.|.  Anmírë Anna - Il Dono più Prezioso .|.

Il mio stile è terribilmente dispersivo… mi perdo nelle descrizioni degli ambienti e dei personaggi invece che andare avanti col plot, e mi dispiace se questo vi annoia. X_X Perdono! Per colpa di questa mia tendenza ad allungare i capitoli, una scena che avevo deciso di inserire nel capitolo 4 è finita in questo capitolo 5, scombussolandomi tutti i piani: contavo infatti di fare un fic non più lunga di 7 o 8 capitoli, ma temo che quel numero non basti più ormai… non credo di riuscire concludere il tutto come vorrei in meno di 11 capitoli… come sono dispersiva… =_=;;

 

Capitolo 5

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* * * * *

Quando Aragorn si fermò, ansante, a prendere fiato, la prima cosa che fece fu tendere l’orecchio, sperando di udire il suono della voce di Legolas; ma l’aria era assolutamente immobile e la foresta tanto silenziosa da far pensare che nulla di vivente e reale vi dimorasse. Aragorn ansimò, stringendo i pugni, ed un’imprecazione soffocata gli sfuggì dalle labbra. Senza pensare, si lanciò verso la radura dove da ultimo aveva visto Boromir e Legolas.

Dove aveva visto Boromir attaccare Legolas.

Dopo aver lasciato il campo –curandosi di svegliare Gimli, così da non lasciare la Compagnia completamente indifesa; e prodigandosi in un discorso precipitoso eppure ridondante, che aveva confuso il Nano a meraviglia facendogli montare (nuovamente) la guardia- Aragorn aveva imboccato, svelto e furtivo, non il sentiero che avevano usato Legolas e Boromir, bensì una stradina che snodandosi tortuosamente tra le querce lo aveva portato sulla cima del Colle di Guardia, ed al seggio diroccato posto sulla sua sommità.

Da lì, era sicuro che avrebbe visto Legolas e Boromir senza farsi scoprire dall’udito fino dell’Elfo. Eppure, quando finalmente aveva raggiunto le rovine, non poté fare a meno di indugiare nella sua ricerca, colto dal pensiero che scrutare l’orizzonte dall’alto dell’Amon Hen potesse in qualche modo guidarlo nella sua incertezza.

Seduto sull’alto seggio, si era dimenticato per un attimo le sue angosce, e aveva lasciato vagare lo sguardo sul paesaggio sottostante. Davanti ai suoi occhi aveva visto distesa tutta la foresta, con le sue radure che si aprivano qui e là come orme di giganti ormai estinti; con le sue tortuose volute di nebbia che si alzavano spiraleggiando nell’aria, come se la foresta stessa respirasse ed il freddo rendesse visibile il suo alito. Aveva visto l’acqua dell’Anduin ribollire e spumeggiare con furore contro il fianco gigantesco dell’isola di Tor Brandir, lì dove il fiume finiva e iniziava la cascata. Aveva visto lontane colline galleggiare sulla bruma del mattino, come immensi velieri che scivolavano su Oceani meravigliosi e segreti. Poi, aldilà di quelle, aldilà dei barbagli argentei di fiumi lontani, delle ombre grigie di foreste dimenticate, aveva visto stagliarsi contro oscure nubi luminescenti le sagome di picchi frastagliati e aguzzi; aveva visto la tempesta agitarsi sotto un portentoso nembo del colore del ferro; aveva visto fuoco e fumo levarsi in aria come dita avide e corrotte.

Il suo sguardo si era posato sul confine della Terra di Mordor, dove l’ombra regna sovrana, ed Aragorn non era riuscito sopprimere un brivido.

Per qualche istante gli era parso che da quell’orizzonte ribollente giungesse fino a lui un’oscura melodia: gemiti e grida inumane che precipitavano e si innalzavano e traboccavano, mescolandosi in mille lugubri echi. Poi, costringendosi a voltarsi di scatto, Aragorn aveva visto, in uno spiazzo punteggiato di antiche rovine al limitare delle acque, proprio l’oggetto della sua cerca.

Legolas e Boromir.

