.|. Wound (il Dono degli Uomini) .|.

4. Fides

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Minas Tirith era risplendente di una luce vivida, quel mattino di marzo. Il sole si rispecchiava sui marmi bianchi del palazzo reale e scopriva col suo chiarore le case, gli abitanti che organizzavano l’ultima resistenza, cupi e alacri. Era un contrasto vistoso, sotto quel cielo terso di primavera, come se l’ombra di Mordor, lontana e incombente sulla città, avesse già invaso i cuori di coloro che la occupavano, rendendoli indomiti e disperati.

Anche i nemici sapevano che nessuno, a Gondor, si sarebbe mai lasciato prendere vivo.

 

L’assedio sarebbe iniziato presto, probabilmente fin dalla notte dopo.

Eppure, nonostante il cuore stretto nella morsa dell’apprensione, Aragorn ricordava che la mattina, quella mattina splendida, gli aveva rallegrato lo spirito, infondendovi una inaspettata fiducia. Aveva rivolto uno sguardo a Legolas, che gli cavalcava vicino, e si erano scambiati un sorriso.

Erano entrati in città senza rivelare a nessuno chi erano, fino ad arrivare al Sovrintendente, per sondare le sue intenzioni. Si erano accordati così, a Rohan, e mentre gli eserciti alleati si radunavano in fretta a Dunclivo, loro erano partiti di scolta, fidando nella poca visibilità di due cavalieri da soli.

 

Avevano coperto la propria identità fino all’ultimo, fino a palazzo. Solo allora, introdotti al cospetto di Denethor dalle guardie della cittadella, gli si erano inchinati dinnanzi deponendo le armi ai suoi piedi, e lui, Aragorn, aveva palesato il suo nome, parlato della sua missione e dell’alleanza con Rohan.

 

Denethor lo aveva fissato torvo, senza proferire verbo. Sembrava che quella visita la aspettasse da tempo. Come se sapesse chi erano ancora prima di sentirselo dire. Come se avesse visto già molte cose che dovevano accadere.

“E credi tu forse, Aragorn figlio di Arathorn, ch’io mi pieghi a seguire i tuoi consigli?”

“Io credo che dovresti fare il bene di Gondor”, gli aveva risposto lentamente, guardandolo negli occhi.

“Il bene di Gondor non è cosa che ti competa - era stata la secca replica del reggente -. Credi che io sia disposto a sottomettere secoli di governo illustre della mia stirpe ai pareri dell’ultimo discendente randagio di una dinastia cenciosa e dimenticata?”

I suoi occhi avvampavano, e il tono di voce si era innalzato e fatto arrogante nel concludere quella frase.

Aragorn non aveva battuto ciglio. E senza alcun mutamento visibile d’accento, come se quelle parole semplicemente non avessero avuto il potere di toccarlo, aveva detto ancora, lentamente:

“Tu non hai l’autorità di contrastare la discendenza di Isildur, sovrintendente. Compirai il tuo dovere, quando sarà il momento”.

Denethor era impallidito violentemente a quelle parole dolci e gelate, davanti a quell’uomo che non aveva avuto remore a inchinarsi al suo cospetto, e che inchinato gli dava ordini. Si era voltato di scatto, dandogli le spalle, senza poter rispondere.

Era stato lui, allora, a parlare di nuovo: “Ma non è questo l’importante adesso - aveva detto -. Occorre organizzare la resistenza nel modo migliore. Abbiamo fatto un lungo viaggio per questo scopo, e ripartiremo stanotte. Abbiamo bisogno di una stanza per riposare due ore, poi ci incontreremo, e parleremo della difesa della città”.

Denethor era rimasto fermo, terreo, e quando loro due si erano voltati, ed erano usciti deferenti e tranquilli dalla sala delle udienze, aveva avuto un moto stizzito, e si era allontanato in fretta verso i suoi appartamenti.

 

***

 

Ora quegli appartamenti erano la sua residenza. Ma la stanza, quella stessa stanza nell’altra ala del palazzo che quel giorno lontano aveva condiviso col suo compagno, aveva voluto tenerla per sé, e ne aveva fatto un piccolo studio in cui si chiudeva da solo, nei rari momenti quieti delle sue funzioni di sovrano.

Il ricordo dello sguardo di Legolas quando erano entrati là gli increspò la fronte in una ruga sottile. Lo aveva osservato a lungo mentre si toglieva il mantello e deponeva accanto al letto i panni da viaggio, la spada, pensando alla scena appena svoltasi con Denethor.

