.|.  Anmírë Anna - Il Dono più Prezioso .|.

Note: Il “gioiello-stella” della visione di Ara… non è l’Evenstar. È un gioiello molto meno raffinato della collana di Arwen (che è veramente stupenda… ne voglio anch’io una!!!!!!!). Al posto suo immaginatevi qualcosa di più… “pacchiano”. =)

 

Capitolo 8

~

Il bambino aprì gli occhi come se mai li avesse aperti prima d’allora, e si guardò intorno.

La foresta era in pieno rigoglio estivo, un sogno di teneri verdi, ombre screziate e barbagli d’oro. L’aria profumava degli odori della terra, di dolci frutti, dei fiori in boccio. Le querce altissime chinavano le fronde sotto il peso della rugiada scintillante. Tra le radici, nascoste tra la nebbia, spuntavano qui e là le corolle candide dei gigli.

Non c’era rumore, se non lo sciabordio gentile delle onde, che condusse il bambino fino ad una spiaggia bianchissima, bianca come neve, croccante come zucchero, dove battevano lentamente le onde canterine.

L’acqua s’increspava, emettendo luccichii d’argento, poi tornava scura e scintillava di nuovo. Aldilà delle acque luccicanti, le sagome indistinte degli alberi sembravano le spoglie di esseri antichissimi dolcemente addormentati. Lì vi era un vecchio accoccolato con le braccia al petto, qui una giovane silfide che volgeva il volto alla luna, e laggiù -si, proprio al limitare delle ombre!-, ecco due teneri amanti che si tendevano le mani persino nel sonno.

Sembrava che nulla al mondo vi fosse oltre il lago. O meglio, che il lago fosse tutto il mondo.

Il bambino avanzò ancora fino a sentire le dolci correnti d’acqua lambirgli i piedini scalzi, medicando le ferite sanguinanti.

Guardò nel lago la propria immagine, e all’inizio vide soltanto la sua faccia chiazzata di sporco, ma dopo un po’ scorse una fanciulla con le vesti azzurre come cielo terso del mattino. La Dama stava inginocchiata nell’acqua dinanzi a lui, pallida come una stella, ed i suoi capelli le ricadevano come un mantello d’oro sulla schiena, galleggiando sulle acque.

“Cosa ti porta qui, Piccolo Uomo?” chiese la Dama, e la sua voce vibrò come la corda di un arpa sfiorata dal vento.

Il bambino allora le rispose che stava tornando a casa dopo essersi smarrito per lungo tempo. Ma aveva paura di tornare a casa a mani vuote. Non lo avrebbero deriso? Non lo avrebbero scacciato? Magari, in quel luogo di delizie avrebbe trovato un dono adatto. Poteva prendere qualcosa?

La donna annuì. Quando sorrise, il suo viso si soffuse di una dolcezza infinita. Con il braccio indicò il lago e la foresta che lo circondava.

“Guardati intorno,” disse. “Puoi prendere ciò che vuoi. Ma attento! Una cosa, e solo una ti sarà concesso avere! Scegli bene, perché quando lascerai questo luogo, mai più ti sarà permesso di tornare, e le cose che lascerai indietro saranno perdute per sempre.”

Il piccolo lasciò vagare lo sguardo, e subito vide una stella bianca come neve luccicare sulla superficie del lago. I gigli piegarono il capo al ritmo del suo pulsare, e il loro profumo lo stordì. Protese le dita verso la stella, ammaliato dalla sua luce come da una voce di sirena, ma la Dama ebbe da chiedergli:

“E’ veramente quella ciò che vuoi?”

Per un lungo istante, il bambino rimase in silenzio a contemplare la stella che baluginava fredda nelle acque. Infine si morse il labbro, e scosse la testa.

No, ma a casa l’avrebbero amata tutti. Nessuno l’avrebbe scacciato, o deriso, se una cosa bella e sacra come una stella l’avesse accompagnato.