Stranamente rapito Aragorn li aveva osservati a lungo, senza riuscire a udire di cosa parlassero, ma sentendo un peso levarsi dal suo cuore, perché nessuna intimità particolare, nessun gesto di doloroso romanticismo, sembrava traspirare tra i due.

Poi tutto era cambiato: Boromir, le sue reazioni, il modo in cui agitava le braccia, scuoteva la testa, stringeva i pugni - tutto faceva supporre che in lui fosse nata una collera tremenda, uno strano odio che Legolas non avrebbe potuto tenere a bada per molto. Finché tutto non era converso in una scena che Aragorn non avrebbe mai pensato di vedere.

Per un attimo, la visione era brillata abbacinante agli occhi di Aragorn: Legolas steso sull’erba umida, Boromir curvo su di lui, seduto sulle sue gambe, che gli teneva i polsi, ghermendolo, minacciandolo, e Legolas che si dibatteva, prima con forza, poi debolmente, come sotto l’effetto di un incantesimo, gemendo, urlando, e la rabbia era esplosa dentro Aragorn, e il mondo si era nuovamente distorto ai suoi occhi, come filtrato attraverso un velo vermiglio e denso, e lui era scattato, correndo a perdifiato giù per il fianco della collina, sopra le foglie morte, tra gli alberi che si curvavano come spiriti maligni su di lui, deridendolo crudelmente, additandolo, parandosi tra lui e colui che amava, e le sue mani si strinsero sull’elsa della spada, mentre il respiro si faceva doloroso, e lui correva, correva…

 

Era giunto alla radura ormai, ed entrandovi vide Legolas giacere inerme sull’erba. Sembrava respirare appena, tanto lieve era il movimento del suo petto, ma Aragorn credette di sentirlo mormorare il suo nome.

La sua collera traboccò.

In un istante fu addosso a Boromir, lo afferrò per le spalle e lo scagliò riverso sul terreno.

“Tu!” sibilò il Ramingo a denti stretti. Aveva la pelle lustra di sudore; i capelli, madidi, erano incollati alla fronte; respirava in spasmi dolorosi, e i suoi occhi ardevano come fiamme azzurre.

Boromir lo stava fissando da sotto le ciglia abbassate, uno sguardo duro, carico di animosità. Poi, improvvisamente, il Gondoriano saltò in piedi, piegato in due, e con un grido gorgogliante caricò il Ramingo, afferrandolo per la vita. Lo fece scivolare indietro sul terriccio, e Aragorn quasi cadde, mentre afferrava Boromir a sua volta e lo spingeva indietro. Boromir scivolò e perse la presa. Un sibilo gli sfuggì le labbra; spiazzato, Aragorn lo vide caricare ancora, come una bestia inferocita, puntando al pugnale da caccia che il Ramingo portava legato alla vita.

Nello scontro che seguì Aragorn fu sbattuto indietro e a terra, e Boromir lo seguì, una mano stretta attorno al collo del Ramingo; sopra la sua testa, il pugnale di Celeborn mandò un barbaglio freddo, come luce riflessa dal ghiaccio, che accecò Aragorn. Poi la lama scese in un arco fulmineo verso il suo volto. Istintivamente, Aragorn affondò le dita nel polso di Boromir, fermando il colpo un millimetro dal colpirlo.

Aragorn si dibatté con violenza, tentando di darsi una spinta con le gambe per alzarsi, ma scoprì che era inutile. Colpì Boromir più forte che poté, mirando alla testa con il pugno. Boromir annaspò e mormorò qualcosa, ma non allentò la presa, né smise di spingere il pugnale verso Aragorn.

 Il secondo colpo scivolò sulla fronte di Boromir, che lo schivò. Al terzo, Aragorn udì Boromir sibilare quando fu colpito di piatto alla base della nuca; eppure la sua stretta non si allentò.

Aragorn annaspò.

