.|.  Anmírë Anna - Il Dono più Prezioso .|.

Note: **ATTENZIONE SPOILER** Le “visioni” che Aragorn ha di Éowyn si riferiscono a fatti che accadono nel terzo libro, e quasi sicuramente anche negli ultimi capitoli della fic! =)

 

Capitolo 6

~

 

* * * * *

Sometimes I think you want me to touch you...

How can I when you build the great wall around you?

In your eyes I saw a future together...

You just look away in the distance...

 

You're right next to me...

I think that you can hear me...

Funny how the distance learns to grow...

I can feel the distance,

I can feel the distance,

I can feel the distance getting close...

 

'China' - by Tori Amos

 

“L’ora è tarda. Vi farò preparare delle stanze, e cibo perché possiate ristorarvi. Andate ora, con la mia benedizione. Domattina parleremo.”

Aragorn chiuse gli occhi, esalando lentamente. Le parole che Théoden aveva pronunciato erano le uniche che non avrebbe voluto sentire.

Erano giunti ad Edoras dopo giorni e giorni di marcia estenuante, senza mai una pausa per sfamarsi o dormire. Lui ed i suoi compagni avevano raggiunto i limiti delle loro rispettive razze, e li avevano superati senza mai un lamento; ma ora che Grima era stato scacciato, e Théoden liberato dall’influenza maligna di Saruman, la stanchezza aveva preso il sopravvento, facendoli piegare sotto il suo peso come sotto una cappa opprimente e scura. Persino lo stesso Théoden se ne era accorto, e se ne preoccupava.

In parte, Aragorn si vergognava ad ammettere di temere il riposo che gli veniva ora offerto, sebbene lo meritasse. In una parte nascosta e buia della sua mente, tutta la tensione, la stanchezza, il dolore accumulati in quei giorni, lui li aveva accolti con gratitudine, perché spingersi aldilà dei suoi limiti, chiudendo mente, cuore e anima a tutto ciò che non fosse la sua missione aveva significato, principalmente, non pensare.

E non pensare voleva dire porre fine alla piena di sentimenti e immagini che lo attorniavano: lo scioglimento della Compagnia… il destino degli Hobbit rapiti… la morte di Boromir… Frodo che vagava chissà dove entro i confini oscuri di Mordor… Legolas.

Senza volerlo, Aragorn strinse i pugni.

Quell’unico, magnifico bacio che lui e l’Elfo si erano scambiati all’ombra dell’Amon Hen continuava a riaffacciarsi alla sua mente con ambigua alternanza: a volte suscitava in lui un  piacere immenso, ed altrettante lo gettava in un profondo turbamento. Comunque, ogni volta lo rendeva schiavo, imprigionandolo in una sinfonia onirica che era movimento e suono insieme, e da cui faticava a risvegliarsi.

“Sire, non preoccupatevi per noi,” gracchiò, la sua voce aspra e roca. “Se desiderate tenere consiglio ora--”

“Assolutamente. Siete stanchi e provati dal viaggio, ed io stesso desidererei concedermi il lusso di qualche ora di riposo.” Théoden esitò un attimo, e girandosi sorrise alla giovane Dama sedutagli a fianco. “Vi lascio alle cure di Éowyn. Chiedete pure a lei tutto ciò di cui possiate avere bisogno, e lei, in nome mio, sarà felice di aiutarvi.”

“Certamente, zio.” Rispose lei, e la sua voce era roca e melodiosa come il morbido sussurro di limpide acque fluenti. 

Sorridendo, sfiorò con la mano quella del Re, e lentamente si alzò, sinuosa come un giunco. Per un attimo, Aragorn sentì gli occhi di lei bruciargli sulla pelle, e la guardò, la fanciulla di ghiaccio, la regina della pallida alba.

Éowyn era in piedi, immobile, tra le ombre ondeggianti che il sole gettava dall’alta finestra. Aveva le mani intrecciate sopra il vestito candido. I suoi capelli brillavano. Mentre Aragorn la guardava, gli angoli della bocca le si piegarono in su, e nei suoi occhi baluginò per un attimo un barlume di fiamma.

C’era qualcosa di stranamente sensuale nella grazia e nella calma imperturbabile che pareva emanare, ed Aragorn si stupì della reazione che la vista di lei -dei suoi capelli biondo ghiaccio; della linea perfetta, delicata e simmetrica del suo collo; delle labbra delicate, pallide; degli occhi fieri- suscitò in lui.

Fu come se un tremore senza nome lo attraversasse, permeandolo, come un’onda. Stordito dalla subitaneità delle sue emozioni, e da una visione confusa che le aveva accompagnate, Aragorn barcollò indietro, stupendosi di quanto incostante fosse il cuore umano.

Prima si era consumato di amore per Arwen; poi era rinato alla felicità, giurando che Legolas fosse la metà perduta della sua anima; e ora il suo cuore accelerava i battiti alla vista di una Dama che –seppur bellissima e degna di ogni ammirazione- non gli aveva rivolto che parole di dovuta cortesia?

