.|.  Anmírë Anna - Il Dono più Prezioso .|.

Note: Fino a questo momento, per quanto riguardava eventi e situazioni, mi sono basata sui meravigliosi film di Peter Jackson, riferendomi al libro del Maestro solo per alcuni dettagli minori. Questo mi ha permesso di saltare qui e là da un luogo all’altro senza creare troppo scompiglio… purtroppo però dell’ultimo film della trilogia ho solo la guida fotografica, quindi urge tornare a consultare la Bib-Ehm, il Signore degli Anelli cartaceo. ^^;;

*libro alla mano*

Allora, con le dovute modifiche rispetto a quanto è scritto nel libro, questo è quanto è accaduto tra il capitolo 9 e quest’ultimo capitolo qui: =)

Lasciato il Fosso di Helm ed Éowyn dietro di loro, Ara e Lego hanno raggiunto Isengard, dove ritrovano gli Hobbit, che si dirigono poi uno ad Edoras ed uno a Gondor. Ara, Lego e Gimli continuano la loro marcia, fin quando i Dúnedain non si uniscono a loro. Giungono a Dunclivio, e da lì partono per il Sentiero dei Morti. Attraversatolo, dopo molte peripezie i nostri raggiungono Pelargir e si impadroniscono della flotta. Legolas vede il mare, e, naturalmente, si strugge di amore e dolore per quell’immensa distesa scintillante, oltre la quale attende la pace beata che mai più, lo sa, egli potrà raggiungere.

In questo momento, la flotta con a bordo Ara, Lego, Gimli e tutti i Dúnedain si avvicina a Minas Tirith, dove l’esercito dei Rohirrim sta combattendo, guidato da Théoden e da Éomer, nei campi di Pelennor. Nascosti tra i cavalieri, ci sono due nostre conoscenze: Merry, che ha giurato di servire Re Théoden; e la Bianca Dama di Rohan, che è pronta a tutto pur di incontrare Lego a Minas Tirith e fermare il suo piano. Pronta anche a rischiare la vita…

*chiude il libro*

Ed ora, senza ulteriori indugi, vi lascio al capito 10 di Anmírë Anna!

Luci, motore… azione!

 

Capitolo 10

~

* * * * *

 

La flotta scivolava silenziosa sul fiume.

Intorno, tra la nebbia rosata del mattino e lo sciabordio delle onde, le visoni fugaci della costa, verde e bellissima. Le abitazioni basse, sparse nella campagna come fiori scuri, gli alberi poderosi che alzavano le braccia al cielo sbiadito, le grida e i cinguettii degli uccelli. Sulla prima delle navi, una figura evanescente si ergeva al limitare della murata di prua, immobile a guardare il vento.

Per la maggior parte del viaggio Legolas era rimasto raccolto in silenzio in quel punto, schiaffeggiato dal vento che gli alzava i capelli ed il mantello. Era solo la sua mente, o nelle sue vesti era rimasto impigliato l’odore salmastro dell’Oceano? E quello che risuonava nelle sue orecchie, distante e languido, non era il suono del suo nome cantato dai gabbiani, sussurrato dalle onde?

Chiuse gli occhi, e la rivide come se fosse dinanzi a lui, quell’immensa distesa luccicante sotto i raggi del sole, inalò il suo profumo pungente di sale. Senza accorgersene, schiuse le labbra, e lasciò uscire il canto che gli si agitava nel cuore.

I Dúnedain, Aragorn, Elladan e Elrohir, e chiunque altro lo sentì, abbandonarono ciò che stavano facendo, e rimasero in ascolto della sua voce carezzante. C’era una squisita risonanza di dolore nelle sue parole, un tremore delizioso nella cadenza sognante della sua voce, un insopportabile dolcezza.

