.|. Schegge di Follia - take 2 .|.
3. Il Luogo dei Sogni ~
Everything you know is
wrong
- Weird Al Yankovic –
“Everything You Know Is Wrong”
Aragorn non svenne, non
questa volta, ma avvertì come uno schiaffo il cambiamento della sua
temperatura corporea. La confusione, il dolore, l’orrore, avevano
raggiunto il loro apice, e da un minuto all’altro Aragorn cadde vittima di
una febbre tremenda. Batteva i denti e allo stesso tempo sentiva il sudore
scorrergli a rivoli sul petto. Tremava, e si sentiva senza forze. La sua
vista si annebbiò, e la ferita dietro la testa ricominciò a pulsare di
dolore.
Gli ritornò alla mente uno
stralcio confuso della visione che gli aveva mostrato lo specchio
(capelli biondi nella
melma. Và da lui, amore mio!)
ma scomparve prima che
potesse capirne appieno il significato.
Fu mera forza di volontà
ciò che lo tenne in piedi.
Si passò una mano sul
viso, e respirò a fondo –lunghe, piene boccate contro la pelle umida del
suo palmo. Un Ramingo sapeva fin dall’infanzia come ignorare e calmare gli
effetti di malattie e ferite sul suo corpo, e in pochi secondi Aragorn era
di nuovo padrone dei suoi movimenti, sebbene la sua mente fosse divorata
dalla febbre.
Nel frattempo, azionando
un dispositivo nascosto Gimli aveva fatto sollevare il catafalco su un
fianco, rivelando un’entrata rozzamente ritagliata nella roccia,
attraverso cui scendeva una rampa di gradini consunti dalle infiltrazioni
d’acqua. Nel deliquio, Aragorn sentì un profumo dolcissimo
(la sua pelle, la sua
bocca, il profumo dei suoi capelli, Legolas, oh, Legolas!)
come di rose e gelsomini e
candidi gigli spirare verso di loro dalla botola.
Poi Gimli l’afferrò per un
braccio, e lo trascinò giù nel passaggio.
(La mia tomba, la mia
tomba, Valar sto scendendo nella mia tomba!)
(Và da lui, amore mio…)
(Oh, Legolas!)
Gimli tastò con la mano
libera le umide pareti del passaggio, ed afferrò una delle torce lì appese
un attimo prima che l’apertura si richiudesse silenziosa dietro di loro.
Il buio calò nel passaggio come una notte prematura e priva di stelle.
Un attimo, due, tre. Il
fruscio di due pietre picchiate luna contro l’altra. Un baluginare di
scintille. Un rumore sfrigolante. La torcia si accese, racchiudendo l’Uomo
e il Nano in un isola di luce tremolante in mezzo a un mare di ombre
sature d’incenso.
Ricominciarono a scendere,
Gimli in testa con la mano ancora chiusa attorno al braccio del Ramingo.
La luce della torcia, sfiorando appena le pareti concave rivelò affreschi
di una bellezza indicibile: alti cieli estivi, ombrosi boschi sognanti, le
acque scintillanti di un ruscelletto che correva limpido tra lucide rocce
grigie, alberi carichi di frutti che l’occhio scambiava per veri, cavalli
che correvano con le bianche criniere al vento, perfetti al punto da
sentire il bisogno di spostarsi per non venire travolti dalla loro foga
giocosa.
E poi il capolavoro
estremo: decine di Elfi, abbigliati in vaporose vesti di broccato e veli
trasparenti, coi capelli sciolti che scivolavano sulle spalle morbide, gli
occhi di giada che ti seguivano passo passo, e le rosee labbra schiuse
attorno a nenie dolcissime
(Ai! Aníron…)
che Aragorn credette di
udire echeggiare contro la volta bassa del corridoio.
Scesero sempre più nelle
profondità della terra, ed ancora non si udiva alcun rumore, ancora l’aria
era fresca e traboccante di profumi. Di colpo si trovarono dinanzi ad una
porta: una sorta di arco scavato nella roccia viva, chiuso da un portone
di legno finemente intarsiato. Gimli armeggiò per un attimo all’angolo
dello stipite, ignorando le pesanti maniglie a cerchio d’oro, e lentamente
la porta si aprì.
