.|. Wound (il Dono degli Uomini) .|.

6. Eos

~

Svegliarsi nel cuore della notte, senza un motivo preciso, non era mai stato inusuale per lui. Tante volte, anche prima, gli era successo. Nel buio ostile di un bosco, in una locanda sconosciuta e fredda. Apriva gli occhi, allora, e sospirava senza stupirsi: a un certo punto un sonno quieto e profondo diventa un regalo che non tutti possono avere.

 

Ma c’era quel sogno, stavolta. Quel sogno dolce, come di rado erano dolci i suoi. Contrastava,  la tenera sfumatura di quelle ombre, con la durezza della superficie del lungo tavolo su cui infine si era assopito. Solo. Il viso posato sulle braccia, il respiro più lento, abbandonato a sé.

 

“Non fuggire, Estel...”

 

Gli faceva una carezza, lievissima, sorridendo. Un gesto che si perdeva in una lontananza di forma trascorsa, sprofondando sotto il livello della coscienza che emergeva a fatica.

Controvoglia.

 

Non aprì gli occhi. Consapevole del risveglio imminente li tenne chiusi, inseguendo l’immagine del sogno.

Quel gesto, la serenità nel suo cuore.

Cosa stava dicendo? Qual era la storia intorno?

Abbandonarsi per ritrovarla, perché non affondasse per sempre. Le immagini felici del cuore, che prendono forma nei sogni.

Ma non ritornano. Non ritornano mai.

 

La carezza di Legolas. E il suo sorriso. E la pace indicibile che gli dava.

Non poteva riportarla alla luce, non sapeva.

Lottò, allora, la mente tesa a ricostruirla, con gli occhi chiusi, a sostituirsi a quel sogno. La finse con l’invenzione, creandola, immaginandola. Cercando di inseguirne il ricordo, sempre meno afferrabile, vago. Il pensiero più consapevole, invano ricacciato indietro. E lo sforzo che gli  costava, la scena da disegnare, perché avesse quella stessa dolcezza, perché ne avesse di più...

 

Legolas lo carezzava. Lo carezzava.

C’era la sera intorno.

Lo carezzava e sorrideva.

Come sorrideva?

Con quale sguardo?

Perché...

 

 

Basta. Non fuggire, Estel.

Non fuggire.

Nessuno mi ha più chiamato così.

Amore, tu non sai quanto è difficile, amore. Io non sogno mai. Non so se davvero faccio dei sogni. Quelli che avevo non li ricordo nemmeno più.

 

 

Le mani chiuse, le dita affondate nel palmo.

Un sospiro, doloroso e calmo.

Un sorriso, con le lacrime agli occhi.

 

 

Amore.

In fondo mi hai sempre detto di non fuggire.

Ma sono qui, vedi? Io sono qui. Non sto fuggendo.

Guarda, non sto fuggendo.

 

***

 

 

All’inizio lo strazio era stato violento, invincibile. Aveva creduto di non resistere, di morire anche lui.

Non ricordava nemmeno bene le parole che aveva detto, in quanti modi gli aveva gridato, sussurrato, singhiozzato il suo amore. Quante volte aveva pensato, fino al tramonto, che quel giorno e quella vittoria mortale gli erano odiosi più di qualunque fine, di qualunque disfatta.

 

E, ancor più che il dolore feroce di quel momento, a distruggerlo era stato il male implacabile dei giorni venuti poi. Quelli che erano arrivati dopo il tempo delle lacrime, del lamento. Dopo che gli aveva reso gli estremi onori, nel silenzio ammutolito di Gondor ferita da troppi lutti. Dopo che aveva voluto accompagnarlo nel bosco, perché Legolas non avrebbe potuto riposare sotto il marmo maestoso e scolpito di una cripta piena di ossa.

