.|. Wound (il Dono degli Uomini) .|.

3. Crainte

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Lo amava, e gli faceva paura.

Aveva cominciato a fargli paura giorno dopo giorno, da quando ogni notte si abbracciavano appassionati ed entrava in lui, e godeva nel suo corpo in una febbre, mordendosi il labbro mentre lo stringeva nella mano, e lo faceva venire.

Succedeva di notte, quando con le truppe tornavano dalle azioni, e rimanevano soli.

 

C’erano stati molti scontri, in quei giorni, con le bande di orchi e Uruk-hai disseminate da Sauron per la terra di Rohan.

E negli occhi di Legolas, nel combattimento, c’era una determinazione nuova, diversa, da quando si erano giurati amore a Edoras. Nel movimento agilissimo e veloce del suo corpo nella mischia c’era un coraggio indomabile: ma un coraggio che sembrava temerità, che sembrava una sfida alla sorte.

Legolas era stato sempre un guerriero valoroso, lo ammiravano tutti. Eppure da allora il suo eroismo aveva assunto un carattere di audacia quasi eccessiva, come se cercasse le situazioni più pericolose, come se non facesse il minimo conto del rischio di venire ucciso. Come se la cosa non potesse fargli del male. Come se la desiderasse, si sarebbe detto, in certi momenti.

 

Lui se ne accorgeva, e aveva paura.

 

Un giorno, durante uno scontro più violento degli altri, non aveva fatto altro che sorvegliare Legolas, combattendogli vicino per evitare che facesse pazzie. Era come se lo sentisse, quel giorno, che avrebbe avuto bisogno del suo intervento.

E infatti era successo, all’improvviso. Lo aveva visto lanciarsi da solo all’inseguimento di un Uruk-hai che fuggiva, ormai lontano, e gli era corso dietro con tutte le sue forze, pensando di non farcela, perché Legolas era in grado di distanziare chiunque. Aveva percepito che c’era qualcosa di strano, in quella fuga di uno solo, mentre il gruppo degli orchi restava lì, a combattere.

 

E aveva avuto ragione: era una trappola.

 

Era arrivato appena in tempo, in mezzo a quella radura dove il compagno si era fermato, scrutando dentro il fitto del bosco, senza accorgersi, per un istante, delle frecce puntate da ogni parte contro di lui. Gli era andato addosso fulmineo, senza rumore, e lo aveva spinto dietro un masso appena in tempo per salvarlo. Una pioggia di colpi si era abbattuta contro il loro riparo.

Allora dalle sue labbra era uscito il grido di battaglia che conoscevano tutti, anche i servitori di Sauron, e i nemici in agguato avevano capito, da quel grido, che avevano davanti Aragorn.

Avevano sentito il galoppo della retroguardia di Rohan che accorreva in aiuto, ed era bastato questo a farli scappare.

Si erano ritrovati soli, a terra dietro a quel masso, con l’affanno nel respiro e la consapevolezza di essere stati a un passo dalla morte.

Aveva afferrato Legolas per le spalle, sopra di lui, e lo aveva scosso con forza.

“Cosa volevi fare?”, aveva gridato completamente fuori di sé. “Vuoi ucciderti?”

Poi lo aveva guardato con gli occhi lucidi: “Vuoi che io muoia di dolore?”, aveva detto piano, tremando.

Legolas lo aveva fissato con la disperazione nel volto, e non era riuscito a trattenere il pianto.

Si era chinato fino al suo viso, allora, in un empito furente e tenero, e lo aveva baciato come perdendosi, senza dargli il tempo di riprendersi, e di parlare.

 

 

*

 

Cosa accadeva? Cosa gli era accaduto?

Perché quella passione, quell’amore travolgente che si era impadronito di loro, e aveva dato a entrambi per la prima volta la percezione della vera felicità, sembrava facesse soffrire Legolas? Sembrava consumarlo lentamente, e di un male che accoglieva quasi con gioia, con una gioia dolorosa?