Un torrente di fredda luce
azzurrognola si riversò nella grotta, e il corridoio, così illuminato,
tremò di vita propria: il ruscello gorgogliò, i cavalli nitrirono
sorpresi, e mentre gli Elfi ridevano deliziati, uno stormo di candide
colombe si alzò in un frullio d’ali dagli alberi di tempera.
Aragorn sentì la testa
vorticare.
Gli parve di scorgere
Elrond che lo fissava perplesso da uno degli affreschi, con Elladan ed
Elrohir, abbracciati stretti e bellissimi, che gli sorridevano enigmatici
da presso. E poi ecco Erestor, e Glorfindel! con le dita intrecciate
insieme, ed Arwen seduta al centro con il lungo mantello allargato sulla
sedia come un fiore sbocciato, ed il libro di fiabe che ricordava
dall’infanzia aperto sulle ginocchia.
La sua famiglia, ed era
lì, dinanzi a lui, reale e sorridente, e con gli occhi gli chiedeva di
raggiungerlo! Ma non c’era vita in quei corpi, nessun respiro passava
attraverso le umide labbra schiuse. Aragorn gli aprì le braccia, gemendo.
(Perduto, perduto,
tutto perduto, dove siete, perché non rispondete? Miei giorni perduti,
miei gioie, fratelli miei…)
(Và da lui)
(Arwen la bella, la più
bella tra tutte le stelle, oh perché lo amo tanto?)
(Lascivia, solo
lascivia…)
(Legolas delle verdi
foglie, Legolas del cielo stellato, Legolas coi capelli sciolti sulle
spalle che attende mormorando il tuo nome nel vento)
(Và da lui)
(E amore e morte ed un
ultimo bacio)
(Ai! Aníron…)
Poi Gimli lo spinse
avanti, e la visione fu persa.
Aragorn sbucò su un
pianerottolo in un cima ad una scalinata più alta di quelle che aveva
scorto nel breve soggiorno a Moria. Sotto di lui si apriva una grotta
immensa, una cavità cesellata con folle pazienza nelle viscere della
collina. Il soffitto era una voragine oscura, con lame di nebbiosa luce
bluastra che gli spiovevano addosso da altrettante fenditure nella roccia.
Sotto di lui, in quel riverbero insalubre, si apriva un paesaggio silente,
permeato di una strana aura ultraterrena.
Aragorn pensò alle ignote
profondità sottomarine, azzurre e senza suono e ondeggianti nel riverbero
come miraggi, mentre con lo sguardo spaziava il nugolo di case bianche e
squadrate che si snodava ammiccante tra le rocce aguzze, le stradine
pavimentate di ciottoli lucidi, le figure piccole e paffute degli Hobbit
che si trascinavano dondolando per le strade, i Nani seduti a parlare con
le teste chine intorno ad una fontana di pietra, il candido palazzo dalle
colonne striate d’avorio e guardato da mostruose figure di pietra
accucciate, davanti a cui stavano, impettiti e rigidi come soldati, due
file di Raminghi vestiti di grigio.
Stupore si aggiunse a
stupore quando la voce mormorante di Gimli lo strappò alla sua
contemplazione sussurrandogli:
“L’Ultimo avamposto delle
Genti della Terra di Mezzo. Dopo la distruzione di Rivendell e dei Porti
Grigi, è questa L’Ultima Casa Accogliente del nostro Mondo. E i servi del
nemico la credono una tomba.” Unì le sopracciglia in una smorfia
sprezzante. “Puah! Una tomba!”
Si racchiuse in silenzio
per qualche attimo. Poi, con orgoglio, mosse il braccio come ad invitare
Aragorn a guardare ancora.
“E’ bella, non è vero?
Darei qualunque cosa per vederla ancora una volta prima della fine. Lei,
la nostra città, ed il volto di Turlos. Non chiederei altro.” Sospirò.
