.|. The Matrix .|.

 

9. La Palantir

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L’oscurità era già scesa da diverse ore, ma Aragorn indugiava ancora tra i sentieri remoti dei giardini di Gran Burrone. Sembrava che qualcosa lo tormentasse, rubandogli la tranquillità e la serenità, e impedendogli di ritornare alla loro fonte.

Non molto lontano dall’uomo, ma celato a lui dalle ombre, Legolas stava immobile e lo guardava con la morte nel cuore: avrebbe voluto raggiungerlo, prenderlo tra le braccia, rassicurarlo, ma sapeva che non poteva farlo, quella era una battaglia che l’uomo doveva combattere da solo. C’erano decisioni che il Ramingo doveva maturare per suo conto, molto dipendeva da ciò, e lui non poteva compromettere l’unica possibilità di salvezza della Terra di Mezzo!

Dalla labbra dell’elfo sfuggì un sospiro di dolore, quando sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla per confortarlo, ma non gli occorse girarsi per sapere che alle sue spalle c’era Elrond: conosceva troppo bene la presenza spirituale del signore di Imladris, perché questo potesse giungere senza che lui l’avvertisse.

Vieni via Legolas, disse Elrond, parlando direttamente alla mente dell’altro elfo, qui per te c’è solo sofferenza. Quando sarà pronto tornerà da te, qui non ha nulla da temere...

Legolas strinse più forte che poté le mascelle per ricacciare indietro le lacrime e si voltò per fronteggiare Elrond, ma quando incrociò il suo sguardo tutti i suoi propositi crollarono e le lacrime cominciarono a scorrere sul suo volto.

Elrond restò sgomento a quella vista: erano centinaia di anni, forse un millennio intero, che non vedeva piangere Legolas! Era già dunque così forte il legame che lo teneva stretto a quell’uomo?

Ed Elrond fece qualcosa che non faceva da molto tempo: lo abbracciò, non secondo il protocollo elfico tra parenti adulti, ma come se fosse un bambino. Un bambino solo e sperduto nell’oscurità, come quella notte, tanto tempo addietro, in cui Legolas l’aveva chiamato “padre” per la prima volta.

 

A poche decine di metri dai due elfi Aragorn ripercorreva i momenti della giornata per la centesima volta.

Nel primo pomeriggio aveva seguito Legolas ed Elrond in un luogo remoto della casa.

Avevano percorso lunghi corridoi e salito diverse rampe di scale, per giungere infine davanti ad una porta senza maniglia ne serratura, che si era aperta ad un ordine del signore di Imladris, e che si era chiusa silenziosamente alle loro spalle, dopo che erano entrati nella stanza, aumentando la sensazione di disagio del Ramingo.

Nelle settimane precedenti Elrond aveva sottoposto Aragorn ad un lungo allenamento mentale e fisico, ma quella era la prima volta che era presente anche Legolas, e la cosa lo rendeva inquieto.

La stanza in cui era stato condotto era spaziosa, a pianta ottagonale, illuminata da ampie finestre ad arco, e il Ramingo cominciò a chiedersi come mai non l’avesse mai vista dall’esterno della casa...

“Non è possibile vedere questa stanza dall’esterno,” disse Elrond, cogliendo i pensieri dell’uomo, “perché è celata da un incantesimo. Ma ora prestami attenzione!”.

Aragorn annuì e seguì i due elfi al centro della stanza, dove, sopra un piedistallo di mithril splendidamente lavorato, si trovava un oggetto coperto da un drappo di seta ricamata.

Elrond allungò una mano e tolse il drappo, rivelando una sfera che sembrava fatta di vetro nero, lucida e levigata e Aragorn comprese che quella era una Palantir.

“Questa”, disse Elrond,  “è la Palantir che si trovava  ad Amon Sul. Altrove sono custodite quella di Annuminas, e la pietra dominante che una volta era a Osgiliath.”