Come sembrava vicina Valinor a chi lo ascoltava! E così terribilmente lontana! Come poteva esserci un sogno al mondo, se non quello di solcare il mare? Dove poteva esistere pace, se non nelle sue profondità? E quale altro dolore c’era, se non quello di amare disperatamente ciò che ci è precluso? Oh, perché trovare l’unica fonte della nostra gioia se poi ne siamo strappati via, come boccioli che la tempesta scaglia via dal loro ramo verde per morire nella miseria del fango?

Scotendosi dai sogni vaghi e cangianti che la canzone dell’Elfo aveva intessuto attorno a lui come un arazzo splendente, Aragorn si fece strada verso di lui. Esitante, gli si affiancò al parapetto e fissò senza vederle le acque crestate di schiuma aprirsi dinanzi alla barca. La sue sopracciglia erano unite in un’espressione preoccupata. La sua bocca era una linea serrata priva di colore.

Legolas smise di cantare bruscamente e si portò una mano alla bocca, come se realizzasse solo in quel momento che quelle tormentate note sulla passione e la rinuncia, sulla dedizione e la perdita, erano scaturite dalla sua bocca.

Abbassò la testa mestamente.

La visione del Mare l’aveva reso assurdamente malinconico – non aveva più controllo ora sulle tempeste del suo cuore di quanto ne poteva avere su quelle del cielo. Spesso si risvegliava in bilico nei punti più alti della nave–il castello di poppa, le sartie, l’albero maestro- dove si era perso in dolorosa contemplazione del cielo, o dell’acqua, e nelle orecchie sentiva riecheggiare la sua stessa voce elevata in canti che non aveva mai conosciuto.

Chissà se chi l’aveva sentito aveva capito che non era l’amore per il Mare che lo consumava?

Sentì Aragorn sospirare, vide la sua ombra muoversi ed una mano di tenebra scorrere tra i lunghi capelli, ma non volle alzare lo sguardo.

“Legolas…” iniziò il Ramingo, ma subito rinunciò. Non sopportava di vederlo così diverso dal suo solito carattere, così sofferente, così solo.

Se soltanto avesse potuto portarlo via da lì, nella profonda quiete sognante della foresta, e sedersi con lui all’ombra dei Mallorn a parlare, ore ed ore, giorni e giorni, con le foglie d’oro che cadevano attorno a loro in una pioggia di luce, e fargli dimenticare così il suo Amore, il mare, per un altro che l’amava e lo bramava e sempre l’aveva adorato e protetto: la foresta!

Se solo avesse potuto fargli dimenticare Elendur!

Non seppe trattenersi. Lo prese tra le braccia.

“E’ straziante vederti così,” disse. Legolas accettò il suo tocco ad occhi chiusi.

“Passerà.”

Rimase immobile finché non sentì le dita di Aragorn sfiorare la collana di Éowyn, ed il corpo del Ramingo tendersi. Il suo respiro si mozzò per un momento, prima di continuare in una pretesa di normalità. Legolas sorrise.

“Perché non mi chiedi semplicemente quello che vuoi sapere, invece di continuare a rimandare?” Un sospiro.

“Non posso nasconderti nulla, vero?”

“Non tutto.” Scosse la testa, facendo ondeggiare i lunghi capelli contro le guance irsute di Aragorn. Le braccia intorno al suo petto si fecero più strette.

“Lei, che ti ha donato quel gioiello… è a lei che pensi, quando ti perdi nei tuoi sogni?” quel luogo per me inavvicinabile, dove nemmeno la mia voce ti raggiunge.

“No.” Scosse ancora la testa. Aragorn pensò che avrebbe dato tutto per vederlo sempre sorridere in quel mondo. “Éowyn mi è cara, come potrebbe non esserlo? Lei è come una gemma, preziosa, bellissima, indistruttibile. Fredda come una pallida alba di primavera, ed altrettanto radiosa. Si, l’ammiro e la rispetto, ma non provo passione per lei.”

“E lei? Lei ti…?”