“Loro saranno felici della tua scelta, dici. Ma che ne sarà della tua felicità?”

Non importava. Poteva anche essere infelice, e piangere e urlare per tutte le notti della sua vota, nascondendo il suo dolore tra le ombre. Era stato lontano per troppo tempo. Glielo doveva.

La Dama del Lago sospirò.

“E sia.”

La Dama si allungò e sfiorò con la mano il riflesso della stella e, mirate! l’acqua si fece d’improvviso calma come la superficie di uno specchio, e vuota; mentre nel palmo della Dama luccicava un gioiello di squisita fattura.

Il bambino la guardò, i grandi occhi grigi colmi di stupore, la bocca spalancata in un sussulto silenzioso.

Il gioiello aveva una forma singolarmente ricercata e sfarzosa, ma era molto bello: il suo metallo brunito era intrecciato e ricurvo, e finemente intarsiato. Al suo centro un cristallo tondo come la luna piena pulsava di una forte luce iridescente -e bianca e rosa e azzurra e verde- che abbagliò il piccolo, facendolo lacrimare.

“Che tu non abbia mai a pentirti della tua scelta,” mormorò la Dama con voce diafana. “Perché non solo tu, ma la stella, e molti altri ancora soffriranno, se la tua scelta si rivelasse errata.”

Il bambino annuì titubante e alzò una mano per cogliere quel gioiello. Ma le sue dita tremavano tanto che sfiorò inavvertitamente un ramo che se stava, curvo e trascurato, alla sua destra. Una piccola foglia d’oro se ne staccò e cadde danzando al suolo.

Gli occhi del bambino si sgranarono.

Invece che sul gioiello le sue dita si chiusero sulla foglia. Il cuore gli saltò in gola.

Oh, com’era bella! Com’era vellutata al tocco! E come riluceva!

Aveva una forma pura, curva e slanciata, che si apriva con la grazia di un fiore in tre lunghi petali affusolati. Riluceva quieta come il sole estivo che gioca a nascondino tra le nuvole, e barbagli di morbida luce dorata sfiorarono il volto del piccolo come carezze leggere e vellutate.

Il bambino osò sfiorare quella bellezza così semplice e perfetta con la punta delle dita, e la foglia tintinnò come un campanellino d’oro, quasi che ridesse deliziata della sua audacia. Il piccolo avvampò e con un gesto disperato strinse la foglia al cuore.

“Questa! Voglio questa! Voglio questa!” gridò. “Oh, vi prego, Dama, Dea, Regina, qualsiasi cosa vi siate! Vi prego, vi prego! Voglio questa! Lasciate che la tenga! Lasciate che sia mia!”

Ma la Dama scosse tristemente il capo. I suoi occhi erano liquidi e scuri.

“Io non posso fare nulla. A te solo sta la scelta. Ma se prenderai con te la Foglia, allora dovrai lasciare che la Stella torni in cielo.”

Quasi esigendo una scelta, il gioiello pulsò di un’abbacinante luce nivea. Il luccichio della foglia si fece ancor più debole, come il riflesso delicato di una candela su uno specchio.

 Non c’era vento tra le fronde. Tutto era quieto - non un sussurro, non un sibilo, persino lo sciabordio delle onde si era chetato. Il mondo attorno a lui era velato da una cortina di nebbia candida e dolcemente profumata.

Infine, “Io voglio questa…” ripeté il bambino.

Toccò la foglia dolcemente con le labbra. Di nuovo venne il dolce tintinnio di cristallo. La luce dorata aumentò, traboccando, per un singolo istante.

“E cosa ti ferma dal prenderla?”

Il bambino alzò gli occhi disperati al viso della donna. Grossi lacrimoni caldi gli rigavano le guance arrossate.

“Se io la portassi via dal suo bosco questa foglia morirebbe, vero? Io non voglio che accada. Io voglio solo che stia bene. Nient’altro.”