Aragorn si limitò ad annuire: non riusciva a trovare la forza neppure per parlare in quella stanza, davanti a quell’oggetto che calamitava completamente il suo sguardo.

Una mano bianca e liscia si posò all’improvviso sulla sfera, era la mano di Legolas: per un attimo l’elfo aggrottò la fronte, poi il voltò si rilassò e sorrise togliendo la mano. “Se vuoi,” mormorò l’elfo “puoi guardare, nessun altro lo sta facendo.”.

Aragorn annui nuovamente, non avrebbe voluto, ma sapeva che doveva e, cercando di ricordare tutti gli insegnamenti impartitigli da Elrond nelle settimane precedenti, si avvicinò alla Palantir e vi posò sopra una mano.

All’inizio fu come ricevere una scossa, poi si trovò a galleggiare in una specie di limbo grigio dove non c’erano punti di riferimento per orientarsi e cominciò a sentire il panico che cresceva: non sarebbe più riuscito a tornare indietro, sarebbe restato lì per l’eternità!

Calma Aragorn, era la voce di Elrond che parlava direttamente alla sua mente, ricorda sei tu che devi forgiare questo luogo, dargli senso e dimensione, non il contrario.

La voce di Elrond gl’infuse la calma necessaria per riprendere il controllo, dopo un attimo si ritrovò a camminare in un prato verde costeggiando un boschetto, e capì che era passato dall’altra parte, era tornato in Matrix.

Si stupì dell’azzurro terso del cielo, del profumo dei fiori e dei richiami degli insetti tra l’erba estiva: era tutto così ‘vero’, così ‘giusto’.

Intanto continuava a camminare chiedendosi dov’era esattamente: quel luogo gli sembrava familiare e tuttavia inquietante. Improvvisamente nella foresta si aprì l’imbocco di un sentiero e cominciò a seguirlo, era bello passeggiare nell’ombra e nella frescura degli alberi e, poco lontano, poteva sentire il rumore di un ruscello che correva tra le rocce, sembrava un sogno. Improvvisamente in fondo al sentiero si aprì una radura al centro della quale c’era una graziosa casetta, la porta accostata come per invitarlo ad entrare, eppure Aragorn a quella vista sentì la morte scendergli nel cuore. Avrebbe voluto voltarsi e fuggire, ma i suoi piedi lo trascinavano verso la casa, aveva perso di nuovo il controllo. Non voleva entrare in quella casa, non voleva sentire l’odore del sangue che intrideva l’aria, non voleva vedere il corpo straziato giacere in quella posa grottesca, né i riccioli biondi incrostati di sangue e gli occhi sbarrati, simili a biglie rotte. Ma ormai era troppo tardi: era sulla soglia, la sua mano si allungò ad aprire la porta, la scena era ancora lì che lo aspettava dopo tanti anni, come se lui non avesse mai seppellito il suo corpo, e bruciato la piccola casa di legno nel sud dell’Ithilien.

Rivedere quella scena seppellita tanto in profondità nel suo animo fu troppo, la sua mente si chiuse, collassò su se stessa, come una stella che si trasforma in un buco nero, tutto quello che sentiva era se stesso che urlava come una bestia folle, sempre più forte, sempre...

Si ritrovò seduto sul pavimento della stanza di Gran Burrone, vicino a lui c’erano Elrond e Legolas che lo guardavano preoccupati, mentre la Palantir dall’alto del suo sostegno sembrava fissarlo beffardo, come un grande occhio nero e maligno.

Aragorn si sentiva male, sia fisicamente, sia mentalmente, e aveva l’impressione di essere stato sottoposto ad una prova e di aver fallito.

“Aragorn...” era la voce di Legolas che lo chiamava, poi sentì la sua mano appoggiarsi delicatamente sulla spalla, come per confortarlo, ma inspiegabilmente quel gesto fece nascere in lui furia e risentimento.

Respinse violentemente la mano dell’elfo, guardando prima lui, poi Elrond con odio, e alzatosi in piedi uscì dalla stanza.  