Lo aveva portato là, in mezzo agli alberi, vicino alle foci dell’Anduin, da dove si sentiva il mare, e le sue spoglie erano state accolte dall’abbraccio della terra profumata d’erba, della brezza sussurrata dentro le fronde. Là aveva potuto piangerlo disperato, quando era rimasto solo. E aveva potuto sopire il cuore col dolce lenimento del cordoglio fraterno con cui tutti avevano partecipato al suo  pianto.

 

Ma poi, quando il rito aveva consumato il suo tempo, e il tempo era ritornato a scorrere col passo inesorabile e quieto dell’avvicendarsi dei giorni; quando, accantonando il lamento, ognuno era tornato alla propria vita, allora egli si era ritrovato incredulo in quel flusso, con lo spirito inerme. E aveva dovuto affrontare i suoi mille compiti, gli infiniti istanti di cui è composto un minuto, la fatica di incontrare visi, dire parole, dare risposte. Attonito, perché il giorno s’imponeva incurante col peso del suo lento tributo. E il regolare corso della vita normale gli sembrava spaventosa apatia.

 

Non c’era. Lui non c’era.

Non c’era più.

 

Non c’era più fin da quel momento crudele, sul campo di battaglia, donando gli ultimi istanti di vita al suo abbraccio mentre lui, troppo sconvolto per capirlo, li lasciava trascorrere disperato, e gridava. Senza farne memoria uno a uno, per poterli conservare, per custodirli per sempre.

 

Non c’era nei risvegli, nei viaggi, nelle sere davanti al fuoco. Nelle corse a cavallo e negli sguardi perduti verso l’orizzonte, nei pasti consumati con troppa gente, nel chiasso delle liti da dirimere e nel silenzio della notte della sua stanza. Nelle mani che si stringevano senza stringerlo, nel conteggio degli istanti passati con la sua assenza, nell’aria che non portava vicino il profumo della sua pelle, l’attesa dei suoi baci e il loro sapore.

Questo lo straziava, giorno per giorno. Spesso a tradimento, nei momenti inattesi, nei quali si ritrovava senza sapere reagire. Mentre portava il cibo alla bocca, e gli veniva un pensiero da condividere, e lo cercava, allora, al suo fianco, nel posto vuoto. Mentre guardava il soffitto della sua stanza, steso sul letto morbido e grande, e pensava ai giacigli di fortuna su cui avevano maltrattato le membra per tanto tempo, e gli veniva un involontario sorriso per gli scherzi di lui, e il sorriso gli moriva subito sulle labbra, negli occhi che si chiudevano piano, per non pensare.

 

Troppo in fretta ci si abitua all’esser felici.

Troppo ci si affatica a sperare, anche non credendo di farlo.

 

Forse era in questo senso che nelle favole antiche si parlava della speranza come di un male.

 

***

 

 

Eppure non si era tirato indietro.

Fin dall’inizio, anche se andarsene era stata la prima disperata reazione.

Non sapeva nemmeno come avesse fatto, volgendosi a quei momenti.

A quei giorni, di cui conservava un ricordo confuso e nero.

 

*

 

I suoi panni da viaggio.

Li aveva indossati di nuovo, ed era sulla porta della sua stanza, il cappuccio tirato sul viso, il corpo che si muoveva senza sentire, il cuore che non parlava più, che non diceva più nulla.

 

Sparire.

Allontanarsi e sparire. Per sempre, perché quell’angoscia era un peso impossibile da portare.

 

Vivere?

Vivere come? E perché?

Dove avrebbe mai trovato la forza?

 

Aveva lasciato la spada sul letto, e partiva senza niente con sé. Per farsi inghiottire dalla notte, dal buio. Perché nessuno lo incontrasse ancora, e potesse riconoscerlo più.

Come uno dei nemici che aveva sconfitto. Uno dei servi dell’Oscuro Signore, che vagano senza ragione in preda alla paura di sé.

Era come uno di loro, adesso?

 

Poi, mentre stava aprendo la porta, tra le dita lo spessore morbido di qualcosa. Lo aveva tirato fuori dalla tasca, e lo aveva fissato incredulo, svolgendolo lentamente.

Come ci era finito, lì?