“No.” Rise. “Uomo vanitoso, perché me lo chiedi? Per sentirti rispondere ciò che già sai? Lei ama te, ti ha amato dal primo istante.” Abbassò le ciglia frementi. Gli sfiorò il braccio. “Tutto coloro che ti conoscono non possono fare a meno di amarti.”

“Curioso.”

“Cosa lo è?”

“Lei… mi ha detto la stessa cosa, una volta.”

“Perché è vera.” Evitando il suo sguardo, Legolas esalò. Notò che uno dei Dúnedain li fissava da sopra la posizione di vedetta e allontanò Aragorn, a disagio.

“Non siamo in privato, Aragorn.” Aragorn lanciò uno sguardo alla vedetta, che gli fece un cenno come per dire: la meta si avvicina. Aragorn fece un gesto verso il loro vessillo. La vedetta annuì, salutò, quindi si allontanò come se nulla fosse. Aragorn tornò a fissare Legolas.

“Ti irrita che ci vedano insieme?”

“Li irrita vederci insieme,” lo corresse.

A quel punto, tutti nella flotta sapevano che Legolas apparteneva ad Aragorn, gli apparteneva per legge, come una cosa, e nessuno aveva avuto da ridire, sebbene li confondesse il concetto che un Elfo venisse trattato dai suoi simili come un oggetto.

Certo, tra loro due non vi erano stati altro che abbracci, gesti fraterni di conforto, e piccoli, veloci baci tra le ombre sin dal quel lontano giorno al Fosso di Helm. Eppure, probabilmente tutti pensavano che, come di giorno Legolas proteggeva Aragorn con il suo arco e le sue lame, così di notte lo consolava, il corpo perfetto acceso di un fuoco più ardente di quello della battaglia.

Di fatto, Legolas sentiva spesso gli occhi degli altri umani posarsi su di lui e bruciare. Credeva fosse odio, il loro, e l’atteggiamento affabile che tutti avevano nei suoi confronti lo disorientava.

Aragorn, che era mortale anche lui, sapeva che era adorazione la loro, ed invidia verso il loro condottiero.

“Credi che gli faccia piacere vedere il loro Re stringersi ad uno del suo stesso sesso e baciarlo?” chiese l’Elfo.

“A loro non importa.”

“Oh, si invece. Forse non avrebbero nulla da dire se tenessi questi gesti per i momenti di solitudine, ma in piena luce, dinanzi a loro… è improprio.”  Aragorn rise. I suoi Dúnedain gli erano troppo fedeli, tenevano troppo a lui, per scandalizzarsi che il suo corpo ed il suo cuore appartenessero a Legolas.

In un attimo di chiarezza sconvolgente si domandò se l’Elfo sapesse ciò che Gandalf gli aveva riferito, e concluse che non era possibile.

Sembrava che da secoli la gente di Minas Tirith attendesse l’arrivo del Principe Legolas. Nell’immaginario comune ai tempi del padre di Aragorn, il Re e Legolas -la Gemma del Popolo Elfico- erano come una cosa sola. Persino ora che Denethor -che aborriva le relazioni amorose tra uomini- era salito in carica, i più vecchi favoleggiavano sull’arrivo di una coppia di regnanti, e non di un solo Uomo. Per loro, avrebbe dato prova di essere il legittimo Re non già colui che possedeva il tocco guaritore, bensì colui che avrebbe dato alla Bella Città il radiante Principe Elfico delle antiche leggende.

Fece per dire qualcosa, quando nelle sue braccia Legolas si tese.

Gli occhi spalancati e vitrei, l’Elfo affondò le dita nelle spalle del ramingo, senza fiato. Fissava il ponte di legno ai suoi piedi, ma sembrava che non lo vedesse. Mormorò parole in una lingua che ad Aragorn sembrò l’antico dialetto di Rohan, come in risposta a domande che gli venivano poste da voci senza corpo. Poi,

“No!” urlò, e divincolandosi dalla stretta di Aragorn corse verso la prua, verso l’acqua, il braccio proteso dinanzi a sé verso cose che nessuno vedeva. Aragorn lo catturò per la vita, schiacciandoselo contro il petto, mentre Legolas ancora gridava, dibattendosi, con gli occhi vuoti e versi su orizzonti sconosciuti.