Legolas era ancora inginocchiato a terra e si fissava stupefatto e ferito la mano che Aragorn aveva respinto con tanto disprezzo, poi alzò lo sguardo sul Signore di Imladris che scrutava la porta della stanza con un sorriso indecifrabile.

“Elrond...”, mormorò Legolas.

“Ha aperto la porta senza neppure accorgersene, infrangendo l’incantesimo che la teneva bloccata!”.

Elrond parlava tra sé e sé, senza prestare la minima attenzione a Legolas. Poi abbassò lo sguardo e, vedendo, l’altro elfo, che era ancora inginocchiato sul pavimento gli tese una mano per aiutarlo ad alzarsi.

 

Aragorn attraversò la casa come una furia, ignorando chiunque incontrasse, il capo chino e una rabbia cieca che cresceva ad ogni passo che faceva. Avevano osato giocare con i suoi ricordi più dolorosi! Quelli che aveva seppellito in profondità, nonostante fossero molto recenti! Quelli che lo facevano svegliare in piena notte coperto di sudore gelido, con l’impressione di avere un peso enorme che gli premeva sullo stomaco e un urlo trattenuto in gola.

I suoi passi lo guidarono fuori dalla casa, e più avanti nei giardini, che ben presto si fecero intricati, quasi una vera foresta; quando sbucò in una radura solitaria, dove si sedette su un masso bianco coperto di vegetazione e, prendendosi la testa tra le mani, cominciò a piangere, prima silenziosamente, poi scosso da singhiozzi sempre più violenti.

Tra i sussulti ogni tanto pronunciava un nome...

 

Legolas dalla finestra della sua stanza fissava i giardini di Imladris con il cuore colmo di angoscia. Poteva sentire il suo dolore, ma sapeva che il suo conforto non era richiesto, ne sarebbe stato gradito in quel momento.

 

Aragorn aveva passato tutto il giorno seduto sulla pietra bianca, in quella radura nascosta, tra i giardini di Imladris. Inizialmente cullando il suo dolore e il suo risentimento, ma poi, via, via che le ore passavano riflettendo su quello che era successo.

Elrond l’aveva sottoposto ad una prova, e lui aveva fallito!

Sapeva quante speranze riponessero in lui, e cominciò a vergognarsi della sua fuga, del suo risentimento verso Elrond e di come aveva trattato Legolas.

Sapeva che c’era una sola cosa che poteva fare, ma quanto gli costava farla!

Quando finalmente si decise ad abbandonare la radura il buio era già sceso da un po’; aveva ben chiaro dove doveva andare e vi si diresse senza esitare, attraversando i lunghi corridoi della casa di Elrond, fino a giungere alla porta degli appartamenti del signore di Imladris.

La porta non era sorvegliata, come tutte le altre in quel luogo, ed Aragorn entrò nell’ingresso e proseguì attraversando altre stanze, finché non giunse davanti alla porta della camera da letto di Elrond e, posata la mano sulla maniglia, trasse un profondo respiro per trovare il coraggio di affrontare l’elfo, poi entrò con aria risoluta.

Aragorn restò impietrito dallo spettacolo che si presentò ai suoi occhi: Elrond stava disteso sul grande letto a baldacchino, con indosso solo dei pantaloni di seta chiara, le gambe leggermente piegate, e i lunghi capelli neri sparsi sul cuscino, mentre, sopra di lui, stava sdraiato un altro elfo, biondo, completamente nudo, che gli stava baciando il petto. Sul volto di Elrond era dipinta un’espressione di puro piacere, mentre una mano accarezzava la schiena dell’elfo, e l’altra era affondata nella chioma bionda.

L’aria sfuggì tutta insieme dai polmoni del ramingo, a causa della sorpresa, e in quell’istante i due elfi, accortisi della sua presenza si voltarono a guardarlo, così che Aragorn, poté riconoscere, nell’elfo biondo, Glorfindel.