Sentì un bisogno assurdo di ridere, e di maledirsi per la volubilità della sua razza.

Bell’amore, il mio, che si affievolisce come nebbia ai raggi del sole, e come nebbia và e viene, senza ch’io posso controllarlo! È davvero così frivola la mia gente, o è solo il mio cuore a non essere degno di fiducia alcuna?

Scosse la testa, e vide Éowyn sorridergli, ma con un espressione particolare, come fosse al corrente di un segreto noto solo a lei. Per un attimo, la pallida luce che filtravano dalla finestra illuminò il suo volto, scivolando morbida sulla pelle candida, rendendola quasi Elfica nella sua remota bellezza. Quindi si voltò e sussurrò qualcosa ad una guardia che stava eretta a pochi passi da lei, e questa si affrettò lungo la sala e fuori da una porta.

“Seguitemi,” disse Éowyn sempre sorridendo. “Ho ordinato che cibo e bevande siano portati dalle cucine al quartiere riservato ai grandi ospiti. Se volete seguirmi, vi condurrò alle vostre stanze.”

 

* * * * *

 

Lei li condusse nell’ala est del Palazzo, quella riservata agli ospiti. Li guidò attraverso corridoi stretti, giù per un’erta rampa di scale, e lungo un poggio erboso. Il tramonto già tingeva l’orizzonte di un chiarore rosato, e piccole remote stelle baluginavano fredde sopra le loro teste.

Quando si lasciarono indietro i giardini, immergendosi nuovamente nelle ombre fresche del Palazzo, al profumo di erba appena tagliata e pioggia si sostituì quello di legna resinosa che brucia, e di bevande calde e speziate. Era un odore carico e dolce, che accese nei loro cuori una visione privata e familiare di casa loro.

I loro animi si risollevarono immediatamente; la risata di Gimli echeggiò fiera quando il Nano prese a complimentarsi per la magnificenza di Edoras, e ad essa seguì il suono cristallino della voce di Legolas, che invece aveva occhi solo per la loro incantevole guida. Éowyn rivolse loro un sorriso.

“Se mai avrete bisogno di qualcosa, vi prego, fatemi l’onore di dirmelo, e farò tutto in mio potere per aiutarvi,” disse, ma i suoi occhi si posarono su di Aragorn, e li ristettero, finché non raggiunsero la loro meta.

In fondo ad un corridoio illuminato da alte torce, si aprivano tre alte porte ad arco, ornate da fregi in rilievo di squisita fattura: la Dama aveva fatto preparare per i Cacciatori tre delle migliori stanze, attigue e collegate tra di loro da porte interne.

Gimli fu il primo a ritirarsi, scomparendo con un profondo inchino aldilà della porta più ad est, che conduceva ad una stanza meno ampia delle altre, nera, argento e grigia, semplice e quasi disadorna.

Legolas scelse per sé la stanza al centro, di sicuro la più luminosa delle tre. Aveva pareti chiare fluttuanti di tende seriche ed arazzi, e le ampie finestre arcuate si aprivano direttamente sul grande giardino, sopra un’esplosione di fragranti fiori bianchi che s’intrecciavano in mille aiuole, emanando un profumo delicato e malinconico.

Legolas indugiò un momento sulla porta, lanciandosi alle spalle uno sguardo che Aragorn non volle incontrare.

“Vi auguro una buonanotte, Messere Elfo,” gli disse Éowyn.

“Buona notte anche a voi, mia Signora,” replicò lui con un cenno elegante e cortese del capo. “Elen síla lúmenn’ omentielvo, heri Éowyn. Una stella brilla nell’ora del nostro incontro.” Una ciocca di capelli gli scivolò contro la guancia e lungo il petto, scintillando nella luce fioca. Per un momento Legolas provò ancora ad incrociare gli occhi di Aragorn, poi, con un ultimo sospiro, scomparve nella sua stanza.

“Avevo sentito parlare del saluto degli Elfi, ma mai avrei sognato di sentirlo rivolgere a me,” mormorò Éowyn allorché Legolas se ne fu andato. La Dama stava immobile, impenetrabile, con le mani intrecciate davanti a lei; ma il tono sussurrante della sua voce tradiva la sua meraviglia.

“È un saluto cerimoniale, antico e sacro. Pochi sono coloro a cui viene rivolto.” Spiegò Aragorn, nascondendo la sua confusione. Che Legolas fosse stato colpito da Éowyn quanto lo era stato lui? La mente umana è traditrice, e nel momento in cui Aragorn pensò questo, mille immagini balenarono davanti ai suoi occhi: immagini di Legolas ed Éowyn, di rapide occhiate, sorrisi e sfioramenti fugaci, traspirati tra loro. Immagini che non sapeva essere vere o false, ma che lo colmarono di disappunto.