“Tu sarai davvero il re di questa terra - aveva mormorato voltandogli le spalle, quasi tra sé -. E vincerai davvero questa guerra impossibile”.

Aveva sorriso, allora, e con un sospiro si era accostato a lui e lo aveva avvolto tra le braccia da dietro, poggiandogli il mento su una spalla.

“Ma io non desidero regnare - aveva mormorato -. Desidero soltanto te”.

Legolas aveva chinato il capo, lasciandosi abbracciare, e un sospiro lievissimo era uscito anche dalle sue labbra. “È per questo che regnerai, e renderai a tutti la pace”, aveva risposto con un tono talmente basso che quella frase era annegata subito nel silenzio.

 

Lo aveva tenuto così anche quando si erano distesi. Senza parlare, dietro al suo corpo, con le braccia avvolte intorno alla vita, aveva preso sonno quasi subito, conformandosi poco a poco al ritmo del suo respiro. Legolas era sveglio, l’aveva percepito. Ma gli si era affidato completamente, sfinito dalla stanchezza, chiudendo gli  occhi con le labbra perse nel profumo dei suoi capelli.

 

*

Erano state dolci le ultime notti con lui. Dolci e poche, in mezzo ai mille rivolgimenti della guerra, che li tenevano separati e lontani. Tanto poche che, quando cercava di contarle nella memoria, provava un dolore penetrante e acutissimo, che incideva lo spirito senza svanire più.

Sei, forse sette notti trascorse insieme, prima che lui morisse.

Quando quel pensiero lo coglieva, adesso, gli faceva così male da togliergli il respiro. Gli succedeva quando era solo. E doveva sedersi, allora, e nascondere il viso nelle mani, muovendo le labbra in un gemito disperato, senza rumore. Soltanto lì, in quella stanza che sola, a Minas Tirith, era stata testimone dell’abbraccio fiducioso e caldo che li aveva assopiti per due ore, egli riusciva ad affrontare ricordi come quello senza impazzire.

A volte, quando di quel brevissimo tempo gli venivano in mente tutti gli attimi che non aveva dedicato a lui, la sua mente reagiva allo strazio inventando altri tempi, altri momenti, per riempirli di cose che non erano state. Di baci, di parole e carezze che non aveva potuto fargli perché doveva combattere, perché c’era sempre una meta da raggiungere, una partenza da affrettare. La consapevolezza che quello era il suo compito, che non aveva avuto altra scelta, non era mai servita a placare il rimorso. Anche se Legolas probabilmente, per confortarlo, avrebbe detto le stesse cose.

Erano stati tempi terribili, quelli, e ognuno di loro aveva rischiato la vita, mettendola a repentaglio ogni giorno. Alcuni tornavano, altri morivano: era nell’ordine delle cose.

Ne erano consapevoli tutti.

Eppure ogni volta era un dolore che toglieva il fiato e lasciava increduli a domandarsi perché.

Mettevano in gioco la vita, tutti loro, sempre. Lui stesso lo faceva, più di ogni altro. E Legolas, che da allora gli era stato accanto combattendo con coraggio e prudenza, senza più cercare il pericolo ma lottando senza risparmiarsi, sapeva perfettamente che poteva succedergli. Lo sapeva e lo affrontava, perché l’aveva scelto.

Proprio come gli altri prima di lui: gli altri la cui perdita li aveva crudelmente colpiti.

Era morto Haldir, era morto Boromir nella guerra.

E anche Legolas era morto, un giorno, anche se lui lo amava.

 

 

***

 

 

“No, non alzarti, aspetta”.

Dal telo della loro tenda, nel campo di Dunclivo, filtrava tenue la luce pallida dell’aurora. L’alba alle porte andava scoprendo l’ultimo giorno in quel luogo, perché quel giorno l’esercito si sarebbe messo in marcia, diretto a Gondor.

“Aspetta, Legolas...”

Lo aveva trattenuto senza toccarlo, col tono triste della voce, mentre lo fissava rimanendo disteso, accanto a lui sul giaciglio. Un refolo d’aria fredda del mattino aveva posato un brivido sul suo corpo nudo, abbandonato sulle pelli morbide come se non fosse ancora uscito dal sonno.

Ma era sveglio, era già sveglio da un’ora.

“È ancora presto. Non alzarti, ti prego”.