L’aria cominciava a mancargli ormai, e Boromir ancora sorrideva, mostrando i denti, mormorando frasi spezzate sul potere, e la pace, e l’amore, e l’anello, e Legolas, e Legolas, e Legolas…

L’Elfo comparve dietro di lui come un’ombra silenziosa. Strinse il collo di Boromir con un braccio, costringendolo indietro e contro di se. Boromir si girò, urlando, pronto ad affrontare la nuova minaccia, e prese un pugno in pieno viso. Non lasciò andare il pugnale, ma si alzò quel tanto che bastava ad Aragorn per divincolarsi e colpirlo al petto, facendolo rovinare al suolo. Legolas fu sbalzato via, ed Aragorn, in un altro eccesso di collera, avanzò verso il Gondoriano, gli bloccò le spalle con un piede, torcendogli il braccio. Boromir urlò, lasciando cadere il pugnale; poi, quando Legolas si precipitò a fermare Aragorn, cingendolo alle spalle in una stretta che era sia forte, sia tenera, Boromir rotolò su un fianco, ansimando, e sollevando alti spruzzi cadde nel fiume.

Aragorn non se ne rese nemmeno conto, ma cadde in ginocchio sulla riva, abbandonandosi indietro tra le braccia di Legolas, ansante, madido di sudore, affondando la testa nell’incavo del suo collo. E mentre l’Elfo gli respirava gentilmente nell’orecchio, Aragorn sentì la sua collera evaporare, eclissata dal sollievo.

Il corpo di Legolas era caldo contro il suo, il soffio del suo respiro una carezza umida sulla pelle. Sentiva le mani dell’Elfo carezzargli gentilmente i fianchi, e le sue labbra premersi, per scelta o per fortuna, sui suoi capelli, l’orecchio, il collo.

Aprì gli occhi, o meglio lasciò scivolare indietro le palpebre, e vide Boromir inginocchiato nell’acqua, riverso contro una colonna, che si guardava attorno come se si fosse appena svegliato da un incubo. L’acqua gli riempiva la bocca, sentiva le membra indolenzite, ed una fitta di dolore gli trafiggeva le tempie come una lama di luce. Eppure ciò che gli doleva di più era qualcosa di sepolto dentro di lui, profondo ed immenso. Alzò lo sguardo lentamente su Aragorn, come se lo vedesse per la prima volta, e i suoi occhi si allargarono.

“Che ho fatto?” mormorò, quasi parlasse a se stesso. “Che ho fatto…” Aragorn continuò a fissarlo, la testa reclinata sulla spalla di Legolas e disse, semplicemente,

“Vattene.”

Boromir esitò un attimo; poi, in un rumore di acqua e ramoscelli spezzati si trascinò fino al bordo della radura. Qui si fermò, e con le spalle volte verso Aragorn gli disse: “Legolas possiede una bellezza ed un fascino unici, credevi davvero che nessuno mai vi avrebbe ceduto? Smetti di ignorarlo, o chiunque si sentirà in diritto di provare a sottrartelo.” Legolas trasse un respiro acuto.

Aragorn chiuse gli occhi, e ripeté “Vattene” in un sussurro. Un fruscio di vesti, un rumore di terra che scricchiola sotto le suole, un mormorare di fronde, e Boromir era scomparso.

 

* * * * *

 

Passò un minuto, o dieci, o mille, poi Aragorn si scostò, riluttante, dall’abbraccio di Legolas, e si girò a guardarlo negli occhi. C’era uno strano, teso sorriso sulle labbra dell’Elfo. Un guizzo doloroso gli attraversò gli occhi. Ma fu solo un attimo. Poi, come se una nuvola si fosse mossa da davanti al sole, tutto ciò che nel viso dell’Elfo gli era sembrato strano sparì; il suo sguardo si addolcì, le labbra si rilassarono, e le due fossette che apparvero ai lati della bocca gli diedero un’aria saggia e maliziosa insieme.

“Non l’avevo mai vista così in collera, signor Ramingo,” disse, ancora sorridendo. Aragorn lo guardò fisso per un momento. Poi le sue spalle sussultarono e un basso ridacchiare gli sfuggì dalla labbra, alzandosi fino a diventare una risata piena, lunga, echeggiante.

“Tu… tu sarai la mia fine.” Balbettò infine, cercando di sottrarsi alla tempesta di emozioni che gli impediva di parlare. Si passò una mano sugli occhi, ma non smise nemmeno un momento di fissare Legolas. Alla fine non poté più resistere, ed in un movimento così fulmineo da essere più elfico che umano lo attirò a se, nascondendo il viso tra i suoi capelli. Per un attimo, Legolas si irrigidì; quando parlò, la sua voce suonò debole e lontana persino alle sue stesse orecchie.

