.|. The Matrix .|.

 

6. Da Moria a Gran Burrone

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Avvertimento: lo dico subito, così che non pensiate che sono impazzita, da questo capitolo comincerò a stravolgere tutta la storia della Terra di Mezzo così com’è conosciuta, perché questa fic è un AU.

 

La notte successiva Legolas e Aragorn sbarcarono non lontano dalle Montagne Nebbiose e vi si diressero camminando sotto un cielo coperto di nubi che impediva la vista della luna e delle stelle. A metà strada fecero una sosta per permettere ad Aragorn, non ancora abituato a sforzi prolungati, di riposarsi. Il Ramingo si sedette su una roccia distendendo le lunghe gambe e rovesciando la testa all’indietro per guardare il cielo.

“Che peccato che sia nuvoloso, avevo voglia di rivedere la luna e le stelle.”.

“Raramente questa coltre si dirada,” ribatté Legolas. “Anche di giorno. Viviamo in un chiarore crepuscolare che improvvisamente si trasforma nelle tenebre più cupe. Ogni tanto, dei venti provenienti da ovest le disperdono, ma poi tornano sempre.”.

Aragorn guardò l’elfo che sospirava, come rassegnato, e ricordò come aveva guardato le stelle e l’alba al loro primo incontro e disse: “Gli uomini sono privi di destino se il mondo è privo di astri[1]”.

“Non solo gli uomini,” mormorò l’elfo. “Rimettiamoci in cammino.”

I due camminarono per un po’ in silenzio, poi Aragorn chiese: “Parlami un po’ di questo regno nanesco.”.

“Moria esiste da molti secoli, ma è stata riconquistata dai nani solo sessant’anni fa,” esordì Legolas. “Dopo che gli orchetti se ne erano andati era diventata la tana di un drago che, su incarico di Sauron ne custodiva il tesoro. Ma con l’andare del tempo l’Oscuro perse interesse per quei gingilli, che erano tuttavia un immenso ricchezza, ed allora i nani, guidati da Thorin Scudodiquercia attaccarono il drago e dopo una grande battaglia il drago fu ucciso e la sua carcassa data alle fiamme.

Da allora Thorin regna sui nani, perché si sono riuniti tutti qui sotto il suo scettro, e tiene rapporti diplomatici anche con gli elfi.”.

Mentre Legolas riassumeva la situazione politica di Moria i due viaggiatori erano giunti alle pendici delle montagne, davanti a una liscia parete di roccia grigia, che l’elfo dapprima scrutò intensamente e poi cominciò a percorrere con le mani in cerca di qualcosa. Aragorn guardava l’elfo dubbioso: cosa sperava di trovare su quel muro anonimo. Improvvisamente l’elfo lanciò un’esclamazione di trionfo muovendo i polpastrelli su un punto del muro, che ad Aragorn non pareva avere nulla di speciale, ed estrasse da una tasca una lucida gemma verde che appoggiò nel punto misterioso che aveva individuato. Improvvisamente dalla gemma partirono diversi fili lucenti che disegnarono i profili di un cancello finemente intarsiato che risplendette nell’oscurità e poi lentamente cominciò ad aprirsi.

Dietro al cancello apparvero tre nani robusti, con lunghe barbe e pesanti asce, che accolsero i due con la cortesia pomposa e rigida della loro gente, alla quale Legolas rispose con frasi di circostanza, mentre Aragorn era ancora troppo stupito per riuscire a dire qualcosa.

Quello che sembrava il più giovane dei tre si rivolse direttamente all’elfo dicendo: “Ebbene Legolas è costui la persona che devi condurre con tanta premura da sire Elrond?” E squadrò Aragorn come se si fosse aspettato qualcuno di più impressionante: era solo un comune uomo!

“Si, Gimli, amico mio,” rispose Legolas serio. “Ti voglio presentare Aragorn figlio di Arathorn.”.

Il nano fece un secco gesto di benvenuto al Ramingo e si rivolse nuovamente all’elfo: “Allora andiamo! È un viaggio di quattro giorni fino all’altra parte, spero che non dovremo fare troppe soste!” E lanciò un altro sguardo poco convinto all’uomo.

Aragorn che nel frattempo si era ripreso dalla sorpresa cominciava ad essere seccato dalle parole del nano, e soprattutto dalle sue allusioni, e stava per rispondergli per le rime, quando sentì Legolas che gli sfiorava una mano, allora guardò l’elfo e vide che sorrideva divertito e capì che il nano non aveva voluto essere maleducato, ma che era semplicemente la sua natura.

Il Ramingo si incamminò con Legolas al seguito di Gimli per le lunghe gallerie, illuminate da centinaia di lampade, del regno dei nani, e per un attimo l’uomo afferrò la mano dell’elfo e la strinse nella propria: sapeva che durante viaggio non avrebbero potuto fare molto di più.

 

Il viaggio attraverso Moria fu lungo e monotono, anche se Gimli era una buona guida  sempre pronta ad illustrare le ultime migliorie apportate dai nani al loro regno, Aragorn era stufo di stare sottoterra e si chiedeva come facesse Legolas a sopportarlo: si ricordava con quanto rapimento aveva guardato il cielo. Nonostante le parole di Gimli riguardo alle soste, erano stati predisposti lungo tutto il cammino, che dovettero seguire, dei punti in cui fermarsi a riposare e a ristorarsi.