Il suo compagno lo aveva guardato per qualche istante, seduto vicino a lui. Poi aveva smesso di annodarsi i capelli e aveva lasciato le braccia scivolare giù. La massa gli era ricaduta soffice sulle spalle, incorniciando il sorriso che gli rivolgeva, con le ciglia chiuse. Aveva pensato di non averlo mai amato come in quel momento.

Una mano stesa verso di lui, lentamente. E poi lo aveva accolto, mentre tornava ad adagiarsi tra le sue braccia. Lo aveva portato sopra di sé, tenendogli tra le palme il viso, e quando la fronte si era posata sulla sua aveva chiuso gli occhi, il volto racchiuso dai suoi capelli.

Poi si era sentito come se all’improvviso il cuore non riuscisse più a contenere quel sentimento. Aveva desiderato il suo corpo, assaporato il suo bacio, e aveva dovuto dirglielo, tante volte.

“Legolas, io ti amo, ti amo...”

Quante volte lo aveva detto ancora, mentre lui in silenzio gli si affidava, e aveva stretto i fianchi  ai suoi cercando piacere contro la pelle liscia del ventre. Lo aveva carezzato sempre più intensamente, ed era impazzito al tremito del suo corpo quando gli aveva avvolto la mano lentamente attorno al pene, e aveva iniziato a muoverla perché godesse delle sue carezze. Legolas si era bagnato subito, nella sua mano, e mentre si faceva baciare ansimava sommesso, disperatamente incapace di fermarsi, di fargli rallentare quei movimenti.

“Oh, Estel... ancora... ancora...”

“Sì... sì... così, amore...”

“Ancora... non fermarti... non mi lasciare, ti prego... non smettere...”

“No, non ti lascerò mai... mai...”

Il suo corpo tremava leggero, sopra di lui, e sulle sue labbra socchiuse, ormai quasi incapaci di rispondere ai baci, affioravano sussulti e un lamento lieve, dolce, che incendiava il desiderio, l’attesa.

“Aspetta... aspetta un istante, Legolas... resisti ancora... ti voglio... voglio godere con te...”

“Sì... fallo, amore... fallo e accarezzami ancora... non fermarti... no...”

Lo aveva sentito inginocchiarsi su di lui, e offrirsi dolcemente alla sua pressione. Allora gli aveva avvolto i fianchi con le mani e si era spinto dentro il suo corpo poco a poco, mentre Legolas si mordeva il labbro, gemendo più intensamente a ogni spinta.

“Oh, sì... prendimi... vieni, ti prego... sì...”

Lentamente lo aveva preso rimanendo in lui, ansimando tra le sue labbra. E quando aveva cominciato a muoversi dolcemente, Legolas gli si era gettato addosso e in un gemito aveva reso più intenso quel ritmo, più veloce e più pieno mentre sentiva le sue mani avvolte su di sé, accarezzarlo senza smettere mai.

“Dimmi che sono tuo, Estel... tienimi e fammi venire così... prendimi... sono tuo...”

“Oh sì, sei mio... sei mio... sei soltanto mio...”

Allora non era riuscito a capire più  nulla, solo il suo corpo che si muoveva frenetico in quell’abbraccio, ed era stato disperato e tremante nel possederlo, ascoltando i suoi gemiti e toccandolo per farlo godere. Era stato quasi un grido quello di Legolas quando era venuto, un grido che gli aveva versato tra le labbra lasciando sgorgare il seme nella sua mano, senza fermarsi ancora. E quando aveva sentito quel fluire caldo irrorargli le dita Aragorn si era abbandonato al calore che gli divampava nel ventre e il suo corpo si era irrigidito in una spinta profonda, e il suo piacere era esploso dentro di lui.

 

 

*

 

In pubblico, vivevano con riserbo quel loro amore. Ma non si nascondevano, ormai. Spesso capitava che due guerrieri, che avessero condiviso le armi e il pericolo della morte, trovassero l’uno nell’altro la forza per affrontare ancora la vita.

Nessuno aveva detto nulla quando avevano scelto di avere una tenda solo per loro. E nessuno avrebbe biasimato il loro legame, se gli sguardi che si scambiavano in certi istanti fossero stati notati.

Ma pochi avevano capito. Pochissimi.

Lo aveva capito Éomer, ed era successo perché anche lui aveva amato Legolas. Inutilmente, sapendo di non avere speranza. Aragorn aveva notato subito gli sguardi che rivolgeva al bellissimo principe elfico, fin dalla prima volta che si erano incontrati e gli uomini del Mark li avevano circondati a cavallo.