 

Non lo sapeva.

Eppure, in qualche modo, era come se lo sentisse, se ne avvertisse le ragioni profonde.

Come se fosse intimamente cosciente di una condanna, e non volesse guardarla.

 

Era rimasto in silenzio, senza affrontare l’argomento, a lungo.

Non poteva affrontarlo.

 

Si abbandonavano, così, l’uno all’altro, quasi non riuscendo a parlarne.

Si lasciavano andare al conforto delle braccia con cui si tenevano, delle mani che stringevano la carne, del respiro sopra la pelle e dei sensi desti per ore, in veglie estenuanti sconvolte dalla passione, e dall’oblio del piacere che si donavano, ogni giorno. Ogni notte.

Erano diventati quasi ansiosi, frenetici, i loro incontri.

Come se ogni volta dovesse essere l’ultima.

Lui era diventato veemente, quasi aggressivo, quando stringeva Legolas.

Legolas che gli si arrendeva completamente. E in quella resa totale, piena di languore e abbandono, lo rendeva ancora più ardente, aspro, nel prenderselo.

Stringerlo gli faceva perdere la ragione, era come impazzito. Ed il cedere caldo e intensissimo del suo amore nutriva come un  fuoco quella pazzia.

 

*

 

“Non fermarti... non...”

Il grido che gli era sfuggito dalle labbra. Non lo aveva quasi sentito, il proprio grido mentre veniva.

Era stato come se uscisse da sé, mentre l’orgasmo lo scuoteva come mai gli era accaduto prima. All’improvviso, senza che riuscisse a percepire più niente, solo il suo ventre e il calore che vi divampava, e la carne tremante e forte dei fianchi di lui avvinghiati dalle dita contratte, in uno spasimo. Era stato un grido innaturale, quasi feroce, inciso sul suo petto da labbra brucianti, e la sensazione del pulsare ritmico, involontario, del suo corpo dentro quel corpo. Aveva avvertito una sferzata di piacere percuotergli le membra, così profonda da essere insopportabile, e la percezione acutissima e stordita del seme che prorompeva, un getto violento, interminabile, un altro.

Lo aveva stretto così tanto che sulla pelle di Legolas erano rimasti i lividi delle sue mani serrate, e i suoi capezzoli si erano induriti al  contatto con la saliva umida, uscita dalle sue labbra insieme a quel grido.

 

“Oh... resta... ti prego...” gli aveva sussurrato Legolas, premendo le mani sulle sue, mentre lo sentiva scivolare lentamente fuori dal suo corpo, stringendogli ancora il bacino.

Non aveva più nozione di nulla, eppure si era fermato, a quella richiesta che era come un comando sommesso. Gli  era rimasto addosso, ansando, stremato e scosso dalla sensazione del sesso di lui, duro contro il suo ventre, delle dita che s’infilavano tra i capelli.

“Amore...” aveva risposto, con gli occhi chiusi, abbandonandosi a quelle carezze.

Poi non ricordava bene.

Era sprofondato nel giaciglio, e Legolas, scivolando sotto di lui, lo aveva lasciato andare. Ma lo aveva coperto col suo corpo, subito dopo, e carezzato con la sua pelle.

Gli aveva baciato lentamente le spalle, scaldandolo col respiro, percorrendo lieve la sua schiena.

Si era stretto a lui da dietro, eccitato e dolce, continuando a baciarlo pianissimo sulle spalle mentre il  suo corpo si arrendeva a  quelle labbra, alla lingua che lo sfiorava.

Era sceso fino al bacino, tormentandolo con la bocca, insinuandosi tra le cosce, risalendo ancora. E con le mani gli aveva aperto lentamente i glutei e aveva iniziato a lambirlo intorno, a leccarlo più intimamente, più decisamente.

“Legolas... ti prego...”