“Fermati! Non farlo! No… NO!

Uno spasmo di dolore. Un gemito.

Legolas cadde sulle ginocchia, privato della forza e della voce. Le sue spalle tremavano, di furia non meno che di dolore. Alzò gli occhi, fiammeggianti come gemme incandescenti, terribili, lucidi delle lacrime che altri occhi non potevano più versare. Il braccio, l’immacolato braccio sinistro, avvampava pulsando per una ferita che un altro corpo aveva ricevuto. A bassa voce ringhiò una maledizione contro Sauron e le sue oscure coorti.

Aragorn si appoggiò a lui, ansando, e guardò i nembi scuri e le fiammate acide che si levavano dal campo di battaglia, appena visibile oltre l’ultima curva del fiume.

Anche i suoi occhi luccicavano, perché, come già l’aveva visto ad Edoras, come l’aveva visto ora l’Elfo, per un istante aveva scorto Éowyn, splendida nella sua armatura da cavaliere, i capelli luccicanti al sole come un vessillo d’oro.

L’aveva vista, si.

L’aveva vista cadere dopo aver ucciso il Re degli spettri; l’aveva vista cadere col volto bagnato di lacrime nella polvere, e rimanere immobile.

Poi, come un lampo, l’altra visione gli tornò alla mente, quella di lei distesa su un giaciglio di bianco lino, debole e pallida, ma col respiro ancora udibile.

“E’ ancora viva,” disse. E la voce di Legolas accompagnava la sua. “Ancora viva.”

Ondeggiando, la nave toccò terra. Lo stridio delle spade che cozzavano. L’odore acre della morte. La caligine ed il fumo nella gola. Lacrime. Sangue. Grida spezzate. Il calore lambente dei fuochi.

Legolas si rialzò come in trance. Guardò tra le ciglia abbassate il colle assolato dove Éowyn  era caduta, lo vide ardere come un isola bianca nella marea di corpi brulicanti. Le spalle curve, le braccia abbandonate sui fianchi, le mani leggermente protese, avanzò verso la passerella. Un guizzo. I capelli alzati al vento. La fredda elsa dei pugnali nei palmi.

Dietro di lui, Gimli con l’ascia dei suoi padri, le schiere dei Dúnedain, Elladan e Elrohir con una stella sulla fronte. Al suo fianco, Aragorn.

“Non sarò con te oggi.”

Aragorn annuì: “Ci rivedremo alle porte della città.”

E Legolas, dimentico di aver giurato di morire alle porte di quella città, annuì, perso in visioni di colei che in quella città ora si trovava. Si voltò di scatto e catturò le labbra di Aragorn con violenza, quasi volesse consumarlo. I Dúnedain emisero il loro urlo di battaglia, alto, possente. Il Mare smise di risuonare nelle orecchie di Legolas. Il solo oceano che vedeva era il guizzo blu e tempestoso che erano gli occhi di Aragorn.

Scese sulla terraferma come un lampo, solo vagamente visibile. A decine caddero in ginocchio lungo il sentiero. Sangue sulle pietre. Sudore sul petto. Sale sulle labbra.

Presto, Orchetti e bestie immonde fuggivano da lui in ogni direzione, urlando, coi volti orribilmente sfigurati dal terrore, calpestati dagli stessi compagni nel tentativo di sfuggire alla luce fiammeggiante che li inseguiva, e Legolas avanzava, e non li degnava nemmeno di uno sguardo, e li abbatteva.

Ad un certo punto, uno degli Uomini Selvaggi gli si scagliò contro in un parossismo di follia. Lo sguardo di Legolas saettò verso di lui, e quello volò all’indietro, come se la rabbia di Legolas si fosse fatta pugno e l’avesse colpito. Similmente, tre Orchetti che lo circondarono furono sbalzati in aria dal semplice movimento di un braccio - rapido, regale, morbido, il gesto imperiale di un principe, o il movimento rapido e sinuoso di un danzatore.