Éowyn annuì pensosa. “È un onore,” disse. Poi, silenziosa come un ombra, si avvicinò ad un’alta finestra chiusa da una ringhiera dorata finemente incisa e decorata con scene di cavalleria da qualche artista dotato di enorme pazienza.

“Avevo sentito storie e Leggende, ma non avevo mai creduto che gli Elfi fossero realmente creature tanto affascinanti.”

“Non sapete quanto,” concordò Aragorn.

“Ma il vostro compagno porta con sé un’aura singolare, che mi turba profondamente”. Aragorn le si avvicinò, accigliato. Fuori, l’ultima luce stava morendo, ed il crepuscolo aveva iniziato ad ingrigire il cielo. L’aria era fresca e dolce: era l’inizio della Primavera ormai, e tra le nebbie scintillanti si potevano intravedere in lontananza le sagome degli alberi carichi di frutti.

“Perché dite questo?” Éowyn esitò un attimo, e poi disse con sorprendente franchezza: “Avete mai veduto, in tutta onestà, una bellezza tanto struggente?” Aragorn non rispose subito, colpito dalla schiettezza della Dama, ma soprattutto dal fulgore umido nei suoi occhi. Lei approfittò del suo silenzio per continuare.

“Io credo che sia la creatura più affascinante che abbia mai visto. Lo guardo, e vedo una fulgida fiamma bianca ardere in mezzo alla sua fronte. Mi colpisce come un apparizione, ma con un messaggio che non mi è chiaro: me ne sento attratta, e al tempo stesso lo rifuggo. Non ho mai sentito tanta affinità con un’altra creatura prima d’ora, e mi chiedo se anche altri si sentono attratti da lui come lo sono io, o se mai lui lo sarà da me.”

Aragorn fu irreparabilmente disarmato dal tono morbido e cadenzato della voce di lei, e per un attimo rimase ammutolito.

Come riusciva Éowyn a pronunciare quelle parole, le parole che lui desiderava dire senza però riuscirvi, e a farlo con l’ardore di un innamorata, eppure candidamente?

Sapeva che non vi era alcun desiderio in lei di legarsi a Legolas, tuttavia per un attimo la invidiò, perché se lei avesse affrontato Legolas con quelle parole sulle labbra, allora lui avrebbe potuto accoglierla, come suo amore, sua sposa, sua amante, come invece non avrebbe mai accolto Aragorn.

Si voltò a guardarla, e la sensazione di premonizione tornò.

Per un attimo Aragorn vide sovrimposta a lei un’altra visione: la veste chiara e leggera aveva fatto posto ad un’armatura scintillante, e lei stava, eretta e fiera come un guerriero, non nelle Aule del suo palazzo, ma su un campo di battaglia ricoperto di corpi come un bosco d’autunno lo è di foglie secche. C’era una chiazza di fango su una delle sue guance. La spada sguainata brillava, umida e rossa, ai raggi del sole, ed i suoi capelli scintillavano nel vento. Poi l’immagine svanì, ed Aragorn vide che lei lo stava fissando con una luce intenta negli occhi.

Cosa aveva visto? Era reale o irreale? Come poteva dirlo?

Si sforzò di annuire, come per dirle che aveva compreso. La Dama gli restituì un cenno, ed interpretando il suo gesto come un invito a continuare disse: “Ciò che più mi turba in lui sono i suoi occhi. Puri come acqua, infiniti come il cielo, in essi si cela un dolore indicibile, un dolore che mi colpisce al cuore e mi colma di un desiderio incerto, come di cose sconosciute viste solo in sogno.”

Parlava di Legolas, ma i suoi occhi restavano fissi su Aragorn, sull’inquietudine che non riusciva a dissimulare. Un sorriso sottile le balenò sulle labbra. “Voi mi capite, vero? Sapete anche voi cosa significa anelare qualcosa con tutto voi stesso,” disse, e non in tono interrogativo.

“Si,” ammise Aragorn, ed insieme si volsero verso l’orizzonte. Una strana malinconia incombeva su di lui, e non sapeva consciamente da dove venisse, o come liberarsene. Senza pensarci, sfiorò il ciondolo che sfavillava debolmente sul suo petto; l’Evenstar di Arwen.

“Cos’è che desiderate, mia Signora?” Éowyn scrollò appena le spalle, un guizzo veloce, ipnotico, che le fece ondeggiare i capelli sulle spalle e contro il petto.

“Molte cose.”

“Per esempio?”

“Per esempio…” esitò. “So che lo giudicherete impossibile, perché non avevo mai incontrato Legolas prima di oggi, ma so, sento, cosa egli desidera con tutto sé stesso. E quel qualcosa, ora lo desidero anch’io.” La Dama aveva la stessa malinconica espressione che ultimamente Aragorn aveva visto balenare di quando in quando sul viso di Legolas. Ma quasi subito gli occhi le si fecero sottili, come se sapesse più di quello che poteva dire.

Rimase in silenzio, immobile; poi una nuvola coprì la luna, tingendo il suo viso d’ombre. Quando lo guardò,i suoi occhi brillavano come quelli di un gatto. O di un Elfo.