Ma non aveva avuto respiro, perché la bocca di lui lo invadeva, lo prendeva, impadronendosi di ogni piccola parte del suo corpo, senza dargli tregua. Aveva sentito il desiderio montare ancora, inaspettato, e aveva ricominciato a sospirare, a implorare, sempre più abbandonato, sconvolto da quei colpi intensi e ardenti. Lo aveva sentito spingersi dentro, sempre più forte, quasi lo stesse amando così, come volesse possederlo con la bocca, col movimento ritmico che aveva trovato subito e non abbandonava un istante, entrando e uscendo da lui, facendolo godere ancora, incredibilmente, quasi fino a farlo venire di nuovo.

Non ricordava, perché era arrivato al culmine del piacere, e si era sentito mancare.

Poi, all’improvviso, lo aveva avvertito alzarsi in un soffio, e salire sulla sua schiena, bloccarlo e infilarsi tra le sue gambe tenendolo aperto piano, spingere appena il sesso eretto contro di lui. Gli si era posato contro, muovendosi lentamente.

Aveva perso il lume della ragione.

“Oh, sì... Legolas... sì...”

Lo aveva detto in un gemito, sorpreso e ansioso, mentre il  corpo del compagno si spingeva verso di lui, come se stesse per penetrarlo. Aveva sentito il suo ansito:

“Voglio sentirti anch’io... anch’io... voglio entrarti dentro...”

Era impazzito di piacere e d’amore, allora, e si era abbandonato completamente a quella pressione, preparandosi ad accettarlo con tutto se stesso, come non era mai accaduto fino a quel momento. E Legolas lo  aveva fatto, pianissimo, tremando. Era entrato solo un poco dentro di lui, strappandogli  un sussulto di piacere e di bramosia.

“Prendimi... di più... prendimi...”, aveva ansimato allora, fuori di sé.

Era stato incredibile, perché lui gli si era spinto dentro in un gemito, a quella frase, e si era sentito penetrare completamente, profondamente. Aveva creduto di morire, di godere nello stesso momento.

Era stato meraviglioso, e non si ricordava di quante volte lo aveva implorato di affondare ancora, di spingere nel suo corpo. Lo aveva guidato con le sue grida di piacere, insegnandogli il movimento, inarcando il bacino contro di lui, accogliendolo, finché dalle labbra di Legolas avevano cominciato a uscire lamenti ansiosi, mentre invocava il suo nome.

Allora aveva controllato il suo ardore, trattenendolo dentro sé e rallentando il ritmo per non farlo venire, perché ogni volta che lo sentiva affondare nel suo corpo ne provava un piacere immenso, che non voleva finisse mai.

Lo aveva guidato anche in quegli istanti, così, facendosi penetrare a lungo, completamente abbandonato alla sua spinta, al godimento incredibile che gli percorreva il ventre a ogni affondo, a ogni arretrare di lui.

E alla fine, quando non era più riuscito a resistere all’intensità del piacere, aveva dato un grido e si era afferrato il sesso con la mano, muovendola per arrivare all’orgasmo mentre il compagno lo possedeva: e subito aveva sentito la mano di Legolas coprire la sua, accompagnarlo in quel movimento, farlo venire, e tremare, avvolta su di lui, bagnata, mentre il suo corpo dava un’ultima spinta, e godeva nello stesso momento.

 

*

 

Erano caduti uno accanto all’altro, tremanti ed esausti, avvertendo il calore dei propri corpi vicini, e la pelle imperlata di sudore. Si erano stretti fortissimo, nudi su quel letto. E si erano baciati languidamente, con lento trasporto, intrecciando piano le lingue.

“Voglio farlo così fino alla fine dei miei giorni”, aveva mormorato, e Legolas lo aveva stretto di più, come se avesse un poco freddo.

“Ti amerò come tu vuoi, mio signore, fino alla fine dei miei giorni”, gli aveva detto con gli occhi chiusi, premendo il viso sulla sua guancia.

Aveva tirato la coltre fino alle sue spalle, per scaldarlo.

 

*

 

Eppure non era guarito.