Tra le nebbie della sua
febbre Aragorn la contemplò, la Bella Città di Gimli, un luogo immenso
dalla geometria assurda, una dimensione alternativa in cui curva ed angolo
si fondevano, in cui liscio e scabro si univano come sposi sul talamo, e
mostri di pietra emergevano dalle pareti delle case, scolpiti,
intrappolati, incredibili fontane con le bocche spalancate attorno a salti
d’acqua lamentosa.
Aragorn si sentì
rabbrividire, e quando Gimli lo prese per mano con gentilezza quasi
paterna, si lasciò condurre giù per la scala come un bimbo, gli occhi
sgranati e fissi agli edifici che sognavano sul fondo della grotta.
“Attenzione: i gradini
sono vecchi e scivolosi. Piano, ragazzo, adagio. Così. Nessuna fretta.
Nessuno ci insegue. Nessuno.” Aragorn sentì Gimli dargli delle leggere
pacche affettuose sulla mano. Annuì forse, ma non ne fu mai sicuro. La
febbre era un tormento tale che gli fu impossibile capire ciò che
accadeva, meno che mai riuscì a focalizzare il percorso che stavano
seguendo. Eppure il suo istinto di Ramingo lo avvertì comunque di due
cose: cioè che la loro meta era il palazzo candido in fondo alla grotta, e
che non sarebbe stata l’entrata principale quella che avrebbero usato per
introdurvisi.
Così Aragorn fu sospinto
su per le vie più oscure della Città, su su, fino al Palazzo Bianco, e poi
nelle sale interne, passando attraverso un uscio di legno alto poco più di
mezzo metro.
“Hai visto tutta quella
gente, ragazzo? Hobbit, Uomini e Nani… i rifugiati di un mondo che ci ha
lasciato indietro. Sopravvissuti loro malgrado, vittime tutte della stessa
piaga: l’oscurità dilagante di Mordor. Tutti senza più sogni, tutti senza
più anima, uniti sotto la stessa bandiera, ammaliati dalla stessa, unica,
luce.”
Gimli lo condusse per mano
tra le sale fredde e lucide, tastando nervosamente il pavimento col
bastone. Sgusciarono silenziosamente da un porta ad un corridoio ad una
rampa di scale, fino a giungere alla parte più interna del palazzo,
sbozzata senza grazia nella roccia viva della collina.
Un rumore di acqua
gorgogliante permeava quell’ala del Palazzo, e quando passarono dinanzi ad
un corridoio dalle pareti vagamente bluastre, al suono si unì quell’odore
umido che caratterizza una sorgente. La fragranza aleggiante di essenze
fruttate e balsami nebbiosi li investì in volto. Una melodia sommessa
scaturì da dietro la porta intarsiata che stava in fondo al corridoio,
chiamando Aragorn a sé come il canto di un sirena chiamerebbe un naufrago,
promettendo tutto e niente, lasciando il cuore in subbuglio a chiedersi:
cosa mi aspetta tra le tue braccia, amor mio? Estasi pura, o morte?
“Turlos…” mormorò Aragorn
in tono sommesso. Estasi pura o morte, amor mio?
Gimli annuì.
“Si, ragazzo: Turlos. Ti
condurrò da lui, ma non oggi. Sei stanco, e malato: sento il calore della
tua febbre, ed è tremendo. Come puoi stare ancora in piedi? Ah, benedetta
la tua stirpe!” Superarono il corridoio quasi correndo, e raggiunsero una
stanzetta minuscola, arredata in modo semplice e spartano: un basso
materasso di piume, un tavolinetto di quercia, uno scaffale colmo di libri
polverosi.
“Vieni, Aragorn. Vieni.”
Il Ramingo non protestò
nel sentirsi chiamare per nome, né quando fu spinto delicatamente sul
letto o quando Gimli gli rimboccò attentamente le lenzuola. Ma afferrò
Gimli per un braccio quando il Nano fece per staccarsi da lui.
“Turlos…” ripeté ancora,
tormentato fino all’estasi dal ricordo di quella voce roca sgorgata dalle
ombre. Gimli sorrise tristemente.
“Lo vedrai. Dormi ora,
dormi.” E la sua voce cantilenante accompagnò Aragorn ai suoi sogni.
Benedetti sogni di
tenebra.
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