“Mi hai salvato.”

“E tu hai salvato me.” Le parole di Aragorn, formate contro la pelle nuda del suo collo, gli diedero un brivido.

“Mi hai seguito.”

“Si.”

“Non ti fidavi.”

“Non di Boromir, no.”

“E mi hai salvato.”

“Si.”

“…grazie.”

E mormorando questo Legolas strinse Aragorn a sua volta, stringendo le mani a pugno attorno alla stoffa del suo vestito. Rimasero immobili per un momento, poi Aragorn tirò indietro la testa e Legolas, senza sapere perché, abbassò la sua, così da non doverlo guardare negli occhi.

“Cosa è successo?” mormorò gentilmente il Ramingo. Legolas scrollò le spalle, un guizzo agile che fece ondeggiare i lunghi capelli biondi e sfiorare le guance di Aragorn lievemente.

“L’hai visto. Mi ha attaccato. Era… non era in lui, Aragorn. Non biasimarlo per colpe che non ha.”

“Era l’anello, vero?” Legolas indugiò un attimo, quindi fece lentamente cenno di sì col capo. Che senso aveva negare ciò che era evidente? “Lo sapevo… sentivo qualcosa in lui, ma… ero troppo cieco per capire che fosse opera dell’Unico.” Continuò il Ramingo, con voce stranamente colpevole.

“Non è colpa sua, Aragorn. Ma tanto meno tua.” Mormorò Legolas, premendosi contro Aragorn come se il contatto dei loro corpi potesse infondergli consolazione.

“Lo so.” Legolas sussultò sentendo la mano di Aragorn scivolare teneramente sui suoi capelli. Quando era ancora molto piccolo sua madre adorava passare le dita tra i suoi capelli, ridendo deliziata. Non c’era stato nulla, mentre era ancora sulla Terra di Mezzo, che la Regina avesse amato di più che giocare coi capelli di suo figlio, intrecciandoli e poi rispettinandoli con le dita. E Legolas, ogniqualvolta si sentiva arrabbiato o confuso, si sedeva nella sua stanza di fronte al grande specchio d’argento, vedendola riflessa mentre cantava nella sua voce dolcissima, ed il tocco morbido delle sue dita era come un balsamo per la sua anima.

Le mani di Aragorn, più grandi, più forti e ruvide di quelle di sua madre, lo stavano commovendo ora nello stesso identico modo.

Stordito, Legolas alzò la testa di scatto, e si ritrovò a fissare Aragorn negli occhi, come aveva temuto. Esalò un respiro tremolante e provò a girarsi, ma scoprì che non poteva. Sorridendo, Aragorn gli accarezzò di nuovo la testa, poggiando la fronte contro la sua.

“Ho tentato di farlo ragionare.” Mormorò Legolas in un soffio, gli occhi fissi in quelli dell’altro.

“Lo so.” La voce di Aragorn non era più alta della sua, né meno roca. Il loro respiri si incontrarono e si mescolarono in volute di vapore tra le loro bocche.

“In questi giorni, intendo. Ho provato a parlargli, ma…”

“Lo so.” Legolas lo stava fissando ora con uno sguardo stupito; tutt’intorno a loro non esisteva più niente. La foresta non era altro che una successione di forme sfocate, come nubi lontane, misteriose e bellissime, dei mille colori delle foglie.

“Tu… credevo che dormissi,” disse nello stesso sussurro morbido che aveva usato prima.

“No, signor Principe. Non dormivo.” Sorrise. La sua mano, ancora immersa nei capelli dell’Elfo, si mosse e si posò sulla sua guancia, mentre l’altra, scivolando attorno alla sua vita, lo attirava ancora più vicino. “E non immagini quanto io sia contento di aver deciso di seguirvi, stanotte. Cosa è successo?” chiese ancora, dopo un momento.

Legolas, che voleva mentirgli, scoprì che non poteva. Sbatté le palpebre, stupito nel riconoscere negli occhi e nei gesti del Ramingo una devozione, un bisogno di proteggerlo, che Legolas non era abituato a vedere diretti su di sé. Fino a quel momento, se qualcuno aveva avuto bisogno di protezione –Aragorn compreso- era stato lui ad offrirla, e di certo erano pochi quelli a cui si sarebbe rivolto se mai avesse ne avuto bisogno lui.