Per un attimo, Aragorn ebbe una visione opprimente di lei.

Pallida e smunta, ella giaceva come addormentata su un letto di un bianco candido, abbacinante nella luce del sole. Le labbra erano esangui, i capelli scomposti disegnavano un’areola attorno al viso cereo, segnato da fango e sangue. Il suo respiro era quello di un bambino stanco, e fissando le immobili palpebre chiuse, Aragorn si rese conto con un singulto che forse non avrebbe mai più visto gli oceani blu che essi celavano.

Uno shock lo attraversò; la vividezza delle immagini era eccessiva, i sentimenti ridestati in lui troppo veri, perché quello fosse solo un sogno ad occhi aperti. Rabbrividì, agghiacciato dal pensiero di aver spiato il futuro, e si risvegliò di soprassalto quando la mano di lei si posò delicatamente sulla sua. Batté le palpebre, e vide gli occhi di lei, socchiusi, distanti, ancora fissi nei suoi. Forzò un sorriso. Cercando di calmare i suoi pensieri irrequieti disse, esitante:

“Non riesco ad immaginare Legolas soffrire e struggersi di desiderio per qualcosa, come voi alludete. Ma mi incuriosite. Cosa pensate che desideri? E perché anche voi provate lo stesso desiderio?” Lei distolse lo sguardo, una bellissima creatura con i capelli biondi e gli occhi blu e la morbida bocca caparbia, così simile a quella di Legolas.

“Mi stupisce… davvero non lo sapete? Eppure è così chiaro per me. Lo vedo riflesso nei suoi occhi, lo vedo ogni qualvolta lui vi--” esitò, poi scosse la testa. “Dovreste parlarne con lui, non con me.”

“È giusto. Dovrei parlare con lui. È da tempo che non lo faccio… e vi confesso che ora lo desidero molto”. La sua voce, sebbene sommessa, echeggiò debolmente dall’alto soffitto, facendolo voltare come per controllare chi avesse ripetuto le sue parole.

Lo desidero… lo desidero molto… lo desidero…

Nel silenzio che seguì, le parole continuarono a rimbombargli nelle orecchie. Scosse la testa, come per schiarirsela. Éowyn gli gettò uno sguardo veloce, prima di voltarsi e fingere di prestare attenzione al panorama.

La luna brillava alta in cielo, gloriosa e magica nel suo splendore opalescente; candida, azzurrina e rosa, come la più fulgida delle perle. Sotto i suoi raggi, la pianura erbosa si dondolava e scintillava, ed Aragorn poteva vedere sin nella distanza ogni singolo filo d’erba, ogni pallido fiore, ricoperti da tenui pennellate di grigio che andavano scurendosi man mano che si lasciava vagare lo sguardo verso est.

Allora lo colse un pensiero, un desiderio euforico di intensità a lui sconosciuta. Sapeva che Legolas avrebbe amato quell’ infinita distesa luccicante alla luna, e sognò di condurvelo, loro due soli, lui e il suo Elfo, la sua metà, il suo amore, e distendersi insieme su un letto di petali fragranti, sotto un cielo così puro da poter scorgere cosa vi sia aldilà, e restare senza fiato, stretti come a divenire una cosa sola, mentre le gocce di rugiada scivolano sulla pelle nuda, fresche e dolci sulle labbra, e la melodia del vento risuona nelle orecchie come una nenia da tempo dimenticata.

“A cosa pensate?” chiese Éowyn, con la voce bassa come per non interrompere i pensieri di lui, come se sapesse che erano profondi e bellissimi, e lontani milioni di miglia dal loro presente.

A nulla, avrebbe voluto rispondere Aragorn. “A ciò che desidero,” disse invece. “A ciò che ho perso e a ciò che ho guadagnato in questo viaggio.”

“Avete perduto qualcosa, durante il viaggio che vi ha condotto qui?” Aragorn esitò un momento. Quando parlò, la sua voce era arrochita da un dolore ed un rimpianto ancora troppo recenti.

“Un mio fratello d’armi, un amico, è caduto lungo la via, combattendo valorosamente per proteggere i nostri compagni meno esperti,” disse.

“E la sua perdita vi addolora, nonostante l’eroismo che egli ha mostrato.” Gli occhi di Éowyn risplendevano di un calda comprensione e della luce delle stelle. Aragorn annuì. “Qual’era il suo nome?” Aragorn rispose senza pensare, e la sua voce echeggiò contro l’alta volta del soffitto: “Boromir.”

L’espressione di Éowyn mutò improvvisamente, divenendo indecifrabile. Una trasformazione brusca e tragica, che avvenne mentre lei traeva un respiro ansante.