Il nastro di Legolas, liscio e sottile, ripiegato con cura. Il suo colore verde opaco sul biondo dei capelli di lui. Lo usava per legarseli, a volte, prima di fare l’amore.

A volte, perché poi glieli lasciava sciogliere, con le mani tremanti.

 

Dividere il suo destino. Le ultime parole che aveva detto, come una preghiera. E la necessità, e il bisogno di esaudirla.

 

Era caduto in ginocchio, singhiozzando, le mani a coprire il viso, il nastro che s’intrecciava dolce, scivolandogli tra le dita.

Non sapeva neanche per quanto tempo.

 

“Aragorn, no...”

Lo aveva trovato Faramir, in ginocchio. Ed era venuto a terra vicino a lui. Senza fare domande gli aveva sollevato il cappuccio, portandolo indietro sul capo chino. Aveva osservato un istante i suoi occhi, fissi sul pavimento senza vedere. E lo aveva tirato fuori da quell’abisso, accogliendolo in un abbraccio senza parole.

Con una stretta incredibilmente salda, e sicura.

Mentre lui si sentiva senza più forze.

 

“Non posso, Faramir... Io non posso”. Lo aveva detto in un tremito, senza lacrime.

Un regno, responsabilità di sovrano, infinite altre lotte da sostenere.

Non aveva più senso, se mai ne aveva avuto prima.

“Lo so, Aragorn. Ma tu devi”.

E di fronte a quella parola, ripetuta ancora una volta, il cuore si era ribellato, colmo di rabbia dolorosa e buia. Aveva levato il viso a rispondergli:

“Devo! Io devo... Ma cosa devo fare, ancora? Perché? Ho fatto tutto il mio dovere, ho sacrificato la vita... ho dato tutto... tutto quello che avevo, che amavo, fino alla fine... Che cosa vi aspettate ancora da me?”

“Aragorn, ascolta, ti prego...”

Aveva chinato il capo di nuovo, con gli occhi lucidi. “Io non posso... lo capisci? Non posso, non ce la faccio...”

Faramir gli aveva preso le spalle, e lo aveva fissato con uno sguardo commosso e serio.

“Sì, lo capisco. Io so cosa stai provando”.

Poi la sua voce si era abbassata: “Ma non è così che lo affronterai. Credi che andare via ti darà la pace?  Tu non stavi fuggendo dal tuo dovere: stavi fuggendo da te”.

 

 

È così. Stavo fuggendo da me. Dalla dolcezza e dal troppo amore dei miei ricordi.

 

 

“Ma non puoi riuscirci, non puoi. Lo sai, vero, Aragorn?”

 

Si era alzato lentamente, allora. Aveva scosso il capo, il tremito del cuore dentro un sospiro.

 “Sì. Lo so”.

 

Faramir era rimasto in silenzio, e aveva aspettato che sollevasse lo sguardo. Poi si era inginocchiato davanti a lui, cercandolo con occhi limpidi e seri.

 

“Lo hai già deciso, mio signore. Resta. Non solo perché noi abbiamo bisogno di te. Resta perché anche tu hai bisogno di noi”.

 

*

 

 

Era questo che gli aveva dato la forza di rimanere. Li aveva avuti vicini, i suoi compagni e i suoi amici, e per loro aveva accettato il trono di Gondor. Non lo avevano ossequiato e temuto come un sovrano, ma amato e sostenuto come un fratello.

Avevano ricambiato il suo dono.

E per la prima volta aveva compreso come tutta l’abnegazione e il coraggio, e i tanti anni in cui si era sacrificato per loro, non fossero mai caduti nel vuoto, nemmeno uno.

 

 

******

 

 

Ora non era più come prima.

 

Era vissuto ancora, per Legolas.

Ed era arrivato un giorno in cui  nei ricordi non aveva più trovato solo dolore, ma anche conforto.

Questa era la preziosa ricchezza che gli era rimasta di lui.