“Si, lontana da qui la foglia vivrebbe molto meno di quanto era destinata a fare,” ammise la Dama del Lago. “Ma anche se la lascerai qui, essa morirà comunque. Non vedi che oramai è caduta? Che non vi è più il ramo a sostenerla e rinforzarla?”

“No, no! Non voglio che muoia! E’ colpa mia! Colpa mia!”

La voce del bambino tremava -il suo stesso corpo tremava- mentre stringeva la foglia convulsamente al petto. Il suo viso si fece grigio sotto le striature rossastre delle lacrime.

“No, tu non hai colpa. Non sei tu ad averla  colta,” fece la Dama, gentile. Dolcezza, ecco cosa irradiava il suo volto. “E’ lei che è venuta a te, non vedi? La foglia ti vuole, come tu vuoi lei.”

“Ma… la Stella?”

“Starà bene.” assicurò la Dama. Lentamente reimmerse la stella nelle acque, ed essa riprese a brillare al suo posto come se nulla fosse. Ma il bambino ancora esitava.

“Non capiranno,” sussurrò tra le lacrime. Le sue dita carezzavano la foglia quasi che la sua vita dipendesse da quel contatto.

“Non l’ameranno come l’ami tu, dici?”

“Oh, no. La mia foglia è troppo bella. Tutti l’ameranno. Ma non capiranno come io possa aver scelto una foglia invece che una stella.”

“Stella, foglia, a loro non importerà, finché tu starai con loro. Perché essi ti amano, e hanno bisogno di te come tu ne hai della tua Foglia. Capiranno. Se tu spiegherai loro il tuo amore, essi capiranno.”

“Si,” fece il piccolo, stringendo la foglia come se temesse che qualcuno potesse portargliela via. “Io l’amo. L’amo.” 

Le sue mani si fecero d’improvviso più grandi, segnate da chissà quali avventure e chissà quali luoghi. Il volto ingenuo e rubicondo si fece duro, agile, bello. La sua voce risuonò chiara e forte - non più la voce di un bambino, ma la voce di un uomo; un uomo che sentiva finalmente di poter controllare la sua vita, e di capire il suo mondo e la parte che gli spettava in esso.

La Dama sorrise, facendosi evanescente. La nebbia calò tra di loro come una densa cortina ondeggiante. Il vento si alzò gemendo. I suoi capelli frustavano dinanzi ai suoi occhi, il suo manto si alzava agitandosi come un vessillo scuro. Le tenebre calavano attorno a lui come nera acqua sgorgata dal cielo.

“Dillo, allora! Dillo a gran voce! Su chi è caduta la tua scelta, Uomo?”

“Legolas!” Urlò allora Aragorn. “LEGOLAS!!”

 

 

 

Aragorn si risvegliò ansando, la mano protesa verso qualcuno che non c’era.

Era riverso sul collo del cavallo, con il volto affondato nella folta criniera corvina. Dal fiume dove l’aveva trovato intirizzito e febbricitante, il cavallo aveva condotto Aragorn attraverso le valli e le colline, i fiumi e le asperità rocciose, fino alla base di una grigia collina erbosa. Sopra di loro, il sole era un lumicino tremolante come la fiamma di una candela. Fredde ombre umide li avvolgevano come un manto.

Brego…” mormorò Aragorn. Quasi stesse attendendo il risveglio del suo cavaliere, lo stallone si inerpicò silenziosamente fino alla sommità della collina e lì si fermò ancora, sbuffando e agitando la criniera. Aragorn non tentò nemmeno di farlo ripartire. Gli carezzò lievemente il collo irsuto e si tese a guardare la valle che si apriva ai loro piedi.

Il Ramingo tremava di freddo e febbre, e tra le tempie gli martellavano selvaggi tamburi di guerra. La spalla destra gli sembrava una cosa estranea al suo corpo, pulsante di dolore e avvampata di fiamma. Dai polsi martoriati, attorno a cui aveva legato le redini per non cadere, scivolavano pigri rivoli di sangue.

