.|. Wound (il Dono degli Uomini) .|.

Premessa. Ci avevamo scherzato, all’inizio, io e LoLL, dicendo che - quando fossero usciti - i nostri racconti avrebbero dovuto celebrare la loro Unione con un rito solenne. Ma a pensarci bene è vero, nonostante gli scherzi. “The end” e “Wound” sono cresciuti insieme, e, anche se hanno avuto tempi diversi, in principio, ciò che li lega profondamente è un sentimento comune. La storia di LoLL - che lei aveva iniziato a scrivere tanto tempo fa, e che però in questo periodo ha ripreso in mano - e la mia che è venuta dopo - e che inizio a pubblicare qui - sono mosse da un’ispirazione e un’idea che appartiene a entrambe, sulla quale in un certo senso abbiamo riflettuto in modo simmetrico.

Pensavamo a LOTR e al tema del rapporto tra l’amore e la condizione di mortalità/immortalità.

Mi ha molto colpito il modo in cui, nel libro di Tolkien, la morte viene definita: “il dono degli uomini”. Mi ha colpito perché forse ho sentito che era una cosa vera.

Perché “dono”? Cos’è che rende uomini i mortali, e degna di essere vissuta la loro vita?

Il racconto di LoLL, nel suo dipanarsi struggente, parte da una riflessione sull’immortalità, sul fatto che essa possa non essere un bene, ma una condanna. Il mio racconto prende le mosse dal pensiero che la morte possa non essere un male, ma un privilegio: qualcosa che sia dato agli uomini per comprendere il senso della loro esistenza.

Entrambe abbiamo pensato che lo strumento, la via per arrivare a capire ciò, fosse l’amore.

Naturalmente non mi metterò a fare filosofia su un argomento come questo: anche perché - ammesso che ne fossi capace - non credo che avrebbe molto senso.

Ho scritto un racconto, invece, esprimendo delle emozioni. E anche LoLL ha fatto la stessa cosa.

Beta: LoLL... Be’... veramente oltre alla Beta dovrei assegnarle l’intero alfabeto greco, visto che è l’artefice della mia passione per LOTR, colei che mi ha esortato, incoraggiato e invogliato a scrivere una fic su questo, colei che mi ha instillato il demone dello slash facendomi leggere le sue bellissime storie (e prima di tutte la gemellina di questa, “The end”, per la quale ho un’adorazione particolare fin dalla prima scena, e sappiamo di cosa sto parlando...  ^__-), colei che ha seguito e sta seguendo questo racconto pagina dopo pagina, con commenti pieni d’entusiasmo, suggerimenti azzeccatissimi e passione incredibile. E naturalmente anche colei cui la mia storia è dedicata, per tutto questo e per molto più di questo. Grazie, ti adoro!

Disclaimer: I personaggi non mi appartengono ecc. ecc... (soprattutto il fatto che non mi appartenga Aragorn mi causa un dispiacere enorme, cui ho cercato di rimediare impadronendomene qua). Traggo dall’opera di Tolkien anche alcune citazioni testuali. 

 

1. Lysimeles

~

Una cosa non era riuscito a strapparsi da dentro l’anima, dalla pelle: lo scivolare come una carezza della massa dei suoi capelli, sopra il suo braccio che lo stringeva ancora. Il tremito delle labbra che dicevano il suo nome per l’ultima volta, mentre reclinava il viso. L’immagine di questo, ma soprattutto il contatto. Il senso di calore nel corpo, e il suo perdersi nella notte.

“Non è vero che è un dono amaro”, aveva detto.

Egli si era interrogato per giorni su quel sorriso. Tenue e luminoso insieme. Il sorriso che gli conosceva, impossibile da afferrare come quello della sua gente. Eppure, appena un istante, di più, molto più di quello. Un pallore fiducioso e quieto, che parlava di gioia, e di addio.

 

Un battito dopo l’altro, per andare avanti lo stesso. Ma come è possibile, si era detto allora, mentre intorno non vedeva più nulla, e una nuvola aveva avvolto il rumore della battaglia, e c’era solo il suo viso diafano, davanti alle labbra socchiuse dallo stupore di perderlo, e i suoi capelli che gli cadevano in grembo, mentre lo teneva.

Un battito dopo l’altro, si era ripetuto. Se le mani di un re possono guarire. Se possono trattenere la vita che scorre via ingannevole e dolce. Se possono impedirle di sorprendere il cuore di chi non muore, e di tradirlo.

Ma non possono guarire il re, le sue mani.

Un battito dopo l’altro. Soltanto questo.

 

Quanto tempo aveva esitato, attendendo di trovare quale fosse il suo posto, il suo ruolo.

Anni.

Per anni lo aveva fatto.

Tempi di vagabondo cercare tra i sentieri di foreste perdute una traccia remota, immobile, che indicasse la strada. Tempi di coraggio e di dubbio, e di pazienza.

Un cammino infinito, sulla neve delle montagne, nel fango delle paludi, col ricordo di una luce smarrita da cento secoli a parlare alla mente e alle gambe, e una spada spezzata da riforgiare conficcata dentro.

Raminghi, li chiamavano, quelli come lui.

Ed era vero. Lo erano. Uomini che cercano la propria memoria, o che fuggono il proprio destino, o entrambe le cose.

Una dinastia cenciosa e dimenticata, aveva detto Denethor.