E poi li aveva visti, un giorno di tanto tempo prima, nei campi biondi di Edoras, parlare soli lungo le rive del fiume. Éomer aveva occhi pieni di sofferenza, pieni di disperata rassegnazione.

Li aveva osservati a lungo, distante, e dal senso di privazione e timore che aveva assalito a quella scena il suo cuore, si era reso conto subito di cosa stava accadendo, anche senza sentirli parlare. Legolas aveva chinato il capo, quel giorno, mentre si allontanava da Éomer, e aveva mormorato parole che gli era parso di poter leggere sulle sue labbra, e una di esse era “scusa”.

Non gli aveva domandato nulla. Ma la notte, quando l’aveva avuto ancora con sé, nel suo letto, aveva sofferto del suo sguardo malinconico e assorto, e aveva avuto bisogno di chiedergli una conferma del suo amore con la poca voce che riusciva a sentirsi in gola. Era stata una preghiera scoperta e semplice, e aveva ricevuto in cambio uno sguardo profondissimo, che lo aveva fatto tacere. Dalle ciglia di Legolas era scesa una lacrima che aveva sentito morire sulle proprie labbra, posata piano da un bacio.

 

Eppure, adesso, Éomer era il più caro dei suoi amici. Un alleato fedele, che aveva ripetuto il giuramento di Eorl mantenendolo più volte. Perché, sebbene Sauron fosse stato sconfitto, gli odi e le malvagità che aveva suscitato e acuito non si erano ancora spenti, e il Re dell’Ovest aveva dovuto vincere molti nemici prima che l’Albero Bianco potesse fiorire in pace. E ovunque combattesse Re Elessar, Re Éomer lo accompagnava.

Pochi avrebbero potuto capirlo, ma era stato così. Per un paradosso d’amore, per il sentimento che avevano provato entrambi, egli aveva sentito di poter piangere la perdita di Legolas con lui, forse più dolorosamente che con chiunque altro. E quel pianto li aveva uniti, per un brevissimo momento, quando nell’abbraccio accorato che si erano scambiati si era illuminata soltanto, nei loro cuori, l’immagine dell’emozione che li aveva nutriti. Era stato come se Legolas fosse ancora lì, allora, per un solo fragilissimo istante: egli non aveva potuto scordarlo più, e aveva guardato Éomer col cuore gonfio di pena e di gratitudine.

“Lui era il tuo compagno”, aveva mormorato Éomer, a voce bassissima.

“Sì, lo era”, aveva risposto piano, chinando il capo con le lacrime che gli rigavano il viso.

 

 

*

 

Pochissimi lo avevano capito. E c’era Éowyn tra loro.

Strano e doloroso e triste. Era stato come se i due fratelli, che erano simili per la profondità del sentire e per il valore indocile, anche in questo fossero vicini, nel celare nel petto un cuore senza carezze. Sembrava quasi, in quel tempo, che qualcuno avesse pronunciato su loro una condanna impassibile, per privare il loro spirito di consolazione e incatenarlo all’assenza di un affetto tanto più necessario e crudele quanto più alta era la loro grandezza.

Éowyn aveva amato lui, Aragorn. Lo aveva amato tanto.

Ma, al contrario di Éomer, aveva sperato. E sebbene fosse stato solo un brevissimo istante, quello in cui si era cullata nella speranza, un istante nato da un suo sorriso, da poche sue parole gentili, sebbene quella sua speranza fosse quasi germogliata da sola, nutrita con le briciole della stima, dell’attenzione che le erano venute da lui; sebbene fosse stata troppo fragile e triste per chiedergli di amarla, per pretendere che l’amasse allo stesso modo, quell’unico istante lo aveva pagato come se fosse stato un tempo di mille anni, e lei un filo d’erba troppo debole anche per sopportare la pioggia.

Éowyn aveva desiderato morire, quando carezzandole il viso l’aveva ferita con la sua onestà. E ancora adesso, nonostante il tempo e l’amicizia e Faramir che l’aveva salvata, egli non riusciva a perdonarsi del tutto per averle dato quel dolore.

Perché si fa sempre del male alle persone migliori, alle più care?

Come con Legolas, che il suo amore si era portato via.