Durante una di queste soste Aragorn, i cui rapporti con il nano erano notevolmente migliorati, al punto che quest’ultimo gli aveva prestato una delle sue pipe e del tabacco, chiese a Gimli di narrargli tutta la storia della riconquista di Moria, o Kazad-dum come la chiamavano i nani. Il nano fu lieto di raccontargli tutta la storia con dovizia di particolari, tanto più che suo padre, Gloin, era stato uno dei compagni partiti con Thorin per quell’impresa. Il Ramingo ascoltò la storia con grande interesse, ma la sua curiosità maggiore verteva sul drago e soprattutto sulla sua morte.

“Chi fu che lo uccise,” chiese “e come?”.

“Ah!” rispose il nano mentre una luce maliziosa gli passava negli occhi scuri. “Dovresti rivolgere questa domanda al tuo compagno di viaggio, dopotutto ha scoccato lui la freccia che ha ucciso il drago!”.

Aragorn era così stupito che per poco non gli cascò la pipa dalla bocca e si voltò verso Legolas, che si era seduto all’altra estremità del tavolo per stare lontano dal fumo, e vide che era arrossito dall’imbarazzo e aveva chinato il capo per contemplarsi, interessatissimo, le mani.

Gimli, vedendo che aveva messo in imbarazzo l’amico con quella storia, si allontanò con la scusa che doveva conferire con le guardie e lasciò i due soli nella stanza. Aragorn sorrise, e dopo aver spento la pipa, andò a sedersi sulla panca accanto all’elfo, gli circondò la vita  con un braccio, tirandolo a se, mentre con l’atra mano gli sollevava il viso e, guardandolo negli occhi, sussurrò: “Avrei voluto vederti, mentre tendevi il tuo arco e scoccavi la freccia contro quel mostro gigantesco, che volava seminando il terrore e sputando fuoco. Avresti dovuto raccontarmelo tu!”. E senza lasciare all’elfo il tempo di ribattere lo baciò con passione, spingendo la sua lingua nella sua bocca, fresca come il vento che passa su un prato in primavera. Legolas, benché colto alla sprovvista e conscio del fatto che Gimli poteva tornare da un momento all’altro, si strinse con forza all’uomo, rispondendo con uguale impeto al suo bacio, mentre sentiva che il desiderio saliva come un fuoco a bruciare il suo corpo e la sua mente. Quando Aragorn si staccò da lui cominciò a recuperare quel po’ di ragione che gli permise di sciogliere il Ramingo dal suo abbraccio e di spostarsi da lui, lungo la panca, di almeno un paio di spanne per cercare di ritrovare il resto della sua dignità, cosa quanto mai complicata dal fatto che l’uomo continuava a fissarlo sorridendo e poi sussurrò: “I nin bein dagir o lhug...” (il mio bell’uccisore di draghi).

A queste parole Legolas ridacchiò e rispose: “Guarda che il drago era solo uno!”.

Proprio in quel momento tornò Gimli e ripresero il viaggio.

Alla fine del quarto giorno di viaggio giunsero all’uscita sul lato opposto delle miniere, dove salutarono Gimli, e si incamminarono sotto la solita coltre di nubi per raggiungere gli inviati di Elrond che li aspettavano con i cavalli.

Aragorn, approfittando fatto che erano di nuovo soli, ricominciò ad interrogare Legolas sul suo scontro col drago, ma l’elfo continuava ad essere piuttosto reticente sull’argomento.

“Insomma Legolas!” Sbottò seccato il Ramingo. “Si può sapere cosa ti prende?”.

Legolas, se possibile, assunse un’aria ancora più sfuggente e mormorò: “Non lo so, ma mi fa sentire a disagio trovarmi così al centro dell’attenzione, è...”.

L’elfo non riuscì a finire la frase che si trovò scacciato tra il tronco di un albero e il corpo dell’uomo, che lo fissava con una luce maliziosa negli occhi e gli mormorò: “È un vero peccato, dagir o lhug (uccisore di draghi), perché a Gran Burrone sarai al centro di tutte le mie attenzioni, e credo che non ti permetterò di sottrarti all’impegno!”.

Legolas sorrise, quella situazione folle gli piaceva ogni giorno di più, e mormorò: “A Gran Burrone, ma per adesso è meglio che ti sposti, stanno arrivando le nostre guide.”.

Dopo pochi minuti divennero visibili anche agli occhi del Ramingo due cavalieri vestiti di grigio in sella a cavalli dello stesso colore e con al seguito altre due cavalcature, una bianco e l’altra nera. Quando furono più vicini il Ramingo poté vedere che i due cavalieri erano Elladan ed Elrohir e li salutò, felice di vedere due volti conosciuti, e anche i cavalli. Il cavallo bianco era quello di Legolas e si chiamava Loss (neve), mentre per lui avevano portato quello nero: Amrod (viaggiatore).

Il viaggio fino a Gran Burrone fu rapido e piacevole e Aragorn mentre seguiva la strada che portava verso la valle pensava che mai avrebbe dimenticato l’attimo in cui dal bordo di un crepaccio, una sera, aveva scorto per la prima volta la casa di Elrond.

 

[1] M. Yourcenar, Fuochi.