“Boromir? Boromir, figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor?” chiese. Con intensità e con un interesse misto ad orrore, fissò Aragorn chiudere gli occhi ed annuire. Per qualche secondo restò pietrificata. Quindi si portò una mano alle labbra, e sussurrò qualcosa di inaudibile nel dialetto di Rohan che suonò come una preghiera spezzata. Esitò alcuni secondi, come per dirgli qualcosa, ma subito scosse la testa, e voltandosi si allontanò di un passo da Aragorn.

“Mi dispiace per la vostra perdita. Conoscevo Boromir, seppur solo di nome, ed era un Uomo valoroso e giusto,” disse con tono malinconicamente sincero. “Ma sono scortese, e con le mie parole vi trattengo da un meritato riposo. Col vostro permesso mi ritiro. Buonanotte, mio Sire.”

“Buonanotte, Dama di Rohan.” Lei annuì, fermandosi a lanciargli un ultimo sguardo muto da sopra la spalla.

Aragorn rimase immobile a guardarla andar via rapidamente, ascoltando il suono attutito dei suoi passi sul tappeto verde come erba, il fruscio delle sue vesti, il cigolare dei cardini della pesante porta di legno in fondo al corridoio che si apriva e richiudeva dietro di lei.

 

* * * * *

 

Rimasto solo nel corridoio tenebroso, Aragorn si ritrasse barcollando fino alla porta della sua camera, poi si appoggiò contro di essa, con la testa sollevata e la mano contro il legno.

Sospirò.

C’era qualcosa in lei che lo attraeva inesorabilmente. Aveva maledetto il suo cuore per essere incostante e infido, ed allo stesso tempo si era scusato, dicendosi che chi non sarebbe stato attratto da lei? La Dama Bianca di Rohan era così bella, così aggraziata e fiera, che innamorarsi di lei non sarebbe stato un male, ma un vanto; qualcosa che non avrebbe dovuto nascondere, ma urlare a gran voce dalla cima della Minas Tirith perché tutta la Terra di Mezzo lo udisse.

Ma la verità era che non l’amava.

Provava stima per lei; ammirazione, meraviglia. Ma non amore.

Quello, nel bene e nel male, era tutto per Legolas.

Persino nei momenti in cui era stato accecato completamente da lei, chiudendo gli occhi aveva visto non il suo volto, né la sua grazia, né la fierezza nel suo sguardo, ma lo sguardo limpido e senza fondo di Legolas, e si era sentito tremare.

Una risata gli sfuggì le labbra.

Cuore incostante? Al contrario. Ora che ha trovato a chi realmente appartiene, non accetterà mai nessun altro.

Come un ombra, scivolò aldilà della soglia, chiuse la porta dietro di sé, e si guardò intorno.

La stanza a lui destinata era ampia e molto alta, com’era usanza a Rohan. Le grigie pareti di pietra erano ricoperte da drappeggi e arazzi della più squisita fattura, carichi di tutti i colori delle foreste in primavera. Di fronte a lui, una serie di stretti archi slanciati si apriva su giardini tenebrosi e scintillanti di rugiada, e una brezza odorosa spirava, portando con se l’aria fresca e umida della notte ed un sentore delizioso di fiori freschi.

Alla sua destra, si stagliava una porticina dorata e piccola, seminascosta da un pesante drappo di velluto scuro. Alla sinistra, stava un ampio letto coperto di broccati intessuti d’oro, bianco come un morbido cigno acciambellato.

Non c’era stato tempo di accendere il focolare, ma la stanza era rischiarata piacevolmente dal bagliore di decine di candele. Alcune si stagliavano, piccole e candide, sopra il mobilio di legno, sul pavimento grigio, alle pareti. Ma attorno al letto si ergevano degli alti candelabri intarsiati, sfavillanti di morbidi riflessi d’oro, e sopra le coperte illuminate sedeva Legolas, coi capelli sciolti che ricadevano sui cuscini.

Il bagliore tremante delle candele gettava immagini danzanti sul corpo dell’Elfo, avvolto solo in una tunica dello sfavillante colore dell’argento; le gambe, modellate dagli stretti pantaloni scuri, erano come un ombre sul candore accecante delle coperte.

Aragorn rimase senza fiato. Incapace di muoversi balbettò il nome dell’Elfo – ma ciò che gli uscì dalle labbra fu un sospiro.

Legolas si  voltò, e la luce delle candele luccicò nei suoi occhi come in due gemme blu. Tese le braccia verso di Aragorn, sorridendogli, chiamandolo a sé con gli occhi e con le labbra schiusi e umidi.

E chi era Aragorn per negargli il suo desiderio?

Lentamente -come se una forza esterna, e non lui, guidasse i suoi passi- lentamente, si mosse, finché si ritrovò in piedi all’estremità del letto, guardando in giù in quel volto perfetto, rischiarato ora da una calda affettuosità.

Legolas scivolò in piedi, e silenziosamente gli prese una mano, facendolo sedere dove lui stava prima. Si inginocchiò ai suoi piedi, tra le gambe, con le mani posate gentilmente sulle ginocchia del Ramingo.