Legolas scoccò frecce e fece roteare i pugnali, mentre lingue di forza invisibile frustavano da lui e gli aprivano la strada.

Non uno dei suoi bersagli si rialzò più.

 

* * * * *

 

Quando infine la battaglia si concluse ed i nemici fuggirono dietro le alture, Legolas si guardò indietro e, sebbene le sue mani fossero immacolate come neve d’alta montagna, dietro di lui si snodava una scia di nemici caduti.

Lentamente si diresse a passo lento verso le porte della città, candido, se non per la guancia chiazzata di sporco, con i capelli come un aureola d’oro attorno al volto.

Aragorn lo vide arrivare, e non poté fare a meno di fissarlo.

Aveva sempre pensato fosse ammaliante quando, mite e nobile, allietava col suo canto i cuori di chi gli stava al fianco. Trovava che fosse di una bellezza indicibile quando, indomito e magnifico, affrontava i suoi nemici. E l’illusione di vulnerabilità che aveva ammantato la sua figura in quel periodo malinconico l’aveva fatto rifulgere ai suoi occhi ancor più di prima.

Ma Legolas preda della furia… ah, quello era uno spettacolo che superava la sua capacità di descrivere la bellezza.

Il suo viso ed il suo corpo erano come quelli di una statua: freddi, candidi come l’interno di una conchiglia, perfetti. Eppure, i suoi occhi brillavano di una luce iridescente, come quelli di una creatura selvaggia. Le mani, immacolate, fiammeggiavano come candide stelle. Attorno a lui sembravano irraggiarsi le trame di un potere argenteo.

Animato della furia, dall’indignazione, Legolas diveniva bello e terribile come la lama di una spada, lucente e letale. E la passione che lo dominava in quel momento, la collera che il ferimento di Éowyn aveva risvegliato in lui, era inarrestabile, indicibile – nel suo fulgore, Legolas brillava di una bellezza accecante. L’incarnazione stessa della vendetta, sensuale e divino.

Ed Aragorn lo guardava, e lo amava, e lo desiderava.

Un coro di voci stupite, mormorii e sospiri si levarono tutt’attorno a loro. Qualcuno cadde in ginocchio. Un vecchio soldato con le guance rugose si tolse l’elmo e recitò un antico canto in un filo di voce.

In silenzio, Aragorn aprì le braccia, e Legolas andò da lui, e si lasciò cingere. Con le membra rigide e fredde, sembrava un santo di alabastro che si fosse destato alla vita nel suo tempio sanguigno. Ed i suoi occhi non erano placidi laghi azzurri, ma abissali voragini fiammeggianti.

Aragorn gli scostò una ciocca di capelli dalla fronte, ma l’Elfo l’ignorava, lo sguardo fisso alla Torre Bianca che giganteggiava tra le nubi oltre le sue spalle. Un fremito nelle ciglia. Un barlume di fiamma.

Avevo giurato di morire qui, così da liberare Aragorn.

Lei sta morendo qui.

Vai da lei.

Da lei.

“Aragorn…” esalò. Fu come se un velo di nebbia si levasse dallo sguardo dell’Elfo. Sbatté le palpebre, ma non diede altro segno di riconoscimento, o pensiero.

Il Ramingo annuì. Gli sistemò il mantello amorevolmente su una spalla. Gli ripulì delicatamente la faccia. Gli lisciò i capelli; gli posò un bacio sulla testa. Quindi, nascondendosi il volto col cappuccio, si avviò ai cancelli a passo stanco.

Legolas non lo sapeva, ne l’avrebbe saputo mai, ma fu per amor suo che Aragorn vinse la sua riluttanza ed entrò in città. Avrebbe usato il suo dono di guaritore per prestare soccorso ad Éowyn, che Legolas tanto amava.