Ma egli non aveva dimenticato nulla. Lo aveva saputo, e temuto, e scelto, ciò che stava per compiersi.

Era nel suo sangue da sempre, anche suo malgrado. Nella forza che gli dava respiro, nel travaglio antico delle notti senza sonno spese a fissare il male negli occhi, a sfidarlo mettendo alla prova se stesso.

Sul volto una stanchezza senza età, alla fine di quelle notti.

Era stata la sua strada, fuggita e attesa, a trovare lui.

“Loro ti seguono perché ti amano”, aveva mormorato allora la fanciulla di Rohan, che non aveva potuto amare.

 

*

 

Amare. Se l’era chiesto tante volte, prima, quale luogo misterioso e riposto custodisse il segreto di quella parola strana, che spinge gli esseri migliori su questa terra a donarsi senza ricompensa, a dedicare tutto ciò che sono e che hanno, a saper sacrificare se stessi, se necessario, col cuore pieno di gratitudine.

A seguire con la fiducia più certa un uomo che non sa la sua via. E che la va scoprendo, poco a poco, mentre li guida.

“Loro ti amano - aveva detto anche Legolas quella sera, appoggiato al fusto argenteo di un gelso -, ed è per questo che li salverai”.

Era sceso con un volteggio morbido, senza che si udisse un rumore, come se quell’albero amico facesse parte di lui.

Poi aveva deposto l’arco, come mai gli aveva visto fare, e la faretra. E si era seduto sull’erba, vicino.

 

Aveva lasciato, allora, che la sera si uccidesse nel buio, mentre ripercorreva con gli occhi chiusi la linea evanescente del suo profilo. Era stato in quel momento che si era chiesto se lui potesse dirlo con tanta calma perché quel sentimento lo conosceva.

Lo aveva sfiorato piano col suo silenzio, e una brezza indulgente accarezzava il dubbio fra le sue ciglia.

“Sì, lo conosco”, gli aveva risposto in elfico, guardando una stella, senza attendere la domanda.

 

Era stato in quell’attimo, forse per la prima volta da quando esisteva, che aveva creduto di capirlo anche lui. La prima volta che la distanza da tutto, compagna antica e tenace del suo spirito triste, aveva chiuso addormentata gli occhi liberandogli il petto dalla sua fedeltà. In quell’attimo gli era sembrato che il peso che premeva il suo cuore si sciogliesse, sfumando dolce e cupo nell’aria, e non si era più sentito disperatamente solo.

 

Per questo non si era ritratto quando la sua mano, lieve e chiara, gli aveva sfiorato il viso. Snudata del guanto da arciere era leggera, e non sembrava la stessa che, nel combattimento, sapeva scoccare colpi terribili e precisi. Eppure, avvertendo il tocco levigato delle dita che seguivano docili il contorno della sua guancia, sulla pelle da radere, gli era sembrato che quella carezza fosse più spietata ancora delle sue frecce.

“Estel”, aveva chiamato piano, guardandolo.

Ed era stato come se il suo nome, pronunciato nella lingua di lui, avesse il potere di placare ogni pena. Come se potesse avvolgerlo di silenzio.

 

Questo era accaduto, la prima sera. Una carezza sospesa, lieve. Ma il suo viso ne aveva desiderato ancora, e chiudendo di nuovo gli occhi aveva prolungato di qualche istante quel contatto inatteso. Il capo rovesciato indietro, in un gesto che non aveva deciso, e le labbra che si erano schiuse per far uscire un respiro trattenuto e scosso. Non aveva guardato quel volto quando l’aveva percepito vicino, vicinissimo al suo. Era rimasto immobile, ad un tratto le mani strette sull’erba, e la mente vuota.

 

Era stato diverso, per la prima volta diverso da come conosceva l’amore. Non come l’illusione troppo lontana di uno sguardo che trapassa il cuore e non gli dona la pace. Arwen incanto straziante, conosciuta da troppi anni e mai avuta, promessa crudele di una sposa regina dopo una lotta infinita. Arwen splendore puro, troppo puro anche per la sete ed il desiderio, e per pensarla amante di un re senza regno, a consolarti la pelle.

 

E non era stato nemmeno come con le donne mortali, compagne di poche ore tra coperte pesanti e aria bruciata di fumo, corpi caldi senza memoria cui aggrapparsi gemendo, dentro notti troppo gelide per passarle da soli. Quante ne aveva incontrate, prima di lei, nei cammini senza fine del Nord, espiando la condanna di anni sfiniti dal buio? E quando l’ultima? Quanto tempo prima?

 

Non lo ricordava più quella sera, lungo le rive erbose del Kheled-zâram, mentre la Compagnia sbandata senza più Gandalf cercava di ritrovarsi fuori dalla montagna. Un piccolo fuoco distante, per consumare una cena povera e amara, e lui che si era allontanato dagli altri per pensare, per capire dove guidarli.

Credeva di essere solo, e in solitudine aveva pianto, davanti alla superficie del lago. Profonda come le acque era la sua incertezza, sul corpo la polvere grave della fatica, della paura.

“Facciamoci coraggio - aveva detto da poco agli amici scampati a Moria -. Ci attendono una lunga strada e molte cose da fare”.

 

Eppure, davanti a quell’azzurro cupo appena increspato dal vento, egli aveva tremato, e per un attimo il suo cuore aveva chiesto pietà.

Si era seduto con la testa tra le mani, dimenticando il tempo, come se le lacrime che stava versando in silenzio potessero trascinarlo via.

Forse per questo non si era accorto che Legolas era vicino, che lo aveva seguito.

Era rimasto poco distante, aspettando che liberasse l’anima dal dolore, senza dirgli di smettere, e solo dopo che aveva rialzato il viso lo aveva visto.

“Loro ti amano”, aveva detto nella sua lingua.

Poi, con un tono così sommesso che si era chiesto se non lo avesse immaginato soltanto, e se quella non fosse stata, piuttosto, la voce della sua stanchezza, aveva mormorato: “Riposa, adesso. Non pensare a niente”.

E quelle parole, come la formula di un’antica magia, gli avevano sgombrato di colpo la mente, facendola scivolare nel sonno. La tensione nel corpo si era allentata, mentre lasciava che lui gli prendesse piano le spalle e guidasse il suo capo ad appoggiarglisi in grembo, come se fosse la cosa più naturale del mondo. L’ultima sensazione che ricordava erano le dita lievi sopra le tempie.

Aveva dormito come nuotando in un mare tiepido, senza onde.

 

Quella notte, invece, l’aveva passata desto. Ma non per la preoccupazione, l’angoscia. Non più.

Pensava a quelle mani sul viso, a quegli occhi.

E nel buio, sdraiato nel silenzio dell’accampamento, tra i respiri confusi e i sonni inquieti di tutti, aveva desiderato che quel compagno appena trovato, che la vita gli aveva messo accanto senza rumore, fosse ancora lì, accanto a lui, a sfiorarlo con le dita e con le parole. E mentre l’elfo, sulla collina, faceva il suo turno di guardia contro il nemico, aveva ripetuto quella carezza sul suo corpo riarso di nostalgia, avvolgendosi nel mantello.

 

 

***

 

 

Quel ricordo lo aveva profondamente assorbito, ed era scesa la sera sulle mura rivolte a Nord, mentre lo sguardo si perdeva oltre le terre grigie. Lo distolse il suono fitto e leggero di passi che venivano alle sue spalle. Sorrise e si voltò a guardare, aspettando.

Era bello come la madre che lo aveva dato alla luce: eppure gli occhi erano come i suoi, e gli si stringeva sempre il cuore a scoprirlo. Pregò intensamente, mentre si avvicinava, che non avesse ereditato la sua condanna.

Ma no. No. Tu non sarai mai solo, Eldarion.

Era piccolo e molto compreso del suo ruolo, nel manto verde e argento tessuto proprio per lui, fermato dalla spilla di Lórien. Gliel’aveva donata, un giorno, spiegandogli quante cose aveva passato portando quella spilla sul petto. E lui da allora non aveva più voluto separarsene: facevano gran fatica, le ancelle che lo conducevano a dormire, a fargliela lasciare sul mobile accanto al letto.

“Sire padre”, lo chiamò.

Egli lo prese in braccio, allora, e lo baciò: “Sei molto ben costumato, mio erede - disse teneramente -. Ma qui non siamo in pubblico, e il principe può accantonare il cerimoniale”.

Lo depose in piedi sul gradino interno delle mura, così che potesse guardare fuori. Sentì la piccola mano stretta sul braccio e chinò il capo piano.

“Padre...”

C’era qualcosa di timido in quella voce. Qualcosa che conosceva bene, e non avrebbe deluso. Era suo figlio, e dipendeva in tutto da lui. Era amore, e responsabilità immensa. La stessa che si era assunto salendo al trono di Gondor.

Loro ti amano. Ti amano.

 

“Padre, io sarò re, un giorno?”

“Lo sarai, Eldarion. È destino che tu lo sia”.

Il piccolo guardò verso la piana di Minas Tirith, e gli brillarono gli occhi.

“E andrò a cavallo velocissimo, comanderò l’esercito in guerra e ucciderò tutti i nemici?”

Egli sospirò, di fronte a quell’entusiasmo, e fissandolo serio e dolce rispose ciò che gli parve giusto.

“Non lo so se andrai in guerra, figlio. È probabile. C’è sempre una guerra da combattere, e un re questo non lo può evitare. Ma se mi fosse dato decidere del futuro io vorrei che tu non dovessi mai uccidere, perché la morte è un mistero che nessun uomo dovrebbe guardare con presunzione”.

Il piccolo rimase in silenzio, perché quando suo padre gli parlava in quel modo sentiva che stava dicendo cose importanti, anche se non riusciva a capirle.

E il suo viso si fece serio, d’un tratto, e fissò il cielo con espressione di adulto.

“Tu credi, padre, che lei mi veda, da dov’è ora?”

Allora egli strappò ogni dubbio da dentro al cuore, e fu forte per il suo figlio bambino ed il suo primo dolore. Gli avvolse le spalle in un abbraccio per proteggerlo e lo tenne a sé: “Io so che ti vede. Lei ti guarda con tutto il suo amore, e sarà sempre con te”.

 

Questo era stato il destino di Arwen Stella del Vespro. Scegliere una vita mortale e morire per dare  un erede a Gondor. Breve era stata la loro unione che era scritta da sempre. Pochi mesi soltanto: una notte di disperazione e altre notti di rifugio e di pace. Lei aveva accettato di chiamarlo amore, ma non era sopravvissuta alla perdita di ciò che si erano promessi senza averlo mai.

L’amore non torna indietro. Non era tornato indietro, neanche per loro due.

 

Mettere al mondo quel figlio l’aveva prostrata infinitamente, e forse era stata anche la vita che non bastava, scivolando via. L’ombra di un sentimento smarrito non serve a tener caldo un cuore, e solo la stirpe degli uomini sa vivere disillusa.

Arwen era stata lontana, sempre più lontana. Da tutto.

Non aveva dato ascolto alle sue preghiere, quando l’aveva implorata di restare, di non lasciare che il suo spirito si dissolvesse.

Era partita, e la luce dei suoi occhi era spenta. E al suo popolo sembrava che fosse divenuta fredda e grigia, come la notte d’inverno senza una stella.

 

Era rimasto solo di nuovo, con un figlio bambino.

 

Eppure sempre, quando la ricordava, provava un affetto venato di gratitudine. Ella lo aveva accettato col suo dolore, e aveva cercato di consolarlo.

 

Non era stata sua subito dopo le nozze, perché da poco tempo aveva sepolto Legolas quando il rituale di Gondor li aveva uniti. Una disperazione cupa riempiva tutto il suo petto, e quella notte, quando si era trovato solo con lei nella camera regale, si era seduto sul letto, tremando, e non era riuscito a trattenere il pianto.

Le aveva chiesto di perdonarlo, e mentre lo chiedeva sentiva che in realtà non gli importava affatto che lei lo perdonasse o no.

Ma Arwen aveva la vita degli Eldar, e leggeva nell’anima degli uomini.

“Non chiedermi perdono, sire - aveva mormorato -. Quello che vedo adesso è l’immagine di ciò che forse potrò sperare un giorno per me, se troverò la forza per consolare il tuo cuore”.

Egli aveva alzato gli occhi lucidi di lacrime e l’aveva guardata per la prima volta.

 

Erano tempi di lotta contro nemici allo sbaraglio dopo la fine di Mordor, contro orde disordinate e bande di predoni che tormentavano il regno. Sembrava che alla necessità di guerra non ci fosse mai fine, e il suo spirito si trascinava pesante da una battaglia all’altra, desiderando la morte. Era una notte di pioggia che picchiava implacabile sopra il viso, e quella notte gli orchi li avevano assaliti e avevano ucciso molti dei suoi.

Era tornato al palazzo con le vesti fradice e in pugno una vittoria stremata, e una rabbia sorda che gridava dentro, e una disperazione così fonda da non riuscire a resisterle.

Lei lo aveva accolto, e lo aveva spogliato vicino al fuoco, posandogli un bacio sulla spalla nuda.

 

Subito, forse quella notte stessa, aveva concepito. Una notte d’amore struggente e febbrile, in cui i corpi avevano lottato piangendo, unendosi, ed il cuore aveva trovato pace.

 

Per questo, per il ricordo di quelle ore, aveva amato suo figlio appena aveva saputo della sua esistenza.

 

Avrebbe passato la vita con lei come il più fedele e devoto dei mariti.

Ma Arwen sapeva che una parte di lui non aveva più vita, da troppo tempo. E da troppo tempo aveva compreso che non poteva, nemmeno lei, ritornare a prima.

 

 

***

 

 

Soffice e pianeggiante la terra di Lothlórien sotto i suoi passi.

Strano come, a volte, un particolare resti impresso nella memoria più di tante cose importanti.

Ricordava questo, di quei giorni nel bosco della Dama, in cui avevano trovato ristoro.

Giorni, ma non avrebbe saputo dire quanti.

Gli Elfi li avevano condotti con occhi bendati: eppure subito, su quell’erba ospitale, i piedi non avevano avuto timore di cadute e ferite.

Un limpido sole donava il suo sorriso a quei luoghi, e solo a volte una fine pioggerella passava, lasciando ogni cosa fresca e pulita.

Giorni, o una vita intera, con tanta pace da poter quasi dimenticare che fuori c’era una lotta ad attendere, spaventosa, e una missione senza speranza.

“Sii il benvenuto, Aragorn figlio di Arathorn, coi tuoi compagni”.

Solo quando Galadriel li aveva accolti aveva potuto riposare davvero. Aveva lasciato liberi tutti di  ristorare l’animo provato da tante pene, e non visto aveva rivolto a Frodo uno sguardo dolente, pieno di consapevole affetto. Pesante più degli altri era il suo fardello, e grande il suo coraggio nel sostenerlo.

Non era tanto forte da portare l’Anello al dito. Nessuno era abbastanza forte, eccetto lui.

“Ma tu sai che la tua forza non dovrà essere usata per questo” aveva detto Elrond.

E così era. Di quell’oggetto che tutti attraeva, irresistibile, egli avvertiva soltanto la maledizione. Non aveva potere su di lui, perché non lo desiderava: troppo lo aveva desiderato, prima, il suo sangue. E un prezzo altissimo era stato pagato.

“Tu sarai un grande re”.

Questa è la tua gloria, ed è la tua pena.

 

Ma lì, nel bosco di Lórien, tra alberi altissimi e sconosciuti, sembrava potesse quietarsi ogni angoscia. Egli aveva vagato per giorni da solo, ascoltando lo stormire del vento e la voce dei ruscelli nascosti, vestito in panni bianchi ed argento che la Dama aveva tessuto.

Di giorno, quando la luce carezzava le fronde e i raggi cullavano di tepore le radure tra i rami.

E di sera, quando il tenue bagliore della luna calante sfumava dolcemente d’azzurro i contorni delle cose, e la brezza docile e pura versava nostalgia nel petto.

 

Mai Legolas lo accompagnava, eppure spesso lo aveva trovato là, in mezzo al bosco.

Camminavano insieme, allora, senza parlare.

Senza neanche sfiorarsi, eppure così vicini.

Sempre gli tornava in mente quella prima carezza. Ed era strano, perché non c’era inquietudine, in quel ricordo, ma soltanto pace, e un desiderio sommesso di sentirla ancora. Strano, perché non si dava pensiero che glielo leggesse negli occhi.

E un giorno, mentre passeggiavano in riva al fiume, aveva capito che lo stava pensando anche lui.

Lunghi e morbidi, e luminosi come l’oro erano i suoi capelli. Non sembravano quasi reali, a vederli così vicino. Si era fermato senza dire neanche il motivo e vi aveva accostato la mano, tremante, trattenendola un attimo prima di arrivare a toccarli.

Era rimasto a guardarlo così, stupito da se stesso e da quel gesto che aveva fatto, senza riuscire a ritrarsi.

Legolas lo aveva fissato in un modo tanto intenso da levargli il respiro.

E non si era mosso. Non si era mosso di un passo.

 

Solo una frase gli aveva detto, che si era conficcata nel cuore.

“Io ti accompagno”.

Soltanto quello.

E dove mi accompagni, avrebbe voluto dirgli. Tu lo sai, dove? E per quanto tempo, per quanto tempo lo farai?

Aveva sentito, fortissimo ed inspiegabile, il bisogno di chiedergli una promessa.

Ma si era trattenuto facendo appello a tutta la sua forza, con le mani che si stringevano, prima di chinare il viso.

“Te lo giuro”, gli aveva risposto inaspettata e sommessa la sua voce.

 

Ogni giorno. Ogni giorno, da allora, avevano camminato vicini. E ogni volta che la luce cambiava sul volto di Legolas, lui si scopriva a notarne un nuovo particolare. Era come se avesse imparato a memoria i toni del suo incarnato, delle sue mani. Come se conoscesse da sempre la linea della sua bocca, il chiaro della sua pelle, tenera sopra le labbra anche quando un’espressione assorta ne rannuvolava il sorriso.

Un sorriso così raro, e così prezioso.

Era strano, perché sembrava che provare questo fosse la cosa più naturale di tutte, e che il bisogno di averlo con sé, di camminargli accanto, fosse sufficiente a spiegare qualunque dubbio.

 

Io non ho quasi il coraggio di toccarti. O forse non voglio, perché questo desiderio di farlo mi sta rendendo pazzamente felice.

 

E una sera, nel fondo del bosco, erano rimasti in silenzio ad attendere che scendesse il buio, e poi nell’oscurità della luna nuova gli occhi di Legolas avevano tracciato la strada per tutti e due. Ed egli, senza vedere, si era fatto guidare dai suoi passi, dal suo respiro, per un sentiero che gli era sembrato senza inizio né fine, camminando sempre più veloce, quasi correndo, dietro di lui, finché non era più stato cosciente di dove fosse, e ansando si era abbandonato del tutto a quell’emozione. L’aria soffiava fresca sopra il suo viso, ed il suo cuore batteva nel petto impazzito, e a un certo punto aveva avvertito la mano stretta tra quelle di Legolas, e il suo respiro vicinissimo, e il vortice del cielo sopra di loro, e la schiena contro un albero e il suo corpo all’improvviso addosso, le labbra premute disperatamente sul viso e gli occhi chiusi per non pensare.

Così immobili erano rimasti, respirando forte, le labbra contro le labbra, tremando, e non era stato nemmeno un bacio, perché non poteva reggere all’emozione di farlo. Ma era rimasto così, stringendoselo contro fortissimo, con le mani nei suoi capelli.

 

Poi lui si era staccato in un soffio, ed era come scomparso, come il vento che carezzava gli alberi nella notte. Era buio, e con la schiena ancora appoggiata a quel tronco era rimasto solo, le braccia lungo il corpo e la testa abbandonata indietro. Si era portato una mano alle labbra e se le era sfiorate, incredulo. Non riusciva a pensare a niente, lo sentiva ancora su di sé, eppure gli sembrava che fosse stato un sogno.

 

E per giorni non lo aveva più visto, ed era rimasto a desiderarlo in silenzio, senza cercarlo. Era l’unico motivo per cui si incontrava ancora con gli altri, nei pasti che consumavano insieme, a piccoli gruppi. Perché sperava di trovarlo là, e perché quando lui non c’era sembrava che nessuno ci fosse.

Era commosso e inquieto, ma non soffriva. Si sentiva come libero dentro. Dentro all’anima, che all’improvviso gli era sembrata sciogliersi da ogni tormento.

Per giorni aveva passeggiato solo, in quei boschi. E a un certo punto era tornato lì, sotto lo stesso albero di quella sera, e aveva aspettato.

Aveva aspettato tutte le volte.

Eppure era come se già sapesse ogni cosa. E un giorno dopo l’altro era stato più certo di quell’emozione che cresceva nel petto, riempiendo il cuore.

 

Forse è destino, Aragorn, che in questa guerra feroce tu debba conoscere la gioia più pura, quella che mai avresti creduto spettasse a te.

 

Era stato Legolas a tornare, e l’aveva fatto di notte, mentre lui una volta ancora si trovava nel bosco, da solo.

Era seduto, e aveva chiuso gli occhi. E gli sembrava quasi di potersi addormentare così.

E poi d’un tratto i sensi ad annunciare che c’era, e le ciglia aprirsi, sicure di incontrare il suo viso.

Sembrava che avesse compiuto un viaggio senza partire, e il suo sguardo era dolce e triste, e emozionato, e arreso.

“Perché sei andato via?”, gli aveva detto allora. Ma piano, senza rimprovero nella voce. Gli aveva sfiorato la guancia serio e aveva sentito il capo chinarsi sulla sua mano.

Lo aveva guardato così, ascoltare la sua carezza per un interminabile istante, come se non dovesse muoversi mai più. E poi invece, come se una febbre improvvisa lo avesse preso, Legolas gli si era abbandonato addosso in un gemito, il viso tra le sue mani, i capelli lunghi e sciolti tra le sue dita.

“Estel...”

E non gli aveva dato il tempo di fare ciò che da allora desiderava, perché per primo aveva accostato le labbra alle sue e lo aveva baciato con il tremito nel respiro. Si era trovato a terra col suo corpo leggero sopra, in un silenzio spezzato, la sensazione della sua bocca umida e la vita stretta tra le braccia chiuse. Allora aveva perso ogni nozione di dove fosse e si era girato su di lui come in un delirio, l’aveva premuto a sé rispondendo disperatamente a quel bacio, finché non l’aveva sentito quasi sfuggirgli, quasi implorare, smarrito per ciò che stava provando.

E non sapeva di cosa lo stesse implorando, e neppure cosa voleva lui, ma non lo aveva lasciato andare, stavolta, e d’istinto aveva percorso il suo corpo accarezzandolo sui vestiti. Lo aveva fatto come se da sempre lo avesse sfiorato con le sue mani. E osservandolo così sconvolto, così in suo  potere, gli era parso che di questo Legolas non avesse conosciuto mai nulla. E quando stringendolo, senza che quasi lo toccasse ancora, aveva avvertito il suo respiro farsi più ansioso, e il tremito, e il lamento flebile, e la bocca abbandonata ai suoi baci, allora, tenendolo a sé, in un gemito aveva alzato il viso. E con gli occhi aperti, come se non ci credesse, l’aveva guardato per la prima volta mentre lo travolgeva il piacere.

 

*

 

La lunghezza delle sue ciglia chiuse.

E l’espressione del suo volto che di nuovo lo cercava, come se se fosse tornato da una lontananza remota.

Lo teneva tra le braccia ancora e aveva voglia di lui, eppure gli sembrava di poter aspettare per sempre, di poter aspettare solo avvolgendo le sue spalle, sentendo il calore del suo corpo.

C’era una domanda nei suoi occhi, mentre il respiro appena avvertibile diveniva regolare, carezzandogli il viso.

Ma sembrava che provasse vergogna a farla.

“Cosa c’è?” aveva chiamato allora, piano, giocando con le dita tra i suoi capelli.

Gli era parso che cercasse quali fossero le parole giuste, e che poi si arrendesse, invece, e lo dicesse così:

“Cosa... cosa mi hai fatto, Estel?”

E quella frase, così incredibilmente ingenua, era suonata talmente vera sulle sue labbra che ascoltandola gli erano venute le lacrime agli occhi.

“Perché mi chiedi questo... tu... non lo sai?”

Lui aveva sospirato appena, guardando in basso.

“No... io...”.

“Ma... com’è possibile... mai...”, gli aveva chiesto sollevandogli il viso, pianissimo, cercando ancora i suoi occhi. Lui aveva ricambiato il suo sguardo, allora, e in quell’azzurro si era sentito improvvisamente perduto.

“No... mai...”

 

Non aveva detto nulla, ma gli aveva posato la fronte sul petto, come se avesse paura di fargli male. Non aveva mai provato una sensazione come quella.

Poi era stato Legolas a fargli alzare il viso, a sfiorargli con le dita la bocca, guardando le sue labbra di sotto in su.

Non era stato capace di trattenersi, e si era chinato su di lui baciandolo ancora, piano.

“Chi sei tu...”, aveva mormorato. “Dove sei stato fino ad ora, dove...”

Lui aveva risposto semplicemente.

“Sono nato nel Bosco Atro, è lì che mi hanno dato il mio arco, mi hanno insegnato a combattere”.

Aveva sorriso: “È questo che sei, allora? Un guerriero?”

“Un guerriero”, aveva risposto, distogliendo il viso.

 

*

 

Di quel periodo a Lothlórien, che era stato palpitante e dolce come nessun altro nella sua esistenza, egli ricordava momenti, frasi. Non una catena di fatti legati da un ordine razionale. Non c’era niente di comune, niente di prevedibile nel suo rapporto con Legolas: era stupore e scoperta continua, felicità e timore.

Erano istanti, come fuori dal tempo. Giorni trascorsi insieme, senza dirsi molte cose: eppure era stato come se in quei giorni, per la prima volta, si fosse affidato a qualcuno.

Era la sua completa innocenza a farlo tremare. Legolas non sapeva nulla, prima di lui. Nulla.

Eppure lo slancio con cui gli si abbandonava, senza alcuna riserva, travolgeva il suo cuore, i suoi sensi, come nient’altro mai.

Non aveva desiderato nessuno più intensamente. Non aveva mai provato un sentimento più puro, più delicato, un trasporto più struggente e profondo.

Forse per questo, durante il tempo in quei boschi, non aveva accondisceso al desiderio che lo invadeva. Niente era stato mai più estenuante e meraviglioso di quell’attesa, ed era come se non gli importasse realizzarla per sé. E gli importasse solo di lui, dei suoi istanti, di quello che poteva donargli.

Giorni indimenticabili e difesi da tutto, dentro al velo benigno che la dama di Lórien, conscia e remota, gli aveva avvolto intorno.

Stavano insieme, e guardava con uno stupore incredulo il suo volto tremante per la passione. Ne avvertiva il peso lieve, abbandonato al suo abbraccio, carezzandolo a lungo senza chiedergli nulla, senza insegnargli a ricambiare le sue carezze. E tante volte, quando Legolas quasi annegando in quegli abbracci ignoti lo cercava con mani incerte, impazienti, e lo sfiorava ansioso senza sapere come, dove fermarsi, fremendo lo lasciava fare e tratteneva i sussulti che nascevano sulle labbra, perché non imparasse a orientarsi, perché continuasse ancora.

 

Attendeva, disperatamente felice. Gli sembrava di poter attendere per sempre.

 

Soltanto un giorno, al termine di quel tempo a Lothlórien, portandolo a sé come in un gioco nelle acque tiepide dell’Argentaroggia, con le vesti madide che si avvolgevano addosso, gli aveva scoperto la spalla e gli aveva baciato la pelle bagnata così a lungo che aveva sentito di non poter resistere un istante di più. Lo aveva spinto piano contro la riva e si era stretto a lui forte, tenendosi aggrappato ai suoi fianchi. Era stato così intenso e ardente, il muoversi del suo corpo, che aveva iniziato a rispondere ai suoi gemiti, senza potersi fermare, e quando l’aveva portato all’estremo carezzandolo in una febbre tremante, non era riuscito a frenare il piacere di quel contatto, e afferrandogli in un moto convulso il bacino aveva goduto contro di lui, non riuscendo a trattenere un grido.

 

Era stato l’ultimo giorno prima di partire.

E ricordava, questo sì, che il suo compagno in quell’attimo lo aveva guardato con un’espressione attenta, gli occhi aperti sul suo viso che si abbandonava in avanti, accogliendolo in un abbraccio stupito e pieno di gioia. Gli era sembrato di essere lui, e non Legolas, il più fragile, quello che aveva bisogno di cure.

Aveva sentito la sua voce, come in un sussurro impercettibile. “Io ti amo”, diceva.

 

Da quel momento, da quel preciso momento, non aveva più avuto il controllo delle cose tra loro. Di giorno, mentre guidava la Compagnia, rimanevano distanti, quasi senza parlarsi. Ma la notte, la notte sempre si trovavano nello stesso giaciglio. Discosto dagli altri, tanto da non essere visti. E sempre allora, nonostante la terra ostile e il pericolo dei nemici, nonostante la nebbia e gli affanni che avevano sofferto in cammino, li univano abbracci caldi e febbrili, e lui non riusciva più a dominarsi perché Legolas non gli dava respiro, e non gli permetteva più di decidere, e lo spogliava, lo toccava con una gioia instancabile, e voleva sapere tutto del suo corpo, costringendolo in una smania impaziente a cedere alle sue carezze inesperte, ai suoi baci sempre più intimi, quelli che aveva imparato da lui. Allora non poteva resistergli e lasciava che percorresse con le labbra la pelle nuda, che passasse le dita tra le sue cosce tremanti e lo avvolgesse con la lingua, e lo succhiasse a lungo, seguendo col movimento del capo il ritmo che gli indicavano le sue mani, strette tra i capelli, scosse da brividi di  piacere. Lo lasciava fare senza capire più nulla, e impazzendo si abbandonava nella sua bocca.

 

*

 

Non si vedeva, perché da anni aveva appreso a celare le emozioni che gli riempivano l’anima. A reprimerle, perché crederci non gli facesse male più di quanto lo feriva provarle. Non si vedeva, ma Legolas era divenuto per lui l’unica cosa che contasse, che avesse mai davvero contato.

Dolorosa è la storia di un cuore che troppo presto ha conosciuto la perdita. E quella era la sua storia, perché la forza che il suo spirito aveva ricevuto in dono era stata accompagnata da sempre, fin dall’inizio, da una solitudine che non aveva pietà.

Aragorn figlio di Arathorn. Il nome di suo padre, accanto al suo. Se davvero avesse potuto vivergli accanto, come vicino gli era il suo nome, forse una risposta l’avrebbe avuta. Ma era appena un bambino, e un giorno erano all’improvviso partiti da soli per un luogo bellissimo e sconosciuto, che non era la sua casa.

Aveva due anni, e suo padre era stato ucciso, quando lui non aveva ancora capito chi fosse.

 

Solo era stato da allora, col suo grande nome. Aragorn figlio di Arathorn, erede di Isildur.

Sua madre Gilraen lo aveva amato, e a Imladris Elrond lo aveva accolto e cresciuto come se fosse un figlio.

 

Ma era stato suo destino partire, dire addio a chi amava e combattere Sauron e viaggiare senza compagni. Ardui e lunghi erano i sentieri che aveva percorso, e il suo aspetto era divenuto aspro e grave, tranne quando sorrideva. Aveva viaggiato con tanti nomi e aspetti diversi, e combattuto al fianco di grandi, con gloria e fama. Eppure sempre, dopo la vittoria, si era allontanato senza goderne gli onori, per inseguire i piani del Nemico, per esplorare cuori buoni e malvagi.

E adesso era il più coraggioso degli uomini, e il più infelice. Abile in ogni arte, colto in ogni storia, aveva negli occhi una luce che pochi riuscivano a sopportare.

Per tutto questo la bellezza del suo volto era triste, severa.

Eppure in fondo alla sua anima, dentro la disperazione, viveva una speranza vulnerabile e tenace, che non aveva mai potuto domare.

 

Estel. La sua speranza.

Come lo chiamava lui.

 

*

 

E d’improvviso, nella grandezza cupa della sua vita, si era aperto uno splendore dolcissimo, che non aveva mai conosciuto.

Ne aveva paura, perché era immenso, e dava solo consolazione.

Doveva difenderlo.

Eppure forse doveva anche difendersi, sebbene non ne fosse capace.

Non c’era mai stato niente che desse soltanto gioia.

 

*

 

“Estel, perché...”

Si era fermato, posandosi sul suo petto, e non aveva continuato la frase.

Allora gli aveva carezzato la schiena, sospirando.

“Cosa?”

“C’è qualcosa, Estel. Qualcosa che rimane dentro di te, e tu hai paura. Io lo sento”.

Non aveva risposto. Ma le sue braccia, contraddicendo il silenzio, lo avevano stretto di più. Allora il suo compagno gli aveva girato il viso contro, strofinandosi su di lui.

Glielo aveva detto in un modo limpido, e netto:

“Io vorrei che tu fossi mio. Che tu potessi donarti a me”.

E mentre lo diceva gli era passata negli occhi un’ombra, come per un pensiero segreto, e si era quasi aggrappato alle sue spalle, stringendosi nel suo abbraccio.

“Vorrei il tuo cuore per curarlo, per tutta la mia vita. Io non te lo porterei via...”

“Oh, Legolas...”

“Estel...”

“Ti prego...”, aveva risposto serrando le dita piano su di lui, senza sapere di cosa lo stesse pregando.

Era buio, e la notte era serena e fredda, con poche stelle. Si era stretto nella pesante coperta, passandola sopra le loro teste, e lo aveva avvolto col calore del suo corpo.

“Rispondimi, Estel”.

“Tu non puoi nemmeno immaginare quanto sei importante per me”, gli aveva mormorato. In un tremito, pensando a quanto quelle parole fossero vere.

“Io ho bisogno di te, ho bisogno di appartenerti, Estel, e che tu mi appartenga. E ne hai bisogno anche tu. Non è solo quello che potremmo fare... è quello che potremmo essere. Quello che potresti dirmi, quello che hai dentro e che non mi dici. Io... non lo so... non lo so, Estel, ma sento che tu invece lo sai, e che tutto questo amore non basta ancora, che potremmo appartenerci di più...”

“Ti prego...”, aveva ripetuto.

 

E, intensissimo e dolce, lo aveva invaso il desiderio.

Era tanto che ci pensava, che lo desiderava disperatamente. Ed era tanto che voleva dirgli che lo amava.

Ma non l’aveva mai fatto. Non glielo aveva mai  detto. E si era chiesto se fosse paura di abbandonarsi totalmente a lui, di non saper più tornare indietro.

 

Forse.

 

Ma non era soltanto quello.

 

Era paura per lui. C’era qualcosa di consumato e ardente negli occhi di Legolas da quando avevano lasciato Lórien. Qualcosa che non sapeva, che non gli aveva detto.

Lo sapeva Galadriel, forse, perché prima di salutarlo l’aveva vista sorridergli malinconica e dolce, e sulle labbra mormorare una parola che non si era udita, ma che gli era sembrata “addio”. Legolas aveva voluto incontrarla, prima di partire, presso il colle di Caras Galadhon, nel suo giardino, dove si diceva custodisse lo Specchio che rivelava le cose. E da quando era tornato da lì era cambiato. Il suo sguardo si rabbuiava, a volte. Era silenzioso, eppure a tratti pieno di trasporto, quasi di frenesia.

 

Era paura per lui.

Percepiva confusamente che in quel rapporto che li stava unendo si nascondeva un’insidia ignota. Si sentiva come se quel sentimento fortissimo che provava potesse essere un pericolo per Legolas. E che forse lui poteva salvarlo, tenendo a freno il suo cuore.

Ma solo pensare questo lo distruggeva.

 

“Io non ti farei del male, Estel. Non devi aver paura, ti prego...”

Lo aveva sussurrato sollevandosi verso il suo viso, fissandolo. Egli lo aveva tirato a sé, allora. Lo aveva baciato sentendo il cuore spezzarsi, e mai come in quel momento aveva sentito di amarlo.

Eppure non era riuscito a dire quelle parole.