“Aragorn.” Disse. Il suo tono era così carezzevole che il Ramingo pensò immediatamente di essere un bambino rannicchiato nel letto, e Legolas la visone fantastica che lo cullava dolcemente tra le nebbie al confine del sogno. Ripensò un attimo alla porticina dorata che aveva visto in un angolo, e comprese. Gli sorrise. I suoi occhi scintillarono.

“Cosa spinge il Principe di Boscoverde il Grande a intrufolarsi come un ladruncolo nella stanza di un mero Ramingo? Se miravate ad un riscatto, nobile signore, sappiate che vi conviene aspettare a rapirmi, almeno finché non sarò Re,” disse.

Alle sue parole Legolas rise, un suono come di campane d’argento che echeggiò cristallino contro l’alta volta del soffitto.

“Mi sei mancato,” ammise l’Elfo. “Volevo stare con te. Vederti. Parlare. Lo facevamo spesso… prima.” Non aveva bisogno di spiegare a cosa si riferisse. Poi, sorridendo, aggiunse: “Bentornato”. Aragorn lo guardò stupito, cercando di indovinare i suoi pensieri.

“Non me ne sono mai andato.”

“Oh si, invece,” rispose Legolas, ed i suoi occhi si colmarono di una malinconia strana, intensa. Sembrò sospirare, ma dalle sue labbra non uscì alcun suono. Aragorn sentii le sue dita sottili chiudersi attorno alla sua mano.

 “Da giorni sei di umore chiuso, solitario… non dormi, non mangi, non parli quasi più. In una settimana, il tuo spirito è invecchiato di anni. Ogni giorno guardo il tuo volto e lo vedo farsi sempre più pallido, vedo le ombre addensarsi sotto i tuoi occhi, vedo il tuo cuore chiudersi sempre più a me… eri diventato un estraneo, lontano e malinconico. Una persona che non conoscevo, e che col suo silenzio mi scacciava…” Trasse un sospiro. “Mi hai spaventato. Ma adesso sei qui. Sei tornato.” E mentre lo diceva si tese verso di lui, poggiando la fronte sopra le loro mani unite, sul ginocchio di Aragorn.

Aragorn sospirò e attirò l’Elfo contro il petto, affondando il viso nei suoi capelli lucenti, per poi sollevarsi a studiarlo in volto, come non aveva fatto…. in quanto? Di sicuro tanto, troppo, tempo.

La sua bellezza non ne era stata affatto intaccata, ma dei cambiamenti c’erano.Come aveva fatto a non notarlo?

La sua pelle, già naturalmente pallida, era ora del colore luminescente della neve. La luce che s’irradiava del suo volto sembrava diminuita, come se la fulgida stella bianca che brillava in lui fosse stata coperta da un manto di nebbia. I suoi occhi erano orlati da un lieve accenno d’ombra, come le pennellate di un artista. Sembrava esausto, non nel corpo, ma nello spirito.

Aragorn pensò con orrore: è malato! La preoccupazione lo sta uccidendo! Ma poi si ricordò che era un Elfo, e che gli Elfi non si ammalano né muoiono.

Ma il senso di colpa non diminuì.

“Sei così pallido, Legolas: guardati! Sono io il responsabile, se il tuo volto elfico mostra i segni della stanchezza e del dolore.” Mormorò, passandogli una mano gentile sui capelli, scendendo poi a toccargli la guancia, a tracciare lentamente la linea serica del mento. Le sue sopracciglia si unirono in una linea preoccupata. “Perdonami.” Legolas imitò il suo gesto, posandogli una mano sulla guancia, e sorrise.

“Senti chi parla di sembrare stanco,” provò a scherzare, ma il sollievo era evidente nel suo sguardo come nella sua voce. “Ma vieni, guarda!” rise. E tirandolo per una manica fece reclinare Aragorn all’indietro sui cuscini. “Finalmente possiamo ristorarci con un pasto degno di tale nome!”

In effetti, sul basso tavolinetto posto a fianco del letto stava un vassoio d’argento colmo di fumante pane dorato, miele e frutta; ed un migliaio di fiammelle tremavano sulle sfaccettature di una caraffa di cristallo, colma fino all’orlo di un fragrante vino purpureo.

Come era strano, per Aragorn, vedere Legolas inchinato remissivamente al fianco del letto su cui lui si adagiava in abbandono sognante! Com’era strano vederlo porgergli il cibo, portarglielo alla bocca in a quel modo, come fosse un servitore, ma senza il distacco, l’impersonale sollecitudine di uno di essi! Come gli faceva girare la testa sentirsi sfiorare appena le labbra dalla punta delle sue dita, vedere quegli occhi grandi, ridenti fissi nei suoi! Erano blu, blu come il cielo limpido sopra Rivendell, e magnetici nella loro intensità. Sensuali. Il suo viso luminoso sembrava scolpito nella stessa materia di cui è composta la luce lunare.