Aragorn svanì alla vista dentro la Città. Legolas chiuse gli occhi.

Per un momento, ebbe davvero l’aspetto di un’inerte icona di marmo. Alabastro. Ghiaccio. Irreale e inanimato. Sembrò un miracolo quando riaprì gli occhi: fu come se un respiro di vita rifluisse in lui e lo rendesse vero. Rilassò le mani. Il collo e le spalle persero la loro rigidità furiosa. Il suo corpo tornò ad essere calda e morbida carne. Un vento spirò, agitandogli i capelli.

Gimli gli si accostò silenziosamente.

“Non possiamo seguirlo?”

Legolas scosse la testa.

“Non ancora. C’è bisogno di noi qui. Vieni.”

 

* * * * *

 

Erano le cinque del mattino, e l’alba più silenziosa da mesi a quella parte.

Nella Casa di Guarigione Legolas, Gimli, Éomer, Elladan e Elrohir, Imrahil il Bello, ed alcuni Rohirrim e Raminghi stavano raccolti dinanzi ad una porta chiusa, e nessuno di loro parlava. Dietro la massiccia tavola di legno scuro, sostenuta solo dal profumo onirico dell’erba athelas e dal tocco gentile di Aragorn, Éowyn lottava per la vita.

 

Confidente nelle capacità del suo amato, Legolas aveva cercato di calmare il suo spirito erratico agendo come già aveva fatto al Fosso di Helm: si era occupato degli altri feriti, cercandoli sul campo, riportandoli indietro, curandoli. Aveva riunito bimbi dispersi ai loro genitori, liberato donne da sotto le macerie dei crolli, rialzato vecchi dalla polvere per accompagnarli al sicuro tra le mura.

Com’era suo dono naturale, senza sapere come, riaccese in loro la speranza.

Senza sapere come, com’era suo dono naturale, li fece innamorare tutti di sé.

Ci erano voluti giorni; poi, improvvisamente, mentre sostava nella frescura di un colonnato tenebroso, Legolas aveva sentito la voce di Aragorn chiamarlo nella sua testa, e si era precipitato al capezzale di Éowyn. Erano passati lunghissimi minuti dal suo arrivo, eppure la porta ancora non si apriva.

L’attesa si stava facendo snervante.

 

La porta gemette sui cardini. Aragorn uscì tra raggi di luce polverosa nel silenzio asfissiante.

Cercò Legolas con lo sguardo e lo vide camminare avanti ed indietro come una belva in gabbia, una figura felina nella tenebra traslucida.

“Come sta?” chiese l’Elfo. La sua voce era preoccupata come lo erano i suoi occhi. Aragorn sorrise suo malgrado.

“Chiede di te.” In un attimo Legolas lo aveva oltrepassato e s’inginocchiava al fianco di Éowyn. La Dama alzò una mano per sfiorargli il viso, e l’espressione estatica del suo volto pareva quella di un quadro. Stanco, affranto, amareggiato e felice, Aragorn sorrise suo malgrado. Lentamente, si chiuse la porta alle spalle e s’incammino verso i Compagni.

 

* * * * *

 

La stanza in cui Éowyn riposava era ampia e fresca, con tre alte finestre ad arco da cui entravano torrenti di luce, e guardava verso quell’orizzonte marino da cui Legolas stesso era giunto giorni addietro. Le pareti erano tappezzate di arazzi in cornici dorate, rappresentanti scene di caccia e festeggiamenti. Dalla penombra dorata emergeva un mobilio semplice e stranamente elegante: mobili di legno di quercia, stipiti e sedie intagliate, pesanti tende color del cielo, ed al centro un letto coperto di candido lino. Ciotole di acqua vaporosa in cui era state sbriciolata l’erba guaritrice stavano tutt’intorno al letto, e tra le volute grigie Legolas scorse Éowyn, e fu travolto da un moto di sollievo.

La Dama stava seduta tra i lini, la snella figura slanciata avvolta in una soffice veste bianca, orlata con delicati motivi floreali. Il suo volto aveva la stessa espressione ferrea e sensualmente distaccata della prima volta in cui si videro, ma subito si illuminò in un enigmatico sorriso, come se quelle che gli stava dinanzi fosse e non fosse Éowyn.

Si lasciò cadere sul cuscino con un sospiro, aprendogli le braccia come una bimba. Legolas sentì il cuore gonfiarglisi in petto e corse da lei, i cui occhi stretti lo seguivano colmi di uno strana luce.

Rimase sdraiata a fissarlo mentre lui s’inginocchiava al suo capezzale, le prendeva per le delicate braccia e deponeva piccoli, veloci baci sulla tenera carne del suo viso, l’insenatura morbida all’interno dei gomiti, i palmi, le dita. Sembrava che in lui si agitasse un qualcosa di tumultuoso, non solo sollievo, ma gratitudine, e forse, pensò lei, senso di colpa. Gli sfiorò il viso dolcemente con la punta delle dita, sorridendo.

 “Tu qui?” chiese infine Legolas. Lei baciò il palmo che le carezzava la guancia. Lo guardò languidamente negli occhi, esausta, e Legolas si sdraiò accanto a lei, cingendole la vita con un braccio. Vide di nuovo qualcosa baluginare freddo nello sguardo di lei, ma non gli diede peso.

“Per te,” sussurrò Éowyn con voce ruvida. Legolas unì le sopracciglia in un’espressione preoccupata e al tempo stesso confusa.

“Non saresti dovuta venire.”

Una risata le sfuggì le labbra pallide. Divertita? Dura? Le sue dita si serrano attorno alla mano di lui, intrappolandola in una morsa gelida, gli occhi le si strinsero lampeggiando come fuochi fatui.

“Avrei dovuto lasciarti morire, allora? Illuso.” Rise ancora. Amarezza nella sua voce. Il tremito di un terrore soppresso.

“Morire?” fece eco lui, tentando di lasciarla andare ma sentendo che non poteva. Lei serrò le labbra in una linea livida, mentre inclinava la testa per fissarlo tra le ciglia abbassate. Tremava come scossa da brividi di gelo, furiosa, distaccata, preda di un dolore terribile eppure fredda come una statua.

Sto svanendo a poco a poco, come ogni Elfo che ama e non è corrisposto. E’ il mio destino. E’ la mia scelta. Nel momento in cui metteremo piede a Minas Tirith, io morirò, e il mio cuore addolorato dormirà per sempre.” recitò lei. Ma quell’inflessione, quella cadenza, quel tono… non più la voce di lei, ma quella di Legolas! La sua voce!

Legolas indietreggiò, ma lei lo seguì. L’espressione sul suo viso si fece ancora più partecipe, quasi feroce,mentre con voce impercettibile diceva contro la sua bocca:

“Come io amo te, tu ami lei, e mentre l’estasi dell’amore è la scintilla stessa della vita di un Elfo, il dolore del rifiuto… equivale alla morte.”

Di nuovo, la sua voce era quella di Éowyn, ma anche quella della Madre che Legolas non sognava più da millenni; la voce dell’amore, e della furia e del dolore; ed anche la voce stessa dell’elfo.

“Cosa…?” balbettò l’Elfo, cercando di reagire all’orrore che gli serrava la gola.

Indietreggiò, boccheggiando, ma lei lo attirò sotto di sé, il seno contro il suo petto, il volto orlato di ombre che aleggiava sopra il suo come un sogno. I suoi capelli contro il viso profumavano di rose e gelsomino e l’odore antico e mistico della Foglia di Re. La piccole spalle nude erano candide nella luce del sole. Le bianche mani che lo premevano giù erano duro ghiaccio inamovibile. La voce, una lama tagliente e calda sulla pelle.

“Ti amerò, e tu mi odierai.”

Ah! L’orrore di sentirle pronunziare tali mortifere promesse! Il sarcasmo, acre, pungente, che si univa nelle sue parole al dolore estremo… come lo feriva! Come l’atterriva! E gli occhi di lei, non erano diventati improvvisamente più scuri, non più colore del ghiaccio, ma colore del mare? Come i suoi?

In un attimo di cristallina follia, Legolas la guardò, e vide sé stesso fissarlo con intensità ardente.

Poi da quegli occhi sgorgarono lacrime, e l’Elfo esalò tremante. Tutto ciò che nel viso di lei gli era sembrato alieno sparì; il tremolio delle sue labbra gli sembrò quanto di più umano potesse vedere in tutta la vita; nel petto che si alzava ed abbassava a fatica contro il suo sentì il pulsare flebile di una mortalità desolante.

“Perché? Perché non me l’hai detto?” gli chiese. Lui le prese la mano, stringendola forte, ed Éowyn si accasciò contro di lui, nascondendogli il viso contro il collo. “Oh, perché non me l’hai detto?” ripeteva. “Stai morendo. Morendo! E non volevi dirmelo? Volevi che un giorno io sentissi il mio cuore spezzarsi, la mia anima venire meno, senza sapere perché? Volevi lasciare ad altri il triste compito di dirmi perché improvvisamente non ero più completa?”

Lui la cinse per la vita con entrambe le mani, girò su un fianco portandola con sé; la strinse, la cullò.

“Non sarebbe stato così. Mi avresti sentito, nella tua mente, dirti addio. Ma dolore… non ci sarebbe stato dolore. Non per te. Non l’avrei permesso.”

“Futili cavallerie,” ribatté lei. “L’avrei sentito.” Una pausa. Legolas sentì le piccole braccia stringerlo con una forza che una donna appena tornata dalla morte non avrebbe dovuto possedere.

“Quando? Quando accadrà?” Lui sospirò. Vide la massa dei capelli di lei, luccicante come oro colato, alzarsi ed abbassarsi col suo petto.

“Non subito: la battaglia finale non è questa, ma la sento avvicinarsi. Aragorn ha dubbi sull’esito della guerra, ma io non ne ho mai avuti. Trionferemo, ed egli sarà Re, il più grande Re che la Terra di Mezzo abbia mai visto, e sua sarà la gloria, e la felicità estrema. Lo so. L’ho visto, come vidi che sarebbe tornato da noi al fossi di Helm.” Fece passare le dita tra i capelli di lei.

“Chiamami diavolo, chiamami egoista, ed avresti ragione: io non sono venuto qui per aiutare la gente della Terra di Mezzo. Non sono venuto qui per debellare la piaga delle tenebre che affligge la povera gente. Ciò che ho fatto l’ho fatto spinto dal desiderio di proteggere la persona che mi sta a cuore, di farla felice.

“Per me null’altro conta, se non lui. E non abbandonerò il suo fianco finché egli non siederà sul trono che gli spetta. Allora, e solo allora, una tragica fatalità colpirà il Principe di Bosco Atro, derubandolo della vita e liberando Aragorn dal tragico Patto che ci lega.”

Sempre stretta a lui, Éowyn alzò la testa, e fissando gli occhi luminosi da gatto in quelli di lui ordinò:

“Dimmi del Patto.”

E con la mente aggiunse, in modo che lui non potesse sentirla:

Ti amerò, e tu mi odierai.

 

 

 

 

       -TBC

 

Du-du-dun-dun! La fine si avvicina

…Beh, detto così pare brutto, ma mi avete capito… ^^;;

Due, Tre Capitoli al massimo, e scriverò la parola fine in fondo a questa saga. Il mio dramma è, come la faccio finire?! o.O

Bene o male? Sarà una bella favola o una triste tragedia? Le cose mi sono un po’ sfuggite di mano –come con tutte le mie fic, d’altronde- ed in questo momento, ne so quanto voi…