//No, non pochi// pensò. //Ma uno, uno solo. Aragorn.// sospirò, pur senza volerlo, e gli sfiorò la guancia con la punta delle dita, scendendo fino a carezzargli le labbra appena schiuse, quasi fosse una cerimonia.

“Le sue emozioni… erano troppo forti per me, e coadiuvate dal potere dell’Anello, stavano per sopraffarmi. La mia gente avverte le emozioni in modo fisico… anche quelle altrui, se veniamo in contatto con loro. E quando queste emozioni sono molto forti, noi le percepiamo in modo doloroso, struggente… come gelo e fiamma… come tempesta e tuono… e possiamo perderci dentro di esse… lo sai.” Aragorn annuì, sorridendo appena, tentando di non pensare che solo le emozioni più dolorose e distruttive possono soverchiare un Elfo così in fretta e completamente come era accaduto con Legolas… e questo solo quando tali emozioni esterne sono rispecchiate dentro l’Elfo stesso.

Quel desiderio profondo e inespresso, quella tristezza, quel dolore, che aveva visto negli occhi di Boromir, erano dunque anche dentro il cuore del suo Elfo? Con tutto il suo essere, Aragorn sperò di no. Legolas non meritava di soffrire. E lui non avrebbe permesso che accadesse.

Quando Aragorn gli fece scivolare le dita sul volto in una carezza, Legolas chiuse gli occhi, esalando lentamente. L’ombra di un sorriso gli incurvò le labbra, e per un momento sembrò che stesse in ascolto.

“Ma quando lui ha smesso di toccarmi,” disse infine, guardando Aragorn intensamente, “Il potere delle sue emozioni su di me è diminuito, e sono riuscito ad aiutarti. Temevo che ti avrebbe fatto del male. Temevo che… preda della sua follia… ti avrebbe… ti avrebbe…” portato via da me.

“…mai…” Il respiro di Aragorn era appena più accelerato del solito. I suoi occhi dilatati, del colore del mare boreale, cangianti e senza fondo. Il cielo, dietro di lui, era candido e luminoso come neve, e le fronde ombrose disegnavano una corona di foglie grigie attorno al suo capo.

Buffo, come Legolas notò tutte queste cose e mille più, ma non la più importante: i loro visi, che quasi si sfioravano, stavano scivolando ancora più vicini, finché solo lo spazio di un respiro separò le loro bocche, e infine più nemmeno quello.

Le loro labbra si toccarono, si aprirono; le loro lingue si sfiorarono. I loro sensi esplosero in sprazzi luminosi dietro le palpebre chiuse. Il calore dilagò nei loro corpi, dolce, lento, sinuoso.

Aragorn, come quella volta nelle acque di Lothlórien, tornò a sentire il bisogno di Legolas come un fuoco inestinguibile dentro di sé. Era una sensazione dolce e calda, selvaggiamente fisica e squisitamente spirituale.

 Le labbra di Legolas erano piene e ferme sotto le sue; il suo corpo si muoveva in modo sinuoso e audace, offrendosi a quello del Ramingo premuto contro di lui. La sua bocca -al contrario di quella di Arwen, che era come acqua di fonte- era come fuoco; possedeva una dolcezza particolare, come miele selvatico, o vino speziato, ed era altrettanto inebriante.

Al contrario, per Legolas la bocca di Aragorn aveva un sapore forte, sensuale, salato. Ma non come il sale che si estrae dalla terra: era un tono più morbido, più sottile, stuzzicante. Era come il sale che si trova nell’acqua dell’Oceano, o sulla pelle dei figli mortali di Iluvatar.

La bocca di Aragorn, pensò Legolas, sapeva di lacrime e mortalità.

A questo pensiero l’Elfo diede un piccolo gemito, e attirò Aragorn ancora di più contro di sé.

Fece scivolare una mano giù per il petto di Aragorn, sopra tunica, giù, giù, poi nell’apertura tra due bottoni e su di nuovo, sopra lo stomaco, le costole, i muscoli levigati del petto, fino a trovare il punto dove poteva sentire il cuore del Ramingo battere contro il suo palmo.