Aragorn si staccò da lui con un gesto brusco, voltandosi a guardare le candele brillare dall’altro lato del letto. La loro luce sembrava ondeggiare, scorrere, fluire, come dorato burro fuso, e permeare tutto il suo campo visivo di una morbida luce vellutata. La notte che stava aldilà sembrò fredda e scura come le tenebre alla fine del Mondo.

Aragorn chiuse gli occhi, cercando di nascondere il suo nervosismo e la sua eccitazione. Alla cieca afferrò dal tavolino il bicchiere colmo di vino e bevve. Ma le sue dita tremavano tanto che il vino gli si riversò sulle mani in torrenti fruttati, scivolò lungo la pelle e sbocciò in rose scarlatte sulle coperte. Quasi capovolgendolo, Aragorn riappoggiò il calice goffamente sul vassoio d’argento, sibilando un epiteto alla sua stupidità.

“Oh, Aragorn!” Ridendo, Legolas si portò le dita di Aragorn alla bocca, con la stessa innocente attenzione di un bambino che voglia catturare la neve con la lingua. Le fece scivolare tra le labbra schiuse, lentamente, ed Aragorn sentì la sua lingua carezzagli la pelle, ancora, e ancora, in modo languido, voluttuoso, suggendo con delicatezza fino all’ultima goccia di vino.

Per un attimo, Aragorn ebbe la sensazione di vedere quella scena da al di fuori di sé stesso, e la trovò al tempo stesso eccitante e stranamente dolce: sensuale, come un connubio di amanti; e pura, pura come la visione di bianche distese innevate, dove bimbi giocano rincorrendosi, e nell’aria spira la loro risata cristallina come l‘argento.

Ammutolito dall’incantesimo che la vista, la vicinanza, ed il tocco di Legolas gettavano sempre su di lui, rimase a guardare l’Elfo, scosso da tremiti senza nome. Ma mentre Legolas scivolava in piedi, sul letto e verso di lui, Aragorn si risvegliò da quella beatitudine onirica, e “Legolas, NO!” ordinò, quasi urlando.

Si alzò a sedere, strappando la mano da quella di Legolas e stringendo le dita nelle coperte arrossate dal vino, assumendo all’improvviso l’aria di un Re: un Re contrariato, che dall’alto del suo trono si appresta a punire con furia regale chi ha osato fargli un affronto.

Legolas reagì come se fosse stato colpito in pieno viso. Si lasciò cadere sul cuscino ai piedi del letto con un ansimo di sorpresa. Fissò Aragorn a lungo, come un animale ferito, con un espressione di indicibile sgomento e sofferenza che contaminava le sue fattezze. Infine i suoi occhi sgranati si strinsero, e divennero malinconici mentre mormorava, con la morbida bocca contorta: “Capisco. Scusami.”

Voltò le spalle ad Aragorn, e scivolando giù dal letto, si fermò ad un passo dall’alto candelabro scolpito, tracciandone un ricamo indefinito con la punta delle dita.

“La Dama di Rohan è molto bella,” disse, ed una punta di amarezza entrò nella sua voce. Stancamente, lasciò ricadere la mano contro il fianco. “Buonanotte,” mormorò. “Scusami.”

“Cosa c’entra--” in un lampo, Aragorn fu accanto a lui, la dita affondate in un braccio ingannevolmente esile, e lo attirò a sé, schiena contro petto, un braccio attorno alla vita, coi capelli dell’Elfo che gli sfioravano la guancia. “Cosa c’entra ora Éowyn?” Era furente. Legolas baciava lui, si stringeva a lui, e pensava a lei?

“Scommetto,” disse sommessamente Legolas, “Che lei non la rifiuteresti. Che se il Patto di Elendur ti legasse a lei invece che a me, tu non saresti così infelice. Il suo tocco non ti disgusterebbe mai come ti disgusta il mio.”

“Cosa stai…?” Legolas si girò tra le sue braccia, ed incrociò il suo sguardo con veemenza.

“Smettila di prendermi in giro! Posso accettare che tu non voglia amarmi, non voglia prendermi--” Aragorn inspirò aspramente, “—ma perché, perché non puoi più nemmeno accettare la mia vicinanza? La mia amicizia? Ti disgusta stare con me, lo so, lo capisco, ma almeno, dimmelo chiaramente! Siamo stati amici a lungo, non merito nemmeno quest’ultimo atto di sincerità, da te?” La testa di Aragorn vorticava. Éowyn aveva ragione, Legolas stava realmente soffrendo. Per colpa sua.

“Legolas, tu… tu non mi disgusti affatto!” L’Elfo rise, ma il suono riecheggiò dolorosamente simile un singhiozzo.

“Certo. È per questo che non mi parli da giorni. Per questo mi scacci quando ti tocco. Per questo non ti confidi più con me, e preferisci invece aprirti ad una sconosciuta. È perché sei pazzo d’amore per me. Certo.” Il sapore amaro del rimorso gli riempì la bocca. Chiuse gli occhi, e per questo non vide il lampo di dolore che passò in quelli di Aragorn. “Scusami,” disse. “Non avrei dovuto dire una cosa simile. Sono solo… stanco.”