L’uomo abbassò lo sguardo imbarazzato mormorando: “Mi spiace... tornerò domani...” e fece per andarsene, ma la voce di Elrond, incredibilmente calma, nonostante la situazione, lo fermò.

“Aspettami di là,” disse l’elfo “ti raggiungerò tra poco.”.

 

Mentre Aragorn aspettava Elrond nella stanza accanto, quest’ultimo restò ancora un attimo steso sul letto a fissare il soffitto, mentre Glorfindel, al suo fianco, lo osservava preoccupato.

“Elrond...” lo chiamò sottovoce.

“Sono qui.”.

“Non è vero... ovunque tu sia, non sei qui... sei dove ti porta la tua preveggenza...”.

Sei in quel posto buio e solitario in cui io non posso entrare. In cui nessuno può entrare. E quando ci vai ho paura, perché temo sempre che quello che tornerà indietro non sarai tu, ma qualche sconosciuto dallo sguardo di ghiaccio.

Elrond poteva sentire benissimo i pensieri dell’altro elfo, ma non poteva dire nulla per tranquillizzarlo: qualunque parola sarebbe stata una menzogna. Lo sapevano entrambi. Quindi si limitò a stringerlo tra le braccia e farsi scorrere i suoi capelli tra le dita per un attimo, prima di alzarsi per vestirsi.

Glorfindel osservo Elrond che indossava, sopra i pantaloni, un’elegante tunica beige siderale, degli stivali dello stesso colore e raccoglieva alcune ciocche di capelli dietro la nuca.

Il signore di Gran Burrone si voltò per salutare l’altro elfo, ma quando vide l’espressione nei suoi occhi, si sedette sulla sponda del letto e disse: “Dimmi...”.

“Tornerai...?” fu solo un mormorio debolissimo.

“Si,” rispose Elrond “sempre,” e si chinò a baciarlo prima di uscire.

Glorfindel restò a lungo a fissare la porta chiusa, dopo che lui se n’era andato, maledicendo la sua codardia: non trovava mai il coraggio di fargli quella semplice domanda.

Alla fine si abbandonò al sonno per trovare un po’ di tregua dalla sua infelicità.

 

Quando Aragorn sentì la porta della stanza di Elrond prima aprirsi e poi chiudersi, si voltò verso l’elfo, ma non trovò il coraggio di guardarlo negli occhi: si vergognava della propria intrusione nella sua vita privata, ma c’era anche qualcos’altro che non riusciva a focalizzare.

“Aragorn!”.

L’uomo sentendosi chiamare in modo così secco, alzò la testa di riflesso e si trovò a fissare gli occhi di Elrond, che gli disse:

“Avanti, parla!”.

“Ecco... io... mi spiace... cioè, non ne sapevo nulla, se no, non sarei entrato in quel modo...”.

Elrond sorrise dell’evidente imbarazzo dell’uomo: certo che non sapeva nulla, lui e Glorfindel non avevano l’abitudine di baciarsi in ogni angolo della casa come facevano Aragorn e Legolas!

“Va tutto bene Aragorn, non preoccuparti.”.

“No, è che io non avevo mai pensato che voi... poteste avere una vostra vita... all’infuri dei vostri impegni...”.

Aragorn si vergognava di quello che aveva appena detto, ma era la verità, e il sorriso che Elrond gli rivolse gli fece capire che non era offeso, forse addirittura divertito.

“Allora Aragorn, perché sei qui?”.

Lui lo sapeva benissimo, ma voleva che fosse l’uomo a dirlo.

“Riportami là! Voglio tornare in quella stanza, ma stavolta solo noi due, non voglio che Legolas sia coinvolto di nuovo!”.

“Lui è già coinvolto. Comunque, come vuoi tu, andiamo!”.

Ed uscirono dagli appartamenti di Elrond, per tornare nella stanza della Palantir.

 

Quando Aragorn si diresse nuovamente verso le stanze di Legolas, le prime luci dell’alba già rischiaravano le cime dei monti.