Lo aveva scoperto, infine, una sera, quando tormentandosi ancora per pensare al suo viso, e ai momenti dolcissimi che si erano scambiati, senza rendersi conto si era immerso in un morbido e leggero viaggio, in cui i suoni del mondo venivano come eco attenuata, e il peso delle scelte e dei tempi non si avvertiva più.

Allora aveva ritrovato nel cuore tante immagini che credeva di aver perduto. Lo sguardo sul suo viso quando lo aveva amato la prima volta, le sue dita sottili, il modo brioso e timido di scherzare, anche nei momenti più tesi. Il tocco delicato e liscio della sua pelle, il lieve movimento di quando gli scivolava vicino. I suoi occhi chiusi e il suo desiderio, il ritmo dolce e affannato del suo respiro, la fiducia completa con cui gli si abbandonava a ogni incontro. E tutte le volte che lo aveva avuto, che si era  donato a lui.

 

A un certo punto pensare questo e affrontarlo non era più stato crudele come all’inizio, quando aveva dimenticato l’essere solo, e nei risvegli ancora senza coscienza allungava il braccio nel letto vuoto, spostandosi per cercare il suo corpo. Allora era il lenzuolo freddo a farlo tornare in sé. E ricordava, e piangeva. E lo desiderava, infinite volte. Senza mai abbandonarsi a quel desiderio. Senza neanche riuscire a sfiorarsi, per paura di esser distrutto, dal rimpianto e dalla nostalgia.

 

I sensi desti e febbrili e lo spirito come immoto, bloccato. La voglia, e il bisogno, e la paura, il dolore. Per tanto tempo dopo la morte di Legolas non aveva più cercato piacere, non aveva neanche cercato di consolare il suo corpo, la notte, solo.

Rimaneva sul cuscino, a pensarlo. Si scopriva eccitato e non faceva nulla, perché non riusciva a perdonare se stesso, per essere vivo e per avere ancora dei desideri, mentre lui non c’era. Non     c’era più.

 

 

Aveva desiderato la morte mille volte. L’aveva cercata, da una battaglia all’altra.

E quando il regno e la stirpe gli avevano chiesto ancora una volta di compiere il suo dovere, quando i delegati di Imladris avevano parlato delle sue nozze, l’anima aveva rifiutato sconvolta, e rimasto solo aveva guardato il suo viso, riflesso dentro lo specchio, trovandovi un infinito sgomento.

 

*

 

Aveva sposato Arwen come il rituale imponeva, col cuore che non sentiva più nulla.

Eppure sapeva bene di non poter fingere più.

E, la prima notte con lei, il dolore aveva travolto gli argini, ribellandosi. Facendosi beffe dei suoi doveri di re.

Le era rimasto accanto, seduto, il viso tra le mani, piangendo. E il suo dovere non contava, non poteva contare di fronte a questo.

Pieno d’angoscia aveva pensato, in quell’istante, che quella sarebbe stata la pena estrema, che lo avrebbe finalmente annientato.

 

Lei invece lo aveva accolto, e capito. Lo aveva lasciato piangere sul suo grembo come l’amica più dolce. Aveva chinato il viso quando i suoi occhi stupiti l’avevano cercata, in mezzo alle lacrime. Aveva accettato il suo dolore e aveva rispettato la sua amarezza, senza pretendere nulla. E per mesi, di nascosto alla corte, aveva lasciato che dormisse da solo, nell’altra ala dell’appartamento reale.

 

Fino a quella notte di tanto tempo dopo, in cui gli aveva baciato una spalla, vicino al fuoco, sfiorando il suo viso scuro in una carezza.

Erano due anni che non faceva più l’amore, che il suo corpo soffriva di rimpianto e di solitudine, che nessuno lo aveva toccato più.

E quando in una febbre smarrita era entrato in lei, travolto dall’emozione e quasi senza coscienza, la sete e il desiderio e il dolore lo avevano strappato a se stesso, ed era venuto subito, in un grido disperato tra i suoi capelli. Poi era scoppiato in singhiozzi, senza riuscire a trattenersi più.

Lei lo aveva abbracciato, a lungo, mentre tremava.

Mai si era sentito così vulnerabile, così difeso.

 

Aveva cercato di curarlo. E in un certo modo c’era riuscita. Aveva speso la sua vita per riportarlo a se stesso. Fino all’ultimo respiro, fino a morirne.

L’amore di Arwen era stato il ponte su cui aveva mosso i suoi passi, in quei giorni fragili e cupi. E quel figlio, che aveva alzato tra le braccia quando era nato, commosso dall’incanto del minuscolo viso, delle mani piccolissime che stringevano disperate il suo dito.

 

Avrebbe voluto darle l’amore che meritava. Le aveva dato il suo affetto riconoscente, la sua fiducia. Il coraggio di andare avanti, ancora.

 

Ma Arwen aveva la vita degli Eldar, come Legolas.

Solo la stirpe degli Uomini sa vivere disillusa.

 

Era rimasto solo, con dolore che si aggiungeva al dolore. E una nuova forza per sostenerlo.

 

*

 

Forse - aveva pensato spesso da allora - quello che gli era accaduto e che gli accadeva aveva portato la sua esistenza a rassomigliare a quella degli elfi. Che vivono migliaia di anni e imparano a veder morire tante cose, intorno a sé.

Egli aveva continuato vivere, e a lottare, perdendo gli affetti che aveva accanto.

 

Forse per questo gli elfi non cercano quasi mai legami con le creature mortali, per non dover sopportare la pena della loro scomparsa. Forse per questo il sorriso sui loro volti è di una luminosità dolorosa.

 

La sua vita divenuta lunghissima, senza sconti di sofferenza o paura. Sempre così difficile da affrontare. Eppure sempre così assurdamente capace di trovare le forze.

 

Non lo aveva mai compreso, nei lunghi anni venuti prima, quando con infiniti viaggi andava in cerca di sé. Prima di incontrare Legolas, e di perderlo.

Non aveva davvero imparato a vivere, fino a che non aveva imparato ad amare, e a perdere le cose che aveva amato.

A un certo punto gli era parso di sentire, e sapere, che proprio l’amore ricevuto e provato, proprio l’amore perduto, fosse ciò che dava la  forza di sopportare.

 

Qualunque cosa. Qualunque cosa il destino volesse imporre.

Come il dolore per la morte di Faramir, e le lacrime che aveva versato per lui. L’amico che lo aveva sorretto, per tanto tempo, e che troppo presto era giunto al termine del suo viaggio.

Eppure non aveva lasciato soltanto un vuoto, dietro di sé. Perché dopo lo strazio e il lamento era rimasto il ricordo, e la pienezza della sua vita, e i sentimenti profondi e intensissimi che aveva avuto e donato.

 

Forse in questo risiedeva il mistero di quella antica sentenza degli Uomini.

Non c’è niente, diceva, niente, che il tempo non curi.

 

*

 

Ora non era più come prima.

 

***

 

Accolse il richiamo del cielo oltre la finestra, e volle fissarlo dai vetri aperti. La notte stava piano sfumando e già l’aurora versava il suo chiarore nell’ombra.

Posò tutte e due le mani sul davanzale.

 

Amore. Mi sembra di vedere il tuo volto, su questo azzurro.

Non lo avrei mai creduto, quando ti ho perso. Ma è vero, riesco a pensare a te e sorridere. Riesco a pensarti senza desiderare di morire.

 

Andare avanti. Forse c’era riuscito, ad andare avanti. Non solo a sopravvivere nel rimpianto, ma ad accettare con un sorriso l’alba ogni volta.

Forse aveva ragione Éomer, che il giorno prima, mentre il tramonto sfavillava tenue sui vetri, lo aveva raggiunto fuori, sulla collina, e aveva parlato sommessamente con lui:

“Non lo hai perduto. Non lo hai perduto davvero. Ciò che lui era vive in ogni tua azione. Tu sei il re più grande e più giusto che abbia mai regnato su questa terra”.