“Legolas, in realtà, quello che provo per lei… per te…”

“So che ami Arwen,” continuò Legolas in fretta, come se non l’avesse sentito, o si stesse sforzando di non farlo. “So che il tuo cuore appartiene solo a lei, e che non la dimenticheresti certo per via del Patto, né per quella creatura affascinante che è la Dama Éowyn. Ma… io… io…” Esitò. Tentando di alleviare la tensione, Aragorn disse, con un sorriso stentato:

“Se non ti conoscessi, direi che sei geloso.” Gli occhi di Legolas lampeggiarono.

“Allora non mi conosci affatto,” sibilò.

“Cosa?”

“Lo sono.” Aragorn barcollò indietro, ancora avvinto a Legolas.

“Che?” gracchiò.

“Sono geloso.” Il suo tono era calmo, distaccato, quasi freddo, nella sua incredibile intensità. “Tu dovresti pensare solo ad Arwen, amare solo Arwen, adorare solo Arwen, e nessun’altra!” la sua voce, sebbene fosse bassa e controllata, sembrava stillare furia. Lo guardò con uno sguardo appassionato, eppure così stranamente sofferente, che Aragorn ammutolì. Quindi aggiunse in un soffio: “E… dovresti confidarti con me… ridere con me… farti consolare da me… e da nessun altro.”

Era il momento per rivelargli tutto, pensò Aragorn. Stringendolo con foga a se, premendoselo contro il cuore, cullandolo, si tese finché i loro visi quasi si sfiorarono, e disse, in un sussurro arrochito dal desiderio:

“Io ti amo, Legolas. Non devi dubitarne” . Ma prima che potesse finire, spiegarsi, l’Elfo annuì, e disse:

“Lo so, non sarei il tuo migliore amico se non ti importasse di me. Ma… lo sono ancora? Sono ancora tuo amico, Aragorn? Sono ancora importante per te?” Lo guardò. L’intensità, la disperazione, la confusione nel suo sguardo, uniti al tono mormorante della sua voce, alla carezza del suo respiro che gli scivolò umida e calda sulla pelle, distrussero ogni intenzione di Aragorn di dichiararsi a lui.

Come poteva gettare un altro peso sulle sue spalle, quando l’Elfo era già così estremamente addolorato, così stranamente esausto?

Aspetterò, decise. Ma era comunque determinato ad alleviare, anche se poco, la confusione dell’altro. Per questo carezzò i suoi capelli, e depose piccoli, veloci baci sul suo volto, la fronte, le guance, la morbida linea dalla mascella al mento, fino a chiudere le labbra sulla sua bocca.

“Lo sei,” disse tra un bacio e l’altro. “Lo sarai sempre. La cosa più importante per me. La più importante di tutte.”

“No, non la più importante,” lo corresse Legolas in un sussurro. “Gondor, Arwen…”

“La più importante,” ripeté Aragorn.

“Ma…” iniziò, ma Aragorn gli posò le labbra fermamente sulle sue. Sempre baciandolo il Ramingo indietreggiò fino a toccare il letto con le ginocchia, e poi si torse, spingendo Legolas sulle coperte, e coprendolo col suo corpo.

“Non andartene,” lo supplicò. “Hai ragione, mi sono allontanato da te, ma ora so che ho sbagliato. Ti rivoglio al mio fianco. Ti prego: é troppo duro andare avanti, in mezzo a questa distruzione, a questo dolore, a questo caos, da soli. Non posso farcela; non senza di te”. Mentre parlava, gli sfiorava il volto teneramente con le dita. “Parliamo, come facevamo un tempo; senza costrizioni e senza vergogna. Consolami, e lascia che ti consoli. Lasciamo a domani ogni pensiero del Patto, ogni pensiero d’onore, d’amore o di servitù. Per stanotte, resta con me, e ci saremo solo noi. Insieme.”

Per un istante, un istante eterno, Legolas lo fissò negli occhi. Poi annuì, e sorridendo allargò le braccia perché Aragorn potesse premersi contro di lui.

Parlarono. Per tutta la notte parlarono di Boromir, di Merry e Pipino, di Frodo e Sam, della loro missione, del loro destino, della Terra di Mezzo. Parlarono. Eppure mai, nemmeno una volta, diedero voce a ciò che provavano, a ciò che traspirava tra di loro, reale, presunto, o dettato da un patto vecchio di millenni.

Parlarono. Si strinsero. E poi piansero, e si asciugarono le lacrime l’un l’altro, come amici, come fratelli.

Come amanti.

Al nascere del nuovo giorno, la luce che inondò la stanza li scoprì ancora abbracciati, avvinti dolcemente e addormentati, sul morbido letto candido; e finalmente in pace.

  

       -TBC

…eh, si… dormono e basta… che vergogna…-_-;;