Eppure il dolore era nulla in confronto all’orrore che ciò che vide risvegliò in lui.

Da sopra le colline di roccia, bianche e contorte come gli scheletri di colossi decaduti, avanzava trascinandosi una scura massa brulicante.

Levandosi oltre la nebbia, la luce rivelò una miriade di bestie – orchi e uruk e mannari – che si muovevano marciando, le teste alzate a fiutare l’aria, le bocche spalancate in ruggiti e latrati bestiali, le mani artigliate strette ad armi e stendardi tenebrosi.

Aragorn indugiò per un momento davanti a quello spettacolo raccapricciante. Gli occhi gli bruciavano per gli effluvi che il vento portava fino a lui. La polvere gli riempiva il naso, appesantendogli la lingua, graffiandogli la gola. Ricacciò in gola un’ondata di bile.

Le creature dilagavano nella valle come una marea di entità smisurata, disgustosa da vedersi e udirsi; un’oscurità viscida in cui piccoli occhi ardenti luccicavano come stelle infuocate. Sibili aspri si levavano dalle schiere oscure. Un coro stridente che avanzava inesorabile, tra il clangore dei loro passi ed il gemere del vento.

“Andiamo,” mormorò Aragorn.

Brego scattò in avanti con un nitrito, precipitandosi giù per il pendio erboso con la violenza di un uragano. Raggiunse in due o tre balzi i piedi del colle, ove ribollivano, spumeggianti e impetuose, le acque di un torrente. Il cavallo superò con un balzo un massiccio grumo di roccia che sbucava dalla schiuma biancastra, e si incespicò lungo la corrente verso il sole.

Continuò a galoppare tra gli spruzzi, fuori dall’acqua, nell’erba alta e viscida come fosse viva, e poi giù per uno stretto sentiero serpeggiante, nella polvere, tra le fronde che si protendevamo come mani verso di lui.

Galoppò per miglia, sulle rocce, nell’erba, tra la nebbia, e ancora Aragorn lo incitava, sia in Elfico che nella Lingua Comune, mormorandogli debolmente di fare in fretta, fare in fretta, perché il suo amato l’attendeva, ed era in pericolo, un pericolo mortale, indicibile, un pericolo da cui solo Aragorn poteva salvarlo.

Infine Brego si gettò contro una fitta schiera di arbusti e sbucò in cima ad un colle. Subito si arrestò, i muscoli tremanti e tesi dopo la lunga fuga. Scrollò il capo e lanciò un nitrito. Aveva il manto lucido di sudore, le larghe narici fremevano, ed i morsi erano bianchi di schiuma.

Sotto di loro, incastonata nella roccia come una perla di rara bellezza, stava la Fortezza del Fosso di Helm.

Aragorn chiuse gli occhi, lasciandosi andare a contare i battiti del proprio cuore.

Mae carnen, Brego, mellon nîn,” disse, carezzando i fianchi lucidi dell’animale.

Dette di sprone al cavallo, e si lasciò condurre in avanti.

Legolas, finalmente ti rivedrò! pensò mentre correvano nel vento, ed un sorriso si fece strada sul suo volto. Un’ebbrezza travolgente s’impadronì di lui, una gioia estatica che gli fece salire le lacrime agli occhi. La caduta, poi il sogno, la cavalcata contro il tempo – ciò che l’aveva sostenuto durante quei perirgli era il pensiero di Legolas, il pensiero di una vita insieme, in pace, una vita come compagni - compagni d’amore infine, e non più solo d’armi.

Era un idea travolgente, che pure sembrava estranea alla sua mente. Come se una voce da un distante passato gli sussurrasse all’orecchio di cose inaudite, di brama e amore e desiderio, di battaglie combattute non col sangue ma con bocca e mani e corpo.

Qualunque cosa fosse, era un pensiero che soggiogava la sua anima con la promessa di una gioia senza fine, e per Aragorn fu dolce abbandonarvisi.

 

“Quando saremo a Gondor”, giurò a se stesso, “Nel momento stesso in cui metteremo piede a Minas Tirith, Legolas, tu sarai mio. Ti confesserò ciò che provo, e finalmente saremo insieme.”

 

* * * * *

 

Éowyn guardò indietro verso Legolas, e salutò l’Elfo con una rara espressione di tenerezza nei begli occhi di ghiaccio. Legolas rispose al suo gesto con un eguale sorriso, e la Dama sospirò compiaciuta di averlo infine convinto a riposare.

In quelle ore passate insieme tra i bisognosi la Dama di Rohan aveva scoperto molto degli Elfi; cose non avrebbe mai immaginato, né volutamente chiesto.

Quegli esseri primigeni erano una fonte di speranza inesauribile. Dinanzi ad una persona sofferente lenivano la sua anima facendosi carico del suo dolore, e poi, con la mente, col cuore, gli ritrasmettevano forza, la loro stessa forza perduta, permettendogli di agire, ispirandoli alla vita come al canto ed alla lotta.

Ma questo dono veniva con un prezzo: la sofferenza dell’Elfo stesso.

Ed in quelle ore Éowyn aveva scoperto che vedere soffrire Legolas le era più insopportabile del suo stesso dolore.

Riposa, gli disse ancora col pensiero. Non farti del male da solo, quando già tanto male ci circonda. E sospirando si allontanò.

Legolas rimase a guardarla scomparire giù per i gradini verso i piani inferiori, verso altri feriti, altri bambini piangenti, altri vecchi tremanti e senza forze.

Sospirando, Legolas chiuse gli occhi e si abbandonò con la testa reclinata indietro contro il muro.

“Oh, se solo sapessi…” mormorò. Lentamente scivolò fino a trovarsi seduto a terra, quindi si strinse le ginocchia al petto nella posa di un ragazzo: tremendamente giovane, tremendamente umano.

Tutto questo – i gemiti dei feriti, le lacrime dei bambini, gli sguardi colmi di paura volti alle ombre, l’attesa inconcludente, il suo corpo e la sua voce che correvano, agili, tra feriti e vittime e guerrieri, a seminare speranza; tutto questo gli era familiare, e nonostante fosse nella sua natura di disprezzare la guerra, vi si trovava più a suo agio che nelle grandi aule dorate del palazzo di Théoden.

Quand’era poco più di un bambino, una vita prima, aveva partecipato di nascosto alla battaglia finale contro Sauron. Ricordava di essersi tagliato i lunghi capelli d’oro; di aver nascosto la pelle lattea sotto strati di polvere, ed il corpo agile e tornito sotto degli informi abiti da scudiero.

E ricordava come tutto questo avesse solo contribuito a farlo scoprire più in fretta da suo padre e suo nonno e da coloro che gli avevano ordinato di restare a casa.

Dovette lottare a lungo per convincerli a farlo restare, finché un attacco a sorpresa degli Orchetti non aveva messo fine alla loro disputa. Troppo giovane e prezioso per essere inviato da solo in battaglia, Legolas era diventato così guaritore e menestrello e scudiero - un Principe servo del suo amato Popolo che correva affaccendato dall’alba al tramonto medicando ferite, servendo idromele e preparando frecce. E che poi, quando scendeva il cre­puscolo e i grandi fuochi di bivacco venivano accesi, veniva pregato di intonare con la sua voce cristallina un inno alla speranza.

Era una vita difficile e incerta, eppure, nonostante tutto, era una vita in cui comprendeva il suo ruolo, in cui si era sentito padrone del proprio destino, utile e eguale a coloro con cui si accompagnava.

Ma poi era venuta quella malaugurata notte in cui, chiamato dal chiaro di luna come da una voce di sirena, si era avventurato tra i boschi tenebrosi con il suono della sua voce alzata in canto come unica compagna.

Spesso rimpiangeva amaramente di aver ceduto alla tentazione e aver vagato quei luoghi nebbiosi perché, da quel momento in poi, la sua vita non gli era più ap­partenuta.

Quella notte, infatti, sotto la luna d’argento e le stelle ammiccanti, nelle tenebre umide del bosco verde, Legolas aveva conosciuto Elendur, figlio di Isildur, e l’aveva fatto innamorare.

Riaprì gli occhi e osservò meditabondo i raggi del sole squarciare la cortina ondeggiante delle nuvole.

Strinse i pugni e, in quell’attimo, una strana rabbia fluì in lui.

“Elendur,” mormorò a denti stretti. “Maledetta la notte in cui mi hai visto! Maledetta la tua bramosia! “Amore” lo chiamavi –Ah! Desiderio sfrenato! Volontà ceca! Ecco il nome che do io a ciò che provavi per me! Eccellere e conquistare e piegare gli altri al tuo volere sono le uniche cose di cui ti importava! Maledetto…” la sua voce si spense in un sussurro. Sospirò. “Aragorn, dove sei?”

Il vento soffiò sulle distese rocciose, strappando bassi gemiti lamentosi ai pinnacoli aspri e alle gole oscure. Un scintillio lontano velava la sua visuale di un bagliore diffuso: dal cuore dei Monti un rivo luccicante si srotolava giù tra le rocce come un nastro d’argento. Sinuoso s’infiltrava nella cinta delle mura da una grata, per aprirsi in un laghetto luccicante nel cortile più basso. Sulle rive ghiaiose decine di donne sedevano, lucidando armi rugginose, facendo il bucato, sciacquando i musetti sporchi dei loro bambini. Poteva sentirle cantare dolcemente, tranquillizzando i pargoli che tenevano stretti al petto. Seduto tra di esse, un nonno sdentato insegnava al nipotino paffutello a stare in piedi da solo. Più in giù, volta di spalle con i lunghi capelli al vento, stava Éowyn, radiosa come una pallida alba di primavera. La sua pelle chiara riluceva come perla. Le mani affusolate erano come lampi bianchi che frustavano l’aria mentre la Dama si prodigava a pulire e bendare le ferite dei suoi Cavalieri.

Legolas si perse in quella visione di pace familiare, finché qualcosa non allertò tutti i suoi sensi.

L’aria era elettrica, come se stesse avvicinandosi una tempesta. La visione di altri occhi -occhi che sapeva essere grigi come crepuscolo stellato- si sovrimpose alla sua, mostrandogli gli archi maestosi alle porte della Fortezza. Una voce, un richiamo silenzioso si faceva strada nella sua mente, il battito familiare di un cuore, la voce dolorosamente amata di un Uomo creduto perduto.

Balzò in piedi, e corse a perdifiato fino ai piani inferiori.

Poi lo vide.

E il cuore gli si gonfiò nel petto fino a fargli credere che per gli Elfi fosse possibile morire di Felicità, oltre che di Dolore.

Si premette la mano al petto, e chiudendo gli occhi mormorò un Grazie ai Valar.

Quando li riaprì, Aragorn era fermo a due passi da lui, col corpo madido piegato dalla fatica, ma i suoi occhi lo cercavano, riflettevano il suo volto, e la bocca gli si curvava in su, si apriva, lentamente, come lento era il brivido che corse per la schiena dell’Elfo, e Legolas poteva quasi sentire il calore emanato dalla quella figura prestante, udire il cuore battere cadenzato, e si sorprese a tremare, felice come non lo era stato in tutta una vita.

“Le ab dollen,” mormorò. Sei in ritardo. E dal guizzo che attraversò gli occhi di Aragorn seppe che l’Uomo aveva inteso le sue parole per quelle che erano realmente:

Ti aspettavo: sapevo che saresti tornato. Sapevo che non avresti fallito. Avevo fiducia in te, Aragorn. Ne avrò sempre. Bentornato, mio Re.

“Che brutto aspetto,” aggiunse poi, con un tremito nella voce che non era riso, e non erano lacrime.

Sollievo, forse. Gioia. Felicità allo stato puro.

Rendendosi conto tutto d’un tratto dello stato in cui era Aragorn –madido e infreddolito, con chiazze di polvere e sangue che gli pesavano sulla pelle, e l’odore di erba e acqua che si sprigionava dalle vesti stracciate- lasciò che la sua mente si protendesse verso la sua. Un tocco gentile, rilassante. Aragorn lo accolse prima con stupore, poi con gratitudine. Una risata gli sfuggì le labbra screpolate.

Di nuovo la dolce litania del suo nome sgorgò dalla gola dell’Elfo. Quel suono suscitò un fremito in lui. Il desiderio di toccare Legolas era un bisogno prepotente, fisico nella sua intensità, e familiare, perché era divenuto parte di lui come lo era la sua anima.

La sua mano si mosse come se non potesse controllarla. Con lentezza affettuosa la posò sulla spalla dell’Elfo, sentendola tremare, e si accostò a lui. Stava per chiuderlo nel suo abbraccio, quando Legolas si mosse, e nella sua mano apparve, perfetta e immacolata, l’Evenstar, fulgida come un stella d’argento.

Su chi è caduta la tua scelta, Uomo?

“Legolas…” mormorò con voce strozzata. Ma la sua gola si strinse definitivamente su ciò che voleva dirgli, lasciandolo muto. Annuì, come per dirgli grazie. E l’Elfo annuì a sua volta.

“Annon le,” gracchiò poi.

 

Éowyn, giunta in quel momento dai corridoi interni, fece per accostarsi a loro, ma qualcosa glielo impedì. In parte, fu l’intimità, lo struggimento, con cui Aragorn si accostava a Legolas; il modo affettuoso in cui lo toccava, la passione che bruciava nel suo sguardo.

Un parte di lei, egoista, gioì che il suo fratello avesse vinto il cuore di quell’Uomo.

Un’altra parte di lei, egoista, s’ingelosì di non essere stata lei la vincitrice.

Ma quello che la fece fermare, mozzandole il fiato, coprendole la vista con una cortina di fumo, facendole tremare le ginocchia - fu l’ondata di dolorosa emozione che avvertì fluire da Legolas. Udì la sua voce nella testa, e a fatica ricacciò un urlo di sgomento.

“Quando saremo a Gondor”, giurava l’Elfo a se stesso, “Nel momento stesso in cui metteremo piede a Minas Tirith, Aragorn, tu sarai libero dal Patto. Libero. Perché io…”

Il mondo vacillò davanti agli occhi della Dama e si fece oscuro. Quando li riaprì, Legolas ed Aragorn erano svaniti alla sua vista, e lei si trovò aggrappata ad una delle colonne, col fiato corto, le membra tremanti, e la mente sconvolta dall’orrore. Si portò una mano alla bocca.

“Legolas…” mormorò. “Non puoi… non puoi… oh, no! No!

E la sua voce riecheggiò fino a lei dalle fredde pareti di pietra, schernendola, gelida, ricordandole che nonostante tutto l’amore che la legava a lui, lei non poteva fare nulla per fermare Legolas.

Nulla.

 

       -TBC

Altro mini-capitolo… e finisce pure in un punto!!! Sono stata costretta a fare così perché da qui salterò direttamente alla FINE della battaglia del Fosso di Helm, e non mi andava di mettere un tale salto temporale a metà capitolo… eh, son strana. ^^;;

Vabbuò, per farmi perdonare, prometto che nel prossimo capitolo Ara e Lego vi delizieranno con una scena moooooooooolto carina…