La mano premuta contro la schiena di Legolas scivolò in giù, incontrando la curva tornita di un gluteo. L’Elfo inspirò in maniera appena più pronunciata, e Aragorn lo sentì gemere dolcemente nella sua bocca. Mosse l’altra mano, quella chiusa teneramente sulla guancia di Legolas, facendola scendere, sfiorandogli il collo con la punta delle dita, poi i capelli, tracciando i contorni dell’orecchio dal lobo fino alla punta dalla delicata forma di foglia. I gemiti di Legolas si fecero più pronunciati, i movimenti del suo corpo più veloci, più appassionati e esigenti.

Anche se l’avesse voluto, Aragorn non sarebbe riuscito a fermare il movimento lento e ondulatorio che aveva preso i suoi fianchi. Stava precipitando, ma mai fine gli era sembrata più dolce, o abisso più luminoso. Cedeva, stava cedendo alla tentazione, si sentiva consumare, come un fuoco, e sentì le sue dita muoversi, come per conto loro, lungo il collo di Legolas, e poi dentro la tunica, e sfiorargli il petto, coi i bottoni che si aprivano contro il dorso della sua mano, e carezzare la sua pelle con la devozione che una simile creatura meritava, lentamente, assaporando il tocco, sorbendo la sensazione inebriante di quel loro primo, estatico contatto.

Poi, improvvisamente, tutto finì.

Un suono acuto e riverberante si alzò dalla foresta, ondeggiò e ridiscese, echeggiando per le valli. Aragorn e Legolas si separarono di scatto, ansando, ogni millimetro del loro corpo in contatto, tratte i volti.

Ci fu un momento di silenzio. Poi il suono si levò ancora, ascendendo e rimbombando come un eco rinchiuso in una caverna. Toccò una nota stridula, restò sospeso un momento nell’aria, quindi precipitò.

Aragorn, che ancora ansimava, madido e senza fiato, si girò di scatto nella direzione in cui era il loro campo. Legolas, che invece respirava in modo lento e regolare, come se nulla fosse accaduto, sgusciò fuori dal loro abbraccio e si alzò in tutta la sua statura prima che Aragorn potesse anche solo sbattere le palpebre. Il tumulto nel suo cuore traspariva solo nelle guance appena accese di colore e nel blu dei suoi occhi, che si era scurito come il cielo di notte.

“Il corno di Gondor!” disse, e la sua voce ebbe un fremito di disperazione.

“Frodo!” Aragorn barcollò in piedi, raccolse il pugnale di Celeborn e corse via senza aggiungere parola. Dietro di lui, Legolas si chinò a raccogliere il suo arco, incoccò una freccia, e lo seguì.

Ma era tardi.

 

Troppo tardi.

 

Aragorn trovò Frodo che sguisciava verso le loro barche, stordito e tremante, ma deciso a raggiungere Mordor da solo. Il Ramingo lo lasciò andare, seppur amaramente, conscio che il destino del Portatore ed il suo dovevano dividersi ora, e forse per sempre. Non provò a fermare neanche Sam, quando l’Hobbit arrivò galoppando fuori dalla foresta e verso il fiume, perché sapeva che invece il suo destino era legato a quello di Frodo indissolubilmente, come le radici di un albero millenario lo sono alla terra.

Quando Legolas -che si era fermato per controllare in quale punto della foresta stessero ammassati i servi del Nemico- lo raggiunse lo trovò solo, che scrutava vaghe forme sgusciare tra gli alberi sul sentiero che conduceva alla riva. La vista dell’Elfo lo spronò, ed insieme corsero ad aiutare Gimli, che teneva a bada da solo un manipolo di Uruk-hai.

Il corno di Gondor risuonò ancora, vibrando su accordi impassibilmente alti. Gli Uruk-hai si immobilizzarono per un momento, come fossero un unico essere. Poi, come una brulicante, fetida, marea oscura, si mossero verso la direzione da cui proveniva il suono.

Aragorn corse, corse, corse. Avanti, sempre avanti, vertiginosamente avanti. Col vento nelle orecchie, saltando sopra le teste di statue cadute, curvandosi sotto rami penduli delle querce, mulinando spada e pugnale in tutte le direzioni.

Il corno risuonò un’altra volta. Un’accorata, dolorosa chiamata che si spezzò in due all’improvviso, ricadendo senza eco nelle tenebre.

Fu in quel momento, che Aragorn capì.

Continuò a correre.

Ma il corno non suonò più.

Mai più.

Eppure Aragorn continuò a correre.

Più veloce, sempre più veloce.

Ma quando arrivò, era troppo tardi.

 

Boromir giaceva ai piedi di un albero, circondato dai corpi di decine di Uruk-hai che aveva abbattuto, ma era inerme e pallido come lo era stato Legolas quel mattino. Il bel volto e i capelli erano coperti di sudore, terra e sangue, e il suo respiro era poco più di un rantolo portato dal vento. Tre frecce nere gli spuntavano dal petto, tremolando con ogni suo respiro.

La collera, l’orrore, la pietà -mischiandosi ad un senso di lealtà ed amicizia verso Boromir che temeva di aver perduto- spinsero Aragorn avanti, gli fecero caricare l’Uruk-hai che aveva ucciso Boromir, e che stava sogghignando ironico, annuendo verso di lui con occhi fiammeggianti e dilatati, come fosse incredibilmente divertito.

La battaglia fu breve e cruenta, e la vittoria non diede ad Aragorn alcuna soddisfazione.

Quando fu finita, Aragorn cadde in ginocchio davanti a Boromir, si chinò su di lui per ispezionare ferite che sapeva già essere mortali.

Era troppo tardi.

Non seppe mai come vi riuscì, ma forzò oltre il nodo che gli chiudeva la gola la promessa di continuare a combattere, di proteggere la Terra di Mezzo, Gondor, e la loro razza. Boromir sorrise alle sue parole, sorrise di quel sorriso fiero e orgoglioso che era scomparso dalle sue labbra sin da quando era caduto preda dell’Anello.

Boromir aveva salvato Boromir. C’era riuscito. La sua schiavitù era finita. La sua anima, salva. L’Anello non aveva più alcun potere su di lui.

Il suo corpo fu scosso da uno spasmo; tossì, e un fiotto di sangue gli colò sul mento.

Il suo pensiero volò per un istante alla sua candida città arroccata sulle colline verdeggianti; a suo padre che l’attendeva pieno di speranza; a Faramir, fratello amato che non avrebbe più rivisto; al suo amante che ancora combatteva a Rohan. Lottò per il fiato necessario, ma riuscì solo a dire: “Io ti avrei seguito, fratello mio… mio capitano… mio Re,” stringendo flebilmente la spalla di Aragorn e spezzandogli il cuore con quella lealtà che ora più che mai Aragorn credeva immeritata.

Chiudendo gli occhi, Boromir tirò indietro la testa e si lasciò andare ad ascoltare il suono rantolante che gli usciva dal petto.

Gli Uruk-hai avevano ormai lasciato le sponde occidentali e la foresta. La nebbia recedette verso le sponde del fiume. La luce esplose come un fiore sbocciato, irradiandosi tra l’intreccio di foglie che si stendeva sulle loro teste, aprendosi in pozze dorate sul terreno erboso, tremolanti come acqua luminosa. Una brezza odorosa spirò dal sottobosco in un tremolio di fronde. Gli uccelli nascosti tra i rami uscirono a cinguettare di Dei ed Eroi nella loro lingua segreta.

Nella luce, nel vento, nel dolce suono di canti melodiosi, Boromir, figlio di Denethor, Sovrintendente di Gondor, morì.

Infinitamente lontano, oltre le valli e le colline che Aragorn aveva intravisto dall’Amon Hen, oltre i picchi oscuri e le nubi di terrore, un occhio senza palpebra si spalancò nel buio e Sauron tremò di rabbia.

Qualcuno aveva osato resistergli, provando a combattere la malizia dell’Anello.

E vi era riuscito.

 

       -TBC

 

*lacrimuccia* Va bene, mi avete scoperto… sono di parte. Sono una fan di Boromir… e appartengo alla schiera di quelli che pensano che morendo Boromir si sia redento e liberato dall’Anello…