 

“Forse perché sono il più disperato”, aveva detto quasi ridendo di sé.

 

Ma Éomer aveva avuto come un sussulto, e si era voltato fissandolo più serio che mai.

“Sì, è certamente per questo, Aragorn. Sono passati dieci anni, e tu hai percorso la disperazione più fonda, ed è per questo che sei arrivato qui, ora, a guardare dai campi mossi dal vento la serenità del mondo che hai costruito”.

 

Aveva chinato il capo, con un sospiro.

 

“Ma... Aragorn... l’hai costruito anche per te questo mondo, questa serenità... Per vivere, mio re. Per vivere ancora”.

“Vivere... ma che vuol dire vivere, Éomer?”

“Mi stai chiedendo una cosa di cui sai già la risposta. Non saresti quello che sei, adesso, qui, se non la sapessi. Vivere senza proibirsi di respirare, senza chiudersi al dono che può farci chi incontriamo per via. Senza rifiutare fiducia, e senza dirsi che non si avrà più paura. Tu lo sai bene, questo. Solo che forse non vuoi ancora accettarlo”.

“Cosa vuoi dire...”

Éomer aveva sorriso, eppure le sue parole erano state profonde, e gravi:

“Il tuo cuore, Aragorn. E i sentimenti che ancora è in grado di provare. Non devi impedirgli di aprirsi, non devi negargli per sempre l’amore”.

Si era voltato, meravigliato, in silenzio. Poi aveva abbassato il capo, e aveva detto: “No, mai”.

L’amico aveva guardato lontano, un po’ triste:

“Non bisogna mai credersi troppo diversi dagli altri”.

 

E glielo aveva detto in modo mite e disteso, facendolo trasalire: “Quel giovane elfo venuto in delegazione da Lórien. Ti ha colpito, Aragorn, l’ho visto. Lo hai osservato per tutto il giorno”.

Stupefatto si era girato verso di lui, quasi cercando parole che non trovava.

Era rimasto muto, per un lungo momento. Poi invece gli erano salite le lacrime agli occhi, e aveva solo potuto chinare il viso.

Era vero, l’aveva notato dal primo istante. Perché dal primo istante, vedendolo avvicinarsi insieme alla Dama, gli era sembrato di avere di nuovo davanti Legolas. All’improvviso.

 

“Aragorn...”

“È... è come... è che gli somiglia... Gli somiglia moltissimo, Éomer”.

“Lo so, me ne sono accorto anch’io. Ha i suoi capelli, il suo viso. E cavalca come lui”.

Aveva stretto le mani nei pugni.

“Ma non è lui. Non è Legolas, non lo è”.

“No, non lo è”, aveva risposto Éomer continuando a guardarlo.

 

“Éomer, io non potrò mai. Non posso dimenticarlo, non voglio”.

“Non devi dimenticarlo, Aragorn. Tu non lo dimenticherai mai. E non sto cercando di spingerti verso un nuovo sentimento d’amore: io non posso sapere se per te è giusto, se sei pronto, se lo sarai un giorno. Ma tu sì, tu puoi saperlo, invece”.

“Éomer...”

“Ti sto solo chiedendo di perdonare il tuo cuore. Non essere spietato con ciò che provi, non condannarlo se un giorno lo sentirai battere ancora. Non fargli del male, ne ha sofferto già tanto”.

Le lacrime gli avevano bagnato le guance, e le aveva lasciate scorrere, senza dire nulla. Era da troppo tempo che non piangeva. Il viso malinconico dell’amico taceva senza attendere una risposta.

 

“So che lo dici per me, Éomer, ma...”

“Sì, lo sto dicendo per te”.

“Ma Legolas era... era speciale...”

“Era perfetto, unico”.

“Lui è morto, e io sono ancora qui... e... anche se ho trovato la forza di andare avanti io non l’ho dimenticato, non posso...”

“Sapeva che non lo avresti dimenticato. Per questo è stato felice, ed è morto in pace. Ma credi che avrebbe voluto vederti consumare la tua vita nel rimpianto, rifiutando ciò che ancora può darti? Lui voleva che tu vivessi, che vivessi davvero”.

“Lo so, e io l’ho capito, e l’ho fatto...”

“È vero, l’hai fatto, hai saputo farlo. Ma devi farlo fino in fondo, Aragorn. Non devi negarti alle tue emozioni, se ne provi, se un giorno ne proverai. Perché provare emozioni è umano, e tu non tradisci la sua memoria, se accetti questo. Non devi sentirti in colpa per essere ancora vivo”.

“La emozioni, Éomer? Quali emozioni? Noi eravamo una cosa sola... e quello che provavo per lui... non potrò provarlo più per nessuno, sono sicuro. Qualunque cosa accada, chiunque incontri, non sarà mai più come allora”.

L’amico lo aveva guardato immobile, intento:

“No, non sarà più come allora. Sarà diverso. E nuovo”.

 

Era rimasto a lungo in silenzio, mentre il rosso del tramonto si perdeva nel buio, e l’oscurità li avvolgeva piano, senza rumore.

Poi lo aveva fissato assorto e sgomento, trattenendo il respiro:

 “Forse quello che dici è vero, Éomer...”

“Sì,è vero”.

“Ma...”

“Lo so”.

“È... è atroce...”

“Come la vita - gli aveva risposto -, certo. Atrocemente difficile, e dolorosa”. Poi aveva rivolto lo sguardo altrove: “Atrocemente bella”.

 

***

 

 

Mi sembra di vederti, su questo azzurro.

Come quella notte, sulle mura di Edoras, quando eravamo vicini a guardare il cielo.

 

Éomer mi ha parlato, ieri, lo sai?

Mi ha detto che non devo dimenticarti.

Ma che posso vivere, posso vivere ancora.

 

Amore, è questo che vuol dire vivere ancora? Dimmelo tu, dimmelo ancora una volta. Fino a che non ti ho avuto, io nemmeno sapevo cosa volesse dire affidarsi alla vita.

Sei stato tu a spiegarmelo. Col tuo sorriso, col tuo slancio, la tua fiducia. Con la tua saggezza antica e innocente, con le carezze che mi hai fatto, e i baci che ti ho dato, col tuo respiro.

Tu mi hai mostrato la strada. Io non la conoscevo, prima di te.

Anche morendo hai voluto darmi una prova. E mi hai fatto comprendere come fare.

È stato per te che ho accolto chi avevo intorno. È stato amandoti che ho accettato di amare coloro la cui esistenza ha dato un senso alla mia. Per te non sono affondato nel vortice arido del rimpianto di ciò che avevo avuto una volta e non avrei avuto mai più.

Perché ho amato te, perché non ho mai smesso di amarti.

 

Sei stato tu ad insegnarmi che ora io sono tutto ciò che ho provato. Ho imparato a non fuggire davanti al nulla, e forse è vero che posso imparare anche a non fuggire dal sorriso e dalla gioia, dal sole che sorge ogni giorno e che ogni giorno si uccide, mostrandoci silenzioso il nostro destino.

Amore, quanto dev’essere stato duro per te che non dovevi morire, saperlo fare...

Come lo capisco, adesso che so quanto è duro vivere. Vivere davvero, anche se di ogni istante si conosce la fine..

Lo so bene, oramai.

Sei stato tu ad insegnarmelo. A volerlo per me.

 

Ho un figlio. E lo amo, ed ha bisogno di me.

E ho degli amici, e compagni, e ho costruito un mondo per vivere, insieme a loro, che è come lo avrei voluto per te.

Forse davvero adesso posso viverci anch’io.

Ho fatto pace col mio dolore, e ora l’amore che ho dentro posso portarlo con me. Non cesserò mai di provare questa pena, e la mancanza e il desiderio di te. Ma sentirò anche la dolcezza, e la pace, e forse la fiducia, ancora, che credevo di aver perduto. Vivrò. Vivrò custodendoti nel mio cuore, perché in esso occupi il posto che da sempre era tuo. Perché io sono ciò che ho sofferto, quello che ho amato di te.

Perché tutto quello che ho fatto ti ha avuto come obiettivo. Non ho mai pensato davvero che tu non ci fossi più.

E porto dentro il tuo viso, il tuo respiro che mi sembra di sentire ancora, il dolcissimo e faticoso ricordo di tutto quello che ho ricevuto da te. Le tue mani, che hanno sfiorato il mio corpo. Le tue labbra, i tuoi occhi e il loro colore, le tue risate e i tuoi sguardi, i tuoi sospiri, il tuo addio. La fortuna di averti avuto e lo strazio di averti perso, di non averti mai più.

E non dimenticherò mai il tuo sorriso e il suono della tua voce. Perché se sapessi come ritrovarli, ovunque li cercherei.

 

 

***

 

 

Rimase davanti alla finestra, e lasciò che il vento fresco di fuori entrasse leggero e brusco a colpire il viso. Non si mosse quando sentì animarsi il palazzo e nella grande sala silente avvertì entrare  i valletti. Riconobbe dal passo fermo e composto l’avvicinarsi discreto del suo attendente.

“Sire...”

La notte era trascorsa. Una lunga notte.

“Sire, sono a vostra disposizione...”

Fresca quest’aria dell’alba sul viso.

“Stasera pioverà di nuovo”.

“Sì, sire... sono qui per definire il programma della giornata”.

“Ti ascolto”.

“Per prima cosa ci attende...”

“Ma non durerà molto”.

“Scusate, sire... cosa...”

“Questo vento. Non durerà molto questo vento”.

“No, sire, il tempo tende al sereno”.

“Sì. Tul're au' telithar elin”.

“Perdonatemi, io non comprendo questa lingua, sire”.

Scosse il capo accennando appena un sorriso.

“Fa uno strano effetto sentirla sulle labbra di nuovo. È elfico. È tanto tempo che non lo parlo”.

 

Da allora.

 

“Avete detto...”

“Domani - sorrise, dando un lieve sospiro -. Domani torneranno le stelle”.

 

 

FINE

 

 

Piccola nota conclusiva

Di solito, quando finisco una storia in più puntate, faccio lunghi e minuziosi poscritti pieni di spiegazioni e citazioni di fonti.

Stavolta non vorrei fare questo.

Vorrei solo ringraziare la persona che mi ha invogliato a conoscere il mondo di LOTR (prima non avevo letto nemmeno il libro di Tolkien), che mi ha entusiasmato coi suoi racconti e spronato a scrivere una fiction su Aragorn e Legolas; che mi ha seguito passo passo mentre lo facevo, da quando con un po’ d’incertezza abbozzavo le prime pagine a quando - grazie alla sua presenza ed agli scambi con lei - ho chiarito precisamente a me stessa cosa volevo dire e ho preso bene in mano le redini del racconto. Fino a questa conclusione che mi è costata tanta fatica, perché fino all’ultimo non sono stata sicura di riuscire a spiegare davvero ciò che volevo.

Se ho scritto “Wound” è perché LoLL me l’ha chiesto, e “Wound” non ci sarebbe certamente stata senza di lei.

Per questo gliela dedico, perché è sua.

Il suo appoggio è stato meraviglioso, e io posso ricambiare solo così, ringraziandola e abbracciandola forte, con tutto il cuore.

 

E, a prescindere dal valore di quello che ho prodotto, dal risultato più o meno felice di questa “pazzia”, volevo dire che scrivere “Wound” è stato davvero bello, mi ha dato tantissima gioia. Che sono stata felice di condividerla con tutti coloro che mi hanno seguito. Spero che leggere il mio racconto possa averli appagati quanto le cose che loro hanno scritto hanno appagato me.

Non aggiungo altro, per non essere retorica. Un bacione a tutti, e a presto!

Ninde