Non era guarito, non aveva trovato la serenità, la pace, nel loro amore. Continuava a rischiare la vita assurdamente, tutte le volte.

L’abbandono con cui si lanciava nella battaglia era spavaldo e senza controllo, era lo stesso che lo scioglieva tra le sue braccia, quando restavano soli, sempre di più. Più audacemente si metteva in pericolo e più sfrontatamente, poi, si offriva ai suoi abbracci, gli chiedeva di tenerlo, lo eccitava.

Piangeva e gridava di piacere, mentre lo prendeva e lo accarezzava, e sembrava lo provocasse continuamente, non solo nei gesti d’amore, ma anche nel modo in cui combatteva, di giorno. Come se volesse indurlo ad andargli addosso e fermarlo, a fermarlo e spingerlo a terra, impossessarsi di lui.

 

Lo aveva anche fatto, una volta.

Se lo ricordava bene, perché era furente, e aveva perso il controllo. E per questo, forse, era stato così tremendo e bellissimo.

Lo ricordava, perché era notte, e lo aveva salvato uccidendo ancora, scagliandosi con la spada contro i nemici in mezzo alle rovine dell’antica città.

Un’altra follia, un’altra imboscata. Un’altra volta il terrore di vederlo morire.

Aveva guardato i corpi sul terreno, abbattuti dalla sua spada, e il volto pallidissimo di Legolas illuminato dalla luna azzurra. Un’oscurità cieca era scesa sui suoi occhi, e aveva gettato a terra le armi, aveva gridato da solo nella notte, trasmettendogli tutta la sua angoscia. Gli era andato contro furente, e gli aveva preso le braccia da dietro, lo aveva bloccato e lo aveva stretto, spingendolo dietro un muro.

“Cosa vuoi? Cosa vuoi?”, aveva mormorato roco al suo orecchio, premendolo forsennatamente contro la pietra, senza ottenere risposta. Solo gemiti, e il suo corpo che si arrendeva.

“Cosa vuoi che faccia?”, aveva gridato stringendolo fino a fargli male. “Che cosa?”

Legolas non l’aveva detto, e si era abbandonato ansimando, le labbra contro la parete ruvida, fredda, gli occhi spalancati, il bacino incollato alla pressione del suo, alla sua spinta rabbiosa. Le braccia avevano rinunciato a ogni resistenza, strette nella morsa di quell’abbraccio.

Era uscito di senno, e si era slacciato in fretta e gli aveva allontanato i vestiti quasi strappandoli, e l’aveva tenuto fermo contro quel muro, lo aveva penetrato subito, facendolo gridare. Lo aveva sbattuto più volte contro il muro, in un furore sordo, mentre i suoi assensi e i suoi gemiti di piacere lo trascinavano fuori di sé, mentre intorno non contava più niente di ciò che c’era, e non contava nemmeno il rischio che accorresse qualcuno, nemico o amico, a sorprenderli.

Lo aveva posseduto in preda alla furia, come se volesse punirlo, e volesse amarlo, e non perderlo, non perderlo mai, e si era spinto dentro il suo corpo premendo la sua pelle nuda contro il muro scabro che lo graffiava. Aveva affrettato incredibilmente il ritmo per venire, e con una spinta suprema si era riversato in lui in un gemito quasi animale, e facendolo lo aveva tirato contro di sé afferrandogli il bacino, toccandolo, e le mani erano state riempite dal suo orgasmo, all’istante.

 

 

*

 

 

Ma dopo che erano tornati indietro, al sicuro nel palazzo di Théoden, non era riuscito a parlargli per giorni, tanto era il dolore che lo invadeva.

 

Legolas lo aveva cercato, lo aveva pregato di perdonarlo.

 

E alla fine, dopo che troppo a lungo aveva resistito a quella preghiera, dopo che troppo tempo era trascorso senza che lo stringesse, si era rifugiato nella loro stanza per l’ultima notte, senza impedire che lo seguisse. E aveva pianto davanti a lui.

 

“Estel, ti prego... ti prego, non farlo. Perdonami...”

Il tono della sua voce era affranto, mentre lo implorava, accovacciato davanti a lui che restava seduto sul letto, e piangeva. Posandogli il viso sulle ginocchia.

 

Si era sentito sfinito, come non riuscisse più a sopportare di vivere.

“Perché, Legolas? Perché?”

Si era lasciato prendere le mani tra le sue, e aveva avvertito le lacrime calde bagnarle.

“Non capisci, Legolas? Non capisci? Io non voglio che tu muoia. Non posso sopportare di perderti, non ce la faccio...  Per tutta la vita ho perduto ogni cosa abbia incontrato, ogni persona abbia amato, o soltanto desiderato di amare... E adesso, a ogni tua azione, è come se mi dicessi che perderò anche te, proprio te che sei più importante di tutto. È come se tu avessi paura di essere felice con me, come se sapessi di dovermi lasciare. E preferissi morire, allora, abbandonarmi. Perché vuoi abbandonarmi, Legolas? Perché vuoi che affronti questo? PERCHÉ?”

“No... cosa dici Estel... Io non voglio abbandonarti! Non lo vorrei mai...”

“E allora perché cerchi di morire ogni volta che usciamo da questo palazzo? Ogni volta che combattiamo? Io mi sono ritrovato a temere la luce del giorno, e gli spazi aperti fuori di qui, perché ogni volta che sorge il sole penso che sia l’ultima che ti vedrò, e ogni battaglia l’ultima che combatteremo, per sempre... per sempre...”

“No, Estel... io ti amo... ti amo...”

Lo aveva stretto quasi con rabbia, e con dolore.

“E allora non condannarmi a questo destino, Legolas. Non condannarmi al mio destino, ti supplico... Io ti lascerò andare, se amarmi ti rende infelice, se ti fa desiderare la morte. Lo farò... se questo ti ridarà la pace. Posso sopportare che tu mi lasci, se lasciarmi ti restituirà a te stesso. Ma non posso, non posso sopportare che tu muoia per me. Lo capisci, Legolas? Lo capisci? Anch’io ti amo, anch’io...”

Aveva nascosto il viso tra le mani, piangendo, cercando invano di trattenere i singhiozzi.

 

“Estel, perdonami...”

Legolas, improvvisamente sconvolto, lo fissava, gli sfiorava il  viso. E avrebbe voluto fermarlo in ogni modo. Sembrava avesse compreso tutto, e che il suo pianto, le sue parole, gli avessero aperto gli occhi come mai era accaduto prima. Sembrava immensamente pentito di ciò che aveva fatto.

“Perdonami Estel... perdonami... sono stato egoista e folle... Avevo paura del mio destino e lo cercavo, e non vedevo che in questo modo determinavo anche il tuo... Perdonami, io avevo paura di non saper morire, e non ho compreso che con le mie azioni ti spingevo ad aver paura di vivere...”

Lo aveva abbracciato, fortissimo, aggrappandosi a lui, alle sue spalle. Gli si era seduto in grembo e lo aveva baciato piangendo.

“Abbracciami, abbracciami Estel...”

Lo aveva baciato ancora, le lacrime che gli rigavano il volto.

“Non sarà più così, te lo prometto. Non farò più questo errore. Io sono forte, e sarò forte per te. Sarò ciò su cui potrai appoggiarti, come tu lo sei per me, lo sei stato da sempre. Noi troveremo la forza insieme, te lo giuro...”

 

Aveva accolto il suo corpo e quella stretta, e il conforto che gli dava. Ma il cuore era straziato ancora.

Lo aveva fissato, con gli occhi lucidi.

“La forza... La forza per fare cosa, Legolas? Cosa? Dimmelo, ti prego. Tu parli del tuo destino, ed è un destino che dovrà separarci, lo sento. Io lo sento che è questo che hai nel cuore, da tanto tempo. Perché, Legolas? Perché dobbiamo separarci? Io riesco a vivere solo perché tu ci sei, adesso, da quando ti ho trovato. Mi sento come se tutta la strada che ho percorso fino ad oggi, tutto quello che ho detto e fatto nella mia vita, sia stato compiuto con un unico scopo, quello di arrivare a te. E tu invece parli di trovare la forza, di affrontare la sorte. Dimmi perché, Legolas. Dimmi che cosa sai. Dimmi cosa hai visto in quel maledetto specchio, ti prego...”

 

Lui gli si era stretto contro teneramente, e gli aveva posato le dita sulle labbra, piano. Non lo aveva mai visto così. Il suo signore, il suo re. Così disperato, così scoperto.

“Non parlare, meleth-nîn... non parlare... Io non posso dirtelo... Ma non perché debba nasconderti qualcosa, solo ora lo capisco, soltanto ora... Non c’è niente che debba dirti, perché lo specchio di Galadriel mostra tante cose, e non sono solo cose che avverranno, scritte già nel futuro di ciascuno di noi. Spesso sono le cose che potrebbero essere, quando ci troveremo davanti a un bivio e dovremo scegliere. Le immagini delle nostre paure, delle nostre incapacità e debolezze. Ma non c’è il destino, nello specchio di Lothlórien, ci siamo solo noi con la nostra necessità di incontrarlo. Adesso l’ho capito... soltanto adesso... perdonami se ti ho fatto soffrire perché non lo sapevo. Noi viviamo il nostro destino, e non importa, non importa cosa avverrà a me, a te, cosa avverrà al nostro amore. L’unica cosa che importa è che abbiamo il coraggio di accoglierlo, e di credere alla felicità che ci dà. In questo momento, giorno per giorno. È questo che restituisce un senso alla vita, soltanto questo. Ora lo so, Estel, ora so perché i Valar vi hanno donato la morte. È lei la misura di ciò che abbiamo, e la prova di quanto vale. Ed è così importante, ciò che abbiamo, che io voglio dividerlo con te, qualunque cosa accada”.

 

Lo aveva baciato sulle labbra, vincendo la debole resistenza del suo viso, del suo cuore ferito.

“Io mi sono legato a te - aveva sussurrato tra i suoi capelli -, e anche questo voglio di te, perché è la cosa più importante di tutte, per poterti amare...”

Parlava a bassa voce, sfiorando lieve la guancia.

 

“Legolas... Legolas, ti prego...”

“Non mi pregare, Estel...”

“No, Legolas, io non voglio che tu scelga questo, per me... Non voglio che rinunci alla vita degli Eldar per condividere la mia sorte: io sono un uomo, sono un mortale... ma tu...”

Lui gli aveva sorriso, allora, ed era all’improvviso un sorriso sereno, inesprimibile, di una saggezza antica in quel volto luminoso, dai tratti di adolescente.

“Io ho vissuto quasi duemilaottocento anni, Estel. E forse, se non ci fossimo mai incontrati, avrei cercato una vita infinita al di là del mare. Sarebbe stata una vita senza dolore, sommersa da una interminabile quiete. Invece ti ho trovato, e in questo tempo di pochi mesi che per la mia gente è nulla, nemmeno un batter di ciglia, ho conosciuto la pienezza assoluta dell’esistenza, e sentimenti ed emozioni che non sapevo neanche esistessero. Mi hanno riempito l’animo, e sono dentro di me tutti, oramai, così come lo sei tu. Come puoi chiedermi di tornare a ciò che ero un tempo, prima di sapere che tu ci fossi, di sapere che ti avrei amato così, e che avrei ricevuto il dono inestimabile del tuo amore? Credi che per me abbia qualche importanza, adesso, una vita eterna che scorra via senza questo? Credi che l’abbia mai avuta?”

“Legolas, io non voglio che tu debba incontrare un destino mortale...”

Gli aveva carezzato il viso, pianissimