Boromir morto.

“È colpa mia - aveva detto pieno di disperazione -. Non meritavo la fiducia che avete riposto in me. Vi ho portato alla morte, e ora non so cosa devo fare...”

Aveva piantato i pugni nel  fango, e aveva fissato il volto senza vita del valoroso figlio di Denethor.

 

“Ho cercato di togliere l’Anello a Frodo - gli aveva confessato Boromir -. Chiedo perdono, ho fallito”.

“No!” aveva risposto lui allora prendendogli la mano mentre moriva. “Hai vinto, invece. Pochi hanno conosciuto un simile trionfo. Rasserenati! Minas Tirith non soccomberà!”

Boromir aveva sorriso, prima di spegnersi.

 

Solo, inginocchiato davanti a quel corpo, Aragorn era rimasto a lungo. E Legolas lo aveva trovato così. Niente di ciò che aveva detto era riuscito a consolare il suo rimorso.

“La colpa grava sulle mie spalle”, aveva risposto, una volta sola.

 

La notte avevano reso onori funebri al caduto, deponendo il bel corpo in un’imbarcazione, pettinato e vestito, con l’elsa della spada in frantumi al fianco e sotto i piedi le spade dei nemici uccisi. Lo avevano affidato alla corrente dell’Anduin, perché il fiume di Gondor ne avesse cura, e non permettesse ad alcuna creatura malvagia di disonorare le sue spoglie.

 

Egli aveva intonato un canto a bassa voce per Boromir, e non aveva mai rivelato a nessuno la sua confessione.

 

 

Ma poi si era sentito incapace di andare avanti.

 

“Non abbandonarmi, Estel...”

Sotto la pioggia lo aveva inseguito, mentre gridava il suo dolore, la sua vergogna. Lo aveva tirato per la mano perché non gridasse più.

Erano rimasti soli, dopo un viaggio tremendo e inutile, senza sapere nulla degli altri. Al buio, nella notte, sotto la pioggia battente.

Non abbandonarmi.

Stava piangendo mentre glielo diceva.

Ma egli non aveva orecchie per sentire quella preghiera. Non aveva occhi per vedere quel pianto. Lo aveva scacciato, al colmo del dolore, ed era fuggito via per prendere le sue cose, per andarsene da solo e scomparire per sempre.

Legolas lo aveva inseguito, fino alla tenda nel fondo del bosco che era il loro riparo.

Gli aveva preso le spalle, mentre era chino a raccogliere armi e vesti, e aveva stretto il viso sulla sua schiena.

“Non disperare, ti supplico, non lasciarmi...”

Allora si era voltato quasi con rabbia, e lo aveva scosso: “Perché vuoi seguirmi? Per morire anche tu?” Lasciami, e forse vivrai, aveva gridato.

Poi gli si era scagliato addosso, in una furia sconvolta, e lo aveva gettato a terra, finendo sopra di lui.

Legolas non si era difeso.

“Non lasciarmi - aveva mormorato ancora, fissandolo, mentre ansante lo guardava fuori di sé, le mani piantate a terra, di fianco al suo viso -. Uccidimi adesso, piuttosto”.

Allora era stato travolto dalla commozione, e aveva sentito i battiti del cuore impazzire. Lo aveva tirato a sé abbracciandolo contro il suo petto. E lo aveva baciato disperato, quasi con violenza, senza fermarsi.

“Perdonami, perdonami...”, lo aveva implorato, mentre lo sentiva tremare.

 

Era stato il calore del suo corpo addosso, e la vita che si ribellava alla troppa morte che aveva visto. Erano state le sue mani, e la sua pelle, e la gioia convulsa con cui stava rispondendo ai suoi baci.

Lo aveva spogliato completamente, senza pensare, semivestito sul suo corpo candido e nudo, sulle pelli del giaciglio. Col rumore della pioggia su loro, sopra la tenda, gli aveva quasi morso il labbro, respirando il suo respiro agitato.

E poi  era successo, e non si ricordava nemmeno i gesti con cui l’aveva toccato, perché era la prima volta che lo faceva anche lui. Ma era successo subito, si era spinto contro il suo corpo, si era slacciato in fretta e l’aveva preso con lenta passione, senza permettergli di dire di no.

“Ti prego... Legolas...”, aveva detto con gemiti inarrestabili, e gli sembrava di impazzire a sentirlo così, a vederlo muoversi e supplicare, a farlo suo come in una febbre. Non si era fermato, tenendolo a sé con le mani strette sulla sua pelle, finché lui l’aveva accolto e i suoi lamenti erano divenuti gemiti appassionati. E non si era reso conto di quanto tempo durasse, perché sembrava un tempo lunghissimo, ma il piacere era così forte che a ogni secondo gli pareva di non poter resistere più. Finché Legolas, annegando nella passione, aveva iniziato a chiedergli di non smettere mai, con parole senza senso che gli morivano in gola. Allora, fuori di sé, si era sentito quasi mancare, e aveva lasciato andare un grido roco e sconvolto vedendolo abbandonarsi e godere, e gli era sembrato che un fuoco divampasse nella sua testa mentre veniva dentro di lui.

 

 

Erano rimasti così, ansanti, allacciati, con la pioggia che crepitava costante e fine sopra la tenda. La guancia contro la sua, le labbra schiuse dall’emozione, dallo stupore, gli occhi aperti nella semioscurità che imparavano a percepire le forme. Si era fissato con lo sguardo sulla mano di Legolas intrecciata alla sua: che continuava a stringerla forte, anche se il viso era abbandonato di lato, e il respiro si era fatto più lieve. Sembrava dormisse, ma la sua mano lo serrava, quasi in un gesto di possesso, e di timore che fuggisse via. Lo ascoltava su di sé in silenzio, le ciglia chiuse, e a un certo punto una lacrima gli era scivolata lungo il viso.

“Legolas”, aveva chiamato, scuotendolo un poco.

Non aveva aperto gli occhi, e aveva solo voltato il viso verso di lui, con un sospiro senza rumore.

“Legolas, io...”

E non sapeva, in realtà, quali parole sarebbero uscite dalle sue labbra. Poi si era accorto che le sole parole non potevano contenere ciò che stava provando.

Gli aveva accarezzato il viso fissandolo, pianissimo. Lo aveva baciato con una commozione che gli sembrava traboccasse dal cuore.

Allora aveva visto i suoi occhi aprirsi, e incatenarlo. Si era sentito incapace di distogliere lo sguardo, mentre le labbra di lui si muovevano, lentamente.

“Dimmelo adesso, Estel...”, aveva sussurrato soltanto, il volto serio.

Era bellissimo, il suo volto. E il cuore, adesso, era come se non potesse piangere più.

“Ti amo”, gli aveva detto, posando la fronte sopra la sua.

 

 

*

 

Quella sera, e la notte appassionata che era seguita, lo avevano trasformato. Come se l’aver detto quelle parole, aver fatto l’amore con lui, gli avesse spiegato tutto. Per tanto tempo non aveva avuto più dubbi su cosa fare.

 

La mattina dopo, ancora prima che sorgesse il sole, avevano smontato la tenda. E, cancellata rapidamente ogni traccia dell’accampamento, si erano messi in marcia puntando verso il Mark per cercare gli amici dispersi. Avevano percorso quarantacinque leghe in tre giorni, e sul finire del quarto avevano fermato il galoppo dei cavalieri di Rohan, comandati da Éomer, terzo Maresciallo del Riddermark. Una selva di lance era stata puntata contro di loro.

Ma quando egli aveva aperto il manto scoprendo l’elsa della spada, e la lama di Andúril, sguainata dalla sua mano, aveva lanciato il bagliore di una fiamma improvvisa, Éomer era indietreggiato. E, nonostante fosse a cavallo davanti a lui che era a piedi, sembrava diventato più piccolo, di fronte alla sua maestà.

“Io sono Aragorn figlio di Arathorn - aveva gridato allora -, e sono Elessar, Dúnadan, erede di Isildur figlio di Elendil di Gondor. In momenti come questi un uomo non chiede il permesso di seguire la propria pista. E conterà le teste dei suoi nemici soltanto con la propria spada! Hai tu intenzione di aiutarmi o di opporti?”

Legolas lo aveva guardato stupefatto, perché mai lo aveva veduto in quel modo. Sul suo volto lampeggiava l’immagine della potenza dei re di pietra.

Éomer aveva abbassato gli occhi fieri, con venerazione e timore dipinti in viso. “Questi sono davvero giorni strani, sire - aveva mormorato -. Sogni e leggende divengono realtà e sorgono dall’erba dei prati”.

 

*

 

Da quel momento gli eventi avevano preso una piega nuova, nel segno del suo ritorno, e i mille frammenti di quel loro mondo impazzito, che pareva in piena rovina, avevano preso a ricomporsi insieme con una rapidità e una precisione incredibili. Gandalf era tornato più grande e più forte, rinato dalla caduta. Rohan si era schierata con loro, col suo re Théoden restituito a se stesso. Avevano sbaragliato l’esercito di Saruman al Fosso di Helm, Isengard era caduta, e avevano ritrovato gli Hobbit.

 

E una notte, da solo, aveva guardato nel palantír di Orthanc, rivelandosi a Sauron.

 

Una notte, da solo. Lo aveva fatto perché era venuto il momento. Una notte intera, da cui era uscito provato come da nient’altro nella sua vita. In cui aveva piegato la pietra al suo volere e aveva mostrato se stesso al Nemico, sostenendo la sua forza tremenda. L’Occhio che aveva sconvolto Peregrino, irretito Saruman, accecato Denethor, non l’aveva sconfitto.

Da quella notte Sauron aveva avuto paura.

 

Gandalf l’aveva guardato, quando era tornato tra loro. Senza dire nulla. Ma nei suoi occhi penetranti e vivi aveva scorto la luce di un rispetto profondo. Quella che aveva compiuto era stata un’azione di una grandezza e di un coraggio immensi. E aveva letto, nella mente dello stregone, la domanda eterna e irrisolta sul mistero della natura umana, infinitamente fragile, e infinitamente forte.

 

 

Un uomo.

Soltanto un uomo.

Unicamente un uomo.

 

Forse era questo che intendevano le profezie antiche, che parlavano di un nuovo tempo, in cui sarebbe stata la stirpe di Númenor a governare sulla Terra di Mezzo.

 

*

 

Eppure, nei giorni venuti dopo, quando la mente raccolta nella prova immane della concentrazione era lentamente tornata a perdonare se stessa; quando la fatica implacabile che scavava linee senza età sul suo volto era infine scivolata via; quando la tensione della lotta nel suo spirito si era allentata, ed egli era riuscito di nuovo a sentire nel corpo la stanchezza, una stanchezza infinita; allora, nel sospiro stremato che gli era uscito dalle labbra, aveva avuto un unico pensiero, e un unico desiderio.

E lo sguardo, nell’oscurità silenziosa di Edoras, nella grande stanza in cui i guerrieri dormivano, si era posato sul corpo di Legolas avvolto nel giaciglio vicino al suo. Seduto sulle coperte pesanti lo aveva fissato a lungo, vegliando, solo nel sonno profondo di tutti. E aveva sentito le lacrime bruciare gli occhi inariditi dal dolore, senza cercare di trattenerle. E aveva potuto accogliere, finalmente, la consolazione del pianto.

 

 

*

 

La notte dopo si erano cercati, e si erano amati nella stanza che a lui solo era stata riservata, nel palazzo di Théoden. Era stato bellissimo e intenso come mai era accaduto prima. Era stato come se fossero una cosa sola.

 

Tutte le lunghe ore di una notte che sembrava aver rallentato il suo corso, per proteggere quell’amore.

Lo ricordava perché lo aveva pensato dopo, mentre, a un passo dal letto che avevano condiviso, osservava dalla finestra il cielo pieno di stelle e la luce che scendeva carezzando il corpo di Legolas, addormentato col viso dentro il guanciale. E la sua schiena nuda, illuminata d’azzurro, mossa appena dal respiro regolare del sonno. Un sonno fiducioso, e felice.

Gli era tornato accanto e lo aveva guardato ancora, in piedi vicino al letto, ascoltando in silenzio il ritorno del desiderio nel sangue, e il suo brivido dolce, e urgente. Si era chinato piano a baciargli le spalle e si era steso su di lui ancora, carezzandolo con le labbra poco a poco, cercando il sapore della sua pelle. Lo aveva svegliato così, e aveva sfiorato il suo collo, la nuca, la curva morbida dei fianchi che si offrivano al suo abbraccio. Lo aveva baciato infinitamente, tracciando un sentiero ignoto tra le sue cosce, mentre lo stringeva tra le mani, cercandolo, esplorandolo con la lingua. Ne aveva assaporato i gemiti ansiosi e il vibrare del desiderio e l’abbandono completo all’intimità crescente e intensa delle carezze, il cedere provocante della sua carne al tocco delicato e attento delle sue dita. Lo aveva tormentato a lungo coi baci, fino a farlo quasi impazzire, finché aveva implorato. E poi lo aveva stretto e portato a sé, la mano tesa in un fremito sul suo ventre, i fianchi premuti su di lui che si offriva, che lo cercava, che lo chiamava per accoglierlo. Erano stati quei gemiti a sconvolgergli la mente, e mescolandoli a quelli che sentiva affiorare sulle labbra si era fatto guidare dal movimento intensissimo del bacino che s’inarcava verso il suo. Si era spinto contro di lui e dentro il suo corpo totalmente arreso, lo aveva posseduto godendo in un’intensità travolgente, spasmodica, folle, fino a morirne, carezzandolo, trattenendolo, bloccandolo nel piacere con la mano avvolta intorno al suo sesso, spingendolo con i fianchi. Aveva gridato e ansimato e supplicato accelerando i movimenti e inseguendolo mentre gli sfuggiva, gli si premeva contro rispondendo ad ogni sua spinta con un moto convulso nella sua stretta, mentre si agitava senza più alcun controllo, stordito, in suo completo potere. Lo aveva fatto godere così, affondando con passione dentro di lui, afferrandosi in uno spasimo alla sua vita, e aveva goduto nello stesso momento in un ultimo impeto deciso, profondo, definitivo.

 

Poi si erano separati ansimanti, e aveva mosso piano la mano sul ventre di lui, che gli era disteso accanto. L’aveva sentito prenderla, allora, e portarsela alla bocca, succhiandogli le dita lentamente. E restituirla al suo torace, e accarezzarlo tremante, affondando appena nei muscoli ancora tesi. 

Lo aveva avvolto tra le braccia con un gemito, tenendolo raggomitolato contro il suo petto.

 

 

Era stato allora che ne avevano parlato per la prima volta.

Gli aveva detto che lo amava, con una fiducia e una semplicità che il suo cuore non aveva mai  provato prima. E Legolas aveva sollevato il viso sul suo, e lo aveva fissato a lungo, senza rispondere nulla. Lo aveva baciato teneramente, un bacio breve.

“Mio signore - gli aveva detto con un accento emozionato e quieto -, fai di me ciò che vuoi. Tu sei la mia guida, il mio mondo, sei il motivo per cui  sono arrivato fino a oggi. La mia vita ti apparterrà per sempre, se tu la accetti”.

E lui, che mai prima di allora aveva creduto di poter accogliere una promessa come quella, che sempre aveva avuto timore di non meritarla, di non saperla appagare, era stato al colmo della gioia per quelle parole, per il loro significato.

Non aveva dimenticato nulla del suo destino mentre pronunciava la risposta: “Il tuo amore  mi ha fatto conoscere cosa sia la felicità - aveva mormorato -. Lo accetto, perché senza di esso non avrei più alcun desiderio di vivere. Ma ti supplico, accetta il mio, anche se vale tanto poco l’amore di un mortale di fronte agli Eldar. Perché sono io che ti appartengo, e ho ben poco da darti, eccetto l’immensità di quello che provo”.

 

Ricordava come se potesse vederlo ancora il percorso della lacrima scesa lungo la guancia di Legolas, fino alle labbra. Quella era stata la loro unione, suggellata da un bacio dal sapore salato, e da un giuramento muto che aveva fatto a se stesso. Mai più il suo cuore sarebbe stato di qualcuno che non fosse lui.

 

*

 

Era stato allora che ne avevano parlato per la prima volta.

 

“Dimmi degli uomini, Estel”.

“Cosa vuoi sapere?”

“La loro storia, il sentimento che trema nei loro petti. Qual è il loro segreto? Perché a volte sembra che un coraggio immenso nasca dalla debolezza della loro stirpe?”

Aragorn aveva sospirato, carezzandogli la spalla.

“È la loro condanna, ed il loro dono”.

“Cosa vuol dire?”

“Vuoi saperlo davvero? È solo una vecchissima leggenda Dúnadan”.

“Raccontamela, ti prego”.

Aveva scosso il capo, e gli era sfuggito un sorriso triste. Di tutte le storie che fin da bambino gli avevano narrato quella era la più strana, e la più indecifrabile, e vera. Non aveva mai potuto spiegarsela del tutto. Eppure, col tempo, conoscendo il dolore dell’esistenza, aveva iniziato a sentirne il significato nel cuore.

“È il racconto della caduta, e del riscatto”.

*

 

“Un tempo gli Uomini erano carissimi ai Valar che li avevano creati, e vivevano in felicità assoluta, senza sapere cosa fosse il dolore. Non conoscevano la morte, ma solo una vita perenne e lieta. Erano così felici che nemmeno capivano di esserlo, e accoglievano lo spuntare del sole senza farsi domande, dormivano placidi e miti alla luce della luna. Non contavano lo scorrere dei giorni, non sapevano cosa fosse il tempo. Tra loro non c’erano lotte, ma solo una costante armonia, una fratellanza senza odio e rancore”.

 

“Sembra una delle nostre storie”, aveva detto Legolas sospirando, con la testa sulla sua spalla.

“No, non lo è. È molto diversa dalle vostre storie”.

 

“Un giorno un uomo di nome Haulë, il migliore di tutti e il più amato dai Valar, alzò gli occhi verso il cielo sopra di lui e rimase a guardare le nubi a lungo. Provò all’improvviso un sentimento del tutto ignoto che gli chiuse il cuore in una stretta penosa, mai sperimentata prima. I Valar lo videro, e divennero seri e preoccupati. Gli chiesero cosa gli fosse accaduto, ed egli disse che forse al di là del cielo c’era qualcosa, e che pensarlo lo aveva fatto sentire diverso. Le divinità gli chiesero in che modo si sentisse diverso: «È una cosa buona quella che hai sentito?», gli dissero. «Non lo so - rispose -. Non mi faceva star bene, ma adesso non vorrei non averla provata».

“Allora i Valar capirono che la stirpe degli uomini stava per perdersi, e tentarono l’unica strada per salvarla, mettendola alla prova. Condussero Haulë davanti al confine tra il cielo e la terra e gli mostrarono il varco che li divideva, chiuso da una porta. Gli diedero un involto protetto da pelli cucite e gli dissero che dentro c’era una chiave per aprirla. Ma gli dissero anche che, se l’avesse usata, quella porta non sarebbe stata mai più richiusa, ed egli avrebbe perso tutto quello che aveva, e non sarebbe più potuto tornare indietro”.

“Haulë rimase a lungo davanti alla porta, senza sapere che cosa fare. Avrebbe voluto andarsene ma qualcosa lo tratteneva là, lo costringeva a rimanere fermo in quel luogo, come un peso che gli gravasse costantemente addosso. Il sole tramontava e sorgeva e lui era sempre là, seduto su una pietra, bramoso di sapere cosa ci fosse oltre il cielo e sempre più insensibile alla vita che aveva conosciuto prima. Finché si accorse che non gli importava più nulla di perdere tutto ciò che aveva, perché il dubbio si era impadronito di lui e la vita di prima non aveva alcun significato, oramai”.

“Allora gridò pieno di dolore e aprì l’involto di pelli, per prendere la chiave che apriva il confine tra terra e cielo. L’afferrò, aprì la porta e guardò, e si accorse con orrore che al di là del confine tra terra e cielo non c’era nulla. C’era un nulla immane e sconvolgente, che non avrebbe mai potuto affrontare. Da quella porta rimasta aperta il male entrò e s’insinuò per sempre nel suo cuore e nella sua vita, diffondendosi sulla terra, condannando lui e gli  uomini a una eterna infelicità”.

“Haulë conobbe il proprio errore, allora, e pianse e si disperò, chiamando in aiuto i Valar. Essi lo udirono a lungo, restando impassibili, ma alla fine ebbero pietà di lui e scesero a consolarlo. Gli dissero che mai più le cose sarebbero state come prima, perché egli adesso aveva conosciuto il male, e il dolore, e la sua vita avrebbe avuto una fine. Ma gli dissero anche che proprio quello sarebbe stato il suo dono. La morte. Perché la morte, se fosse stato capace di accettarla, lo avrebbe reso migliore di quanto non fosse mai stato”.

“È un dono amaro”, egli disse allora, con gli occhi pieni di lacrime sul varco aperto, guardando cosa aveva fatto. E vide che al confine, proprio sulla soglia, era rimasto qualcosa. Quella che gli uomini chiamano speranza”.

 

 

*

 

Aveva sospirato, terminando il racconto: “Da allora siamo mortali, e conosciamo la sofferenza, e siamo tormentati dal dubbio, e sappiamo cos’è l’amore e che cos’è l’odio. E moriamo. Ma sappiamo sperare, e possiamo imparare a vivere, se impariamo a morire”.

 

Legolas lo aveva fissato con un’attenzione profondissima, per tutto il tempo, e non aveva risposto al sorriso che gli aveva fatto. Si era stretto di nuovo a lui senza dire nulla, in un tremito.

“È vero, è una storia strana”, aveva detto.

Poi, dopo un silenzio che era durato a lungo, restando appoggiato contro il suo petto, aveva parlato ancora, a voce bassissima, senza guardarlo.

“Ma allora, Estel, anche la speranza è un male, se era oltre il confine di quella porta?”

“Me lo sono chiesto tante volte, ma non lo so. Era sulla soglia, proprio sulla soglia. Forse è un male davvero, può darsi. Ma se è un male lo è nello stesso modo in cui lo è la morte”.

 

Legolas aveva alzato il  viso ancora, e negli occhi gli era passato uno sguardo strano. Pieno di sofferenza e insieme quasi di serenità, di una gioia determinata e seria.

“È vero che la morte è un dono - aveva detto -. Sarebbe un tormento atroce sopravviverti”.

 

Egli aveva avuto un’improvvisa paura, e gli si era girato sopra, stringendolo per le spalle. “Cosa hai visto nello specchio di Galadriel? Che cosa hai visto, Legolas?”

 

 

*

 

Gli aveva risposto con un bacio, e non glielo aveva detto. E nei giorni successivi sembrava, anzi, che avesse dimenticato quei discorsi. Aveva sorriso spesso, e si era offerto ai suoi abbracci giocando, con una gioia che a tratti sembrava quasi infantile.

Lo faceva la notte, soprattutto, quando si chiudevano da soli in quella stanza. Fingeva di volergli sfuggire e lo provocava a prenderlo, fingeva di lottare con lui e coi suoi baci, ridendo felice, a lungo, su quel letto, finché il tocco della lingua sui capezzoli gli  faceva morire il sorriso, e il gioco si stemperava in una morbida resa alle sue carezze. Abbandonava il capo all’indietro, allora, i capelli biondi sparsi sui cuscini, lasciava che lo spogliasse con gli occhi chiusi, e offriva la pelle nuda alla sua bocca. Il suo corpo vibrava mentre lui lo teneva fermo con le mani sui fianchi, e le labbra lasciavano andare un sussulto quando iniziava a succhiarlo lentamente.

Lo succhiava a lungo, mentre Legolas gli infilava le dita tra i capelli, tremante. Gli faceva perdere la testa tormentandolo con un ritmo struggente, irregolare, affrettando i movimenti e poi fermandosi quasi, quando lo sentiva troppo vicino a godere. Ricominciava piano, avvolgendolo con la lingua in un moto crescente, ma senza fretta, facendolo scomparire nella sua bocca, il capo che si chinava su di lui, come intento in una preghiera. Una volta lo aveva succhiato così adagio, così delicatamente, facendo così tante pause trattenute e inquiete, e riprendendo poi con intensità inattesa così tante volte, che Legolas aveva iniziato a gemere in un lamento sommesso, un delirio continuo e fuori di sé, e sembrava divenuto incapace di venire, il sesso durissimo quasi immobile tra le labbra che lo torturavano, mentre il cielo della notte fonda iniziava a cambiare colore. Non aveva avuto pietà, e aveva continuato a succhiarlo in quel modo, lentissimamente, senza affrettare il ritmo neanche quando aveva capito che era arrivato al culmine, e non avrebbe sopportato un istante di più. Lo aveva fatto impazzire con la bocca avvolta su di lui, con la lingua che dentro lo sfiorava appena, e quando lui era esploso in un rantolio stravolto, come se morisse, aveva assaporato eccitato il grido animale che aveva fatto, e il seme che sgorgava in getti caldi, e continui, come l’onda di un fiume in piena.

Lo aveva lasciato qualche secondo così, come svenuto sul letto. Poi lo aveva voltato subito, e lo aveva penetrato con foga appassionata, sprofondando in lui senza che gli opponesse la minima resistenza.