 

 

*

 

Aveva un sorriso quieto e pieno di tante cose, Legolas. Forse era stato il comprendere quanto fosse amato, quanto la sua esistenza fosse necessaria a lui, a dargli quella serenità. Da quella notte a Edoras in cui gli aveva mostrato il suo pianto, la sua paura, era cambiato come se all’improvviso, tra loro due, lui fosse quello che aveva capito tutto, che sapeva ogni cosa.

Lo osservava, a volte, non visto. E c’era un sentimento dolente dentro ai suoi occhi, come del leggere una storia già nota con un finale triste, ma bellissima, che a ogni parola rapisce per la sua dolcezza. Era così, con una gioia malinconica e appassionata, che Legolas viveva la loro unione. Ma non c’era mai stata una volta, nemmeno una, in cui si  fosse volto al suo abbraccio con quell’ombra mesta sul viso. Era felice, era davvero felice quando gli stava vicino.

 

Lo aveva reso felice. Completamente.

E col tempo, con gli anni e con la pena e la noia e le cose da affrontare lo stesso, col dovere di trovare la forza e lottare e rispondere a tutto ciò che l’esistenza richiede, egli si era reso conto che essere felici è un’esperienza che può anche non capitare mai, nella vita. Che essere felici non è un diritto ricevuto col nascere, e non ha diritti sul compito di vivere, sulle vite di cui ognuno è responsabile con la sua.

Per questo, se la si incontra, è una cosa tanto preziosa. Perché non è necessaria. Perché si può vivere senza, in realtà. Perché è proprio così che si vive, normalmente. Senza.

 

Glielo aveva insegnato Legolas. Era stato lui.

 

Ma c’era un’altra cosa che gli aveva insegnato. Che solo questa condizione amara può fare il dono della pura gioia. E dare una possibilità, seppure insufficiente e parziale, di spiegare l’assurdo intorno. 

 

 

 

***

 

 

“Non devi tormentarti Aragorn. Non è nelle tue mani il potere di stabilire il futuro”.

“No, non lo è. Eppure, fosse anche per un istante, per una decisione soltanto, io vorrei che lo fosse”.

“Cosa decideresti, allora?”

“La certezza di saperlo vivo, soltanto questo”.

“È il tuo cuore che sta dettando queste parole, Aragorn, non la coscienza e la mente. Chiunque lo direbbe, certo, per la persona che ama. Ma non è questo che tu decideresti realmente, se ne avessi davvero il potere, perché sei un uomo giusto, e perché conosci il tuo compito. Se davvero ti fosse dato determinare gli eventi con una decisione soltanto, tu dovresti affrontare la consapevolezza incredula che più in alto del tuo amore per lui c’è la salvezza di questo mondo, e la libertà. Tu dovresti decidere di sconfiggere Mordor. E proprio questo faresti, lo sai, perché sarebbe questa la scelta giusta. Allora dovresti per sempre portarne il peso”.

Aveva chinato il capo a quel discorso.

“È vero ciò che hai detto, purtroppo”.

“Ma tu non dovrai assumerti questa responsabilità, perché il potere dei Valar non è nelle tue mani. E devi rallegrartene, non dolerti”.

 

Quando Faramir aveva detto queste parole, egli aveva distolto gli occhi dalla danza tenue della fiamma e si era girato verso di lui, che gli stava seduto accanto davanti al fuoco da campo. Gli aveva posato la mano su una spalla, e alla fine aveva sorriso.

Faramir aveva scosso il capo, guardando in lontananza la collina su cui Legolas faceva il suo turno di guardia.

“Io lo conoscevo anche prima, sai?”

“Davvero?”

“Sì, prima che vi incontraste. Per un lungo periodo è stato a Gondor con noi, inviato dal re suo padre”.

“E... com’era, prima?”

“Inafferrabile. Spietato nel combattere e quasi invisibile, etereo, nello stare con gli altri. Non sembrava, davvero, un essere terreno”.

“E adesso non è più così?”

“Adesso soffre, e gioisce, e ha paura, e ama. Adesso è come se fosse un uomo. Uno di noi”.

“E tutto per colpa mia”.

“O per merito tuo. Non darti colpe che non hai, soprattutto se sono queste”.

“Prima non era così vulnerabile, e non correva i rischi di adesso”.

“Non è vero. Io non credo che le cose stiano così. E poi ricordati che è stata una sua scelta, una scelta in cui ha creduto con tutto se stesso. Devi rispettarla, se davvero lo ami, perché lui adesso è quello che ha scelto, e se non accetti questo non accetti nemmeno lui”.

Aveva di nuovo chinato il capo: “Lo so, lo so bene”, aveva mormorato pianissimo.

 

 

*

 

Per questo, quando con Legolas si era avviato da solo lungo i Sentieri dei Morti, salutando con un abbraccio Faramir che con l’esercito si recava a Osgiliath, si era reso conto che nel suo cuore non albergava alcuna paura. I due giorni di cammino che li separavano da quelle vie minacciose erano stati quieti, col cuore pieno di fiducia. Come se quello che stavano vivendo insieme, che insieme avevano vissuto, nessuno mai, comunque, potesse più portarlo via.

 

*

 

Era una notte chiara d’inizio aprile, e, nonostante il silenzio inquietante di quei luoghi abbandonati da anni, loro avevano percorso il sentiero quasi sereni. Avrebbero fatto una sosta di poche ore, e solo il giorno dopo sarebbero giunti al Colle di Erech. Da lungo tempo il terrore dei Morti sovrastava quel colle e i campi vuoti attorno ad esso.

Ma loro non erano turbati.

Avevano trovato riparo in una radura e sistemato i giacigli uno accanto all’altro, senza accendere il fuoco. Nel pallido chiarore notturno, i loro volti illuminati dalla luce diafana sembravano immagini rarefatte e quasi senza realtà.

Si erano scambiati pochissime frasi, per tutto il viaggio.

“Sei stanco, Legolas?”

Lo aveva visto sorridere e scuotere la testa: “Tu chiedi a un elfo se è stanco, mio re?”

“Non chiamarmi così”.

“Mio signore, ti chiamo col tuo nome, quello che ti appartiene”.

Allora aveva abbassato il viso, e si era sentito stanco e senza più voce: “No... non chiamarmi così... te ne prego...”

Era stato soltanto un mormorio lieve, che il vento si era portato via. Eppure Legolas gli si era chinato accanto, e gli aveva posato la fronte sopra una spalla.

“Estel - aveva detto pianissimo -. Mio compagno e mia guida...”

Poi, quando egli aveva rivolto il viso alle sue labbra, Legolas si era alzato in un soffio, e si era avvicinato al fiume. Si era bagnato le mani, le tempie, in silenzio. E, lasciando scivolare ai suoi piedi un panno dopo l’altro, si era spogliato completamente, restando nudo e silenzioso vicino alla superficie dell’acqua.

“Legolas...”

“Una volta, a Lothlórien, mi hai fatto venire vicino al fiume”.

“Sì, lo ricordo... ma non era vicino, era nel fiume...”

“Nell’acqua... sì... Ma allora io non sapevo niente, e ancora non eravamo uniti. Non mi avevi fatto diventare tuo”.

“Non volevo farti male, turbarti... tu eri così inesperto che io...”

“Ti preoccupavi per me anche allora, e per lo stesso motivo”.

“Forse... sì... forse è così. Ma perché stai sorridendo, adesso?”

“Ricordo mentre mi toccavi, e sentivo i baci della tua lingua sulla spalla, sul petto. E poi sono venuto nella tua mano, nell’acqua, e se tu non mi avessi sorretto sarei scivolato giù”.

“Legolas...”

“E tu eri eccitato da impazzire, e ti ho sentito duro su di me mentre mi spingevi contro la riva. E poi all’improvviso sei venuto anche tu, strofinandoti sul mio corpo”

“Sì, è così...”, aveva detto con gli occhi chiusi.

“É stato quando ti ho visto venire che ho capito cosa provavo per te. L’ho capito improvvisamente, guardando l’espressione travolta nei tuoi occhi”.

“Oh, Legolas, ti prego...”

Si era voltato verso la riva. E così, di spalle, il suo corpo era di una bellezza incredibile. La luce della luna carezzava la pelle dei glutei, rotonda e soda, disegnando un chiaroscuro tenue sui rilievi della muscolatura. Da quella distanza la sua voce arrivava limpida e sommessa, sfiorando l’aria. Si era lasciato guardare, ascoltando il suo silenzio, e il nodo che aveva in gola.

“Legolas...”

“Adesso sei eccitato?”

“Sì”.

“Anch’io lo sono. Da impazzire”.

Aveva deglutito a stento: “E cosa vuoi che faccia?”

“Vorrei che venissi qui, e mi baciassi ancora, e poi mi succhiassi. E poi vorrei che mi voltassi spingendomi su quest’erba, e che mi facessi godere entrando e uscendo da me”.

 

Non ricordava nemmeno come si era ritrovato nudo anche lui. Era stato così intenso e forte che, di quella notte, si affacciavano alla mente solo immagini e sensazioni confuse, sconvolte, ancora dopo tanto tempo. La durezza del suo sesso tra le labbra, e come gli si bagnava in bocca. L’erezione che sentiva montare irresistibilmente, e come gli stava quasi per godere tra le dita, appena Legolas l’aveva sfiorato per dargli un po’ di sollievo. I morsi sulla spalla in cui aveva sfogato il suo piacere mentre lo prendeva da dietro, e il morbido di quel corpo che si apriva docile alle sue spinte. I suoi gemiti di autentica estasi, e le parole violente che gli aveva detto, per farlo spingere ancora di più. E come gli era venuto tra le mani che lo aiutavano, e poi di nuovo in bocca, come se quella notte fosse instancabile. E il suo nome, il nome di lui che aveva gridato più volte mentre possedendolo impazziva di piacere, e sentiva i colpi dell’orgasmo scuoterlo, e il seme tiepido bagnarlo, e gli godeva dentro.

 

Lo avevano fatto più volte, tutta la notte, come se quella notte la stanchezza non potesse mai arrivare. A un certo punto Legolas lo aveva spinto contro un albero, la schiena nuda contro il tronco scabro, gli si era inginocchiato davanti e lo aveva preso in bocca, succhiandolo con passione. Poi lo aveva voltato, mentre stava già per venire, e carezzandolo si era spinto contro di lui, dentro di lui, entrando nel suo corpo.

“Oh... Legolas... così mi fai...”

“Cosa...”, aveva detto ansimando. “Godere? Impazzire? Che cosa ti faccio...”

“Tutto... tutto questo... sì... Ti prego, continua a farlo... ancora...”

“Sì... vedi? Lo sto facendo... lo sto facendo...”

“Sì... sì...”, aveva ansimato in risposta, aggrappandosi alla corteccia con le dita, mentre lo sentiva muoversi e aprirgli poco a poco le gambe, prendendolo sempre di più, mentre avvertiva il contatto del tronco ruvido sul ventre, e i movimenti del suo pube contro i glutei, e i suoi gemiti, e le sue mani avvolte, ora, attorno al pene.

“Ti farò godere, Estel. Apriti... apriti così...”

“Oh... oh, sì... oh, Legolas, ancora.... sì...”

“Sì... adesso godi, amore... godi...”

Lo aveva detto con tanta passione che alla sua spinta egli aveva ceduto completamente, e si era abbracciato al tronco con un grido, e aveva continuato a godere incredibilmente per minuti, mentre il compagno continuava a penetrarlo, con un moto prolungato e lento.

 

 

*

 

 

“Lo capisci, Estel? È per questo, per tutto questo, che non devi più aver paura. Non c’è più nulla da temere, ormai”.

Lo aveva detto con un tono così determinato e tranquillo che lui si era sentito insieme commosso e in ansia. Per un tempo interminabile non aveva staccato gli occhi dal suo viso, dalla cascata bionda dei suoi capelli, dalla sua figura leggera e forte.

Eppure, sì, provava un sentimento di pienezza, di appagamento, che non aveva mai provato prima. Lo aveva cercato per una vita, e adesso gli capitava sempre, ogni volta: stando con lui, parlando con lui, amandolo.

“Ci sono alcuni eventi, alcuni incontri nel corso dell’esistenza, che hanno la capacità di dare ad essa un significato. Anche se tutto intorno sembrerebbe lottare contro, anche se i tempi in cui avviene non sembrano quelli giusti, e, anzi, sembrano i più sbagliati e impropri. Eppure questi incontri avvengono, questi eventi si realizzano, e ti cambiano”.

“Stai parlando di noi due, vero, Legolas?”

“Sì. Noi ci amiamo, Estel, e ci siamo donati l’uno all’altro. Eppure chi mai avrebbe potuto prevedere una cosa come questa? Tra due esseri come noi? Con un passato, un presente tanto diverso, con attese e pensieri così distanti? La tua vita di uomo, la mia lunghissima esistenza di elfo... e il nostro incontro... e la strada che abbiamo compiuto insieme... Eppure ci siamo trovati, e ci siamo amati, e abbiamo scelto di combattere insieme, con tutti gli altri compagni, per la libertà di questo mondo, per resistere al buio”.

“Per sopravvivere”.

“Sì, ma non è solo questo, Estel. Non è solo sopravvivere alla minaccia di un nemico che ci assale da fuori. Sai, io credo che in fondo l’ombra di Sauron ci faccia tanta paura perché riflette l’ombra nei nostri cuori. La nostra debolezza, la nostra ansia, la nostra incapacità di guardare avanti credendo ancora in qualcosa. È per questo che la temiamo tanto. Forse ciò che davvero ci terrorizza è dover guardare dentro di noi”.

“È possibile, hai ragione. Ma dove vuoi arrivare, dicendo questo?”

“Semplice - aveva detto alzando le spalle, come se la verità che diceva fosse una cosa da poco, una fantasia -. Semplice, Estel... In realtà per arrivare fin qui noi abbiamo guardato nei nostri cuori, abbiamo trovato il coraggio di affrontare le paure che ci tormentavano. Le ansie, la mancanza di fiducia, il timore che la vita e gli altri ci deludessero... Cosa eravamo io e te prima di incontrarci?”

Egli aveva dato un sospiro, allora: “Niente. Io non ero niente, prima di te. Percorrevo per dovere una strada di cui non conoscevo la meta. Tutto qui”.

“E lo stesso posso dire di me stesso, mio signore. Secoli, millenni di un’esistenza senza scopo. Fino a che ti ho trovato”.

“E, dimmi, cosa è successo poi?”

“È successo che tutto ha acquistato un senso, anche le cose che avevo imparato prima e che non ne avevano. È successo che ho trovato il coraggio di vivere e di rischiare, di accettare il pericolo che tutto ciò che aveva per me un significato e un valore potesse all’improvviso finire. È una scelta difficilissima, perché non la si può fare pensando di salvarsi in qualche modo, se si perderà”.

“È vero. È stato così anche per me, da quando ti ho trovato”.

“E allora, vedi, non c’è più nulla da temere. Estel... la meta a cui tendiamo l’abbiamo già raggiunta, in realtà. Siamo noi, e il cammino che abbiamo fatto per accettarci, per affidarci a questo amore, per credere. La nostra vera meta è il cammino, è questo cammino che abbiamo trovato la forza di compiere restando uniti, percorrendolo fino in fondo e dando il meglio di noi, anche se alla fine, comunque, dovremo arrenderci. Quale valore, quale significato ha il risultato dei nostri sforzi, la vittoria finale, se non quello che lottando gli abbiamo dato? Noi abbiamo già vinto Sauron, trovando la forza di combatterlo. Abbiamo già vinto tutte le nostre paure, e soprattutto una, la più grave: la paura di vivere inutilmente”.

“Vieni qui, Legolas... vieni qui...”

Non si era potuto trattenere, e lo aveva avvolto tra le braccia, perché non riusciva a sentirlo parlare, dire quelle cose, stando distante da lui.

“Oh Estel... Aragorn... Elessar... tutti i tuoi nomi, i dolcissimi nomi con cui ti chiamano significano la stessa cosa per me. Che ti amo, e che non ho più paura. Di vivere, di morire... Anche se dovesse finire adesso, la mia vita sarebbe stata la vita più bella, più intensa e felice che potessi desiderare”.

“Ti prego, non dire questo...”

“Non essere triste. Io non voglio certo morire. Sto solo dicendo che non ho più paura di morire, mio signore. Che la morte non potrà toglierci niente di quello che abbiamo avuto. E anzi, forse è stata proprio lei a darcelo”.

Si era stretto nel suo abbraccio, e aveva chiuso gli occhi.

“Noi percorreremo tutto il nostro cammino. E, se è tuo destino regnare, tu lo farai, e sarai il re più giusto e più coraggioso che ci sia mai stato. Nessuno di noi due sarà più solo.... Mai più. Quello che siamo adesso non potrà perdersi...”

“Legolas...”

La risposta gli era arrivata in un sospiro sommesso, che era sfumato nel sonno.

 

 

*

 

All’alba del terzo giorno, fredda e pallida, il Re dei Morti e il suo corteo senza pace mantennero il giuramento tradito, e seguirono Elessar, l’erede di Isildur di Gondor. Egli guidò la compagnia nel viaggio più incalzante e faticoso che nessuno dei cavalieri avesse mai affrontato. Nessun altro mortale avrebbe resistito, ma il dúnadan del Nord e l’elfo lo fecero, e arrivarono a Gondor, e combatterono e vinsero riunendosi ai Rohirrim nei campi del Pelennor.