Entrato nella stanza che divideva con l’elfo lo vide disteso sul letto, ma quando gli fu vicino scoprì che non dormiva, era perfettamente sveglio e stava semplicemente disteso a fissare il soffitto.

“Legolas...” lo chiamò sottovoce, e vide la sua testa spostarsi lentamente verso di lui, ma i suoi occhi erano vuoti.

Quello sguardo trapassò Aragorn procurandogli un dolore che nessuna arma avrebbe mai potuto infliggergli, e improvvisamente ricordò il modo in cui l’aveva trattato prima di fuggire dalla stanza della Palantir il pomeriggio precedente. Avrebbe voluto fuggire, nascondersi dove quello sguardo non potesse raggiungerlo, ma sapeva che quella non era la soluzione, quindi si avvicinò al letto e si sedette lentamente sulla sponda, dalla parte dell’elfo, e tese una mano verso di lui accarezzandogli il volto. L’elfo continuò a restare immobile sotto la mano dell’uomo, ma Aragorn considerò, che d’altra parte non si era neppure ritratto, quindi decise di osare di più e si abbassò a baciargli le labbra.

Quando si staccò da Legolas, vide che ora aveva gli occhi chiusi e piangeva. Aragorn non sapeva cosa fare, cosa dire, temeva di aver fatto qualcosa per cui l’elfo non l’avrebbe mai perdonato, ma appena gli rivolse la parola, la sua fu una semplice domanda:

“Hai superato la tua prova?”.

“Si.”.

“Bene, almeno questo ostacolo è superato.

“Sarai stanco, stenditi e riposati!”.

L’uomo era stupefatto: si era aspettato le giuste accuse dell’elfo, forse anche l’invito a non farsi più rivedere; invece si era limitato a fare una semplice constatazione.

Sorpreso da tutta la situazione Aragorn si spogliò e si stese accanto a Legolas, prendendolo tra le braccia e sussurrandogli:

“Perdonami.”.

“Sempre, amore mio...”.

 

In un’altra stanza di quella casa si stava svolgendo una scena simile:

“Ha superato la sua prova?” Chiese Glorfindel ad Elrond che era da poco tornato, e che giaceva accanto a lui.

“Si...” rispose il signore di Imladris, con un tono che era quasi di rammarico.

“Non mi sembra che tu ne sia felice.”.

“Non è questo...”.

“E allora?”.

“Allora, da quel poco che mi è dato scorgere di quello che ci aspetta, se egli avrà successo, sarà anche per merito del sacrificio di molti di coloro che amo. Se fallirà lo seguiremo tutti nell’oblio...”.

Glorfindel tacque talmente a lungo da indurre Elrond a pensare che si fosse addormenta, poi improvvisamente disse:

“Se una di queste vite fosse la mia non mi importerebbe, perché saprei che tu mi ami!”.

Elrond voltò di scatto la testa verso l’altro elfo, sorpreso da quelle parole, e incontrati i suoi occhi lucidi a causa dell’emozione mormorò:

“Non hai bisogno di morire per sapere che ti amo, sei la mia vita e la mia luce. Prima che ci fossi tu era molto tempo che non amavo, che non sentivo più niente, da quando...”.

“... lei è partita...”.

“Da quando lei è morta!”.

“Ma... si è recata ai Porti Grigi... è andata all’Ovest...” mormorò Glorfindel.

“La via per l’Ovest è stata chiusa dall’Avversario. Lei è voluta andare nonostante ciò... e ora vaga per le aule di Mandos...”.

“Io... non lo sapevo...”.

“Pochi lo sanno, ti sto affidando un  segreto importantissimo.”.

Glorfindel tacque, colpito della fiducia di cui veniva fatto depositario, e poi baciò dolcemente le labbra di Elrond dicendogli:

“Riposa adesso, mio signore, mio amore, sei stanco...”.

Elrond sorrise e si lasciò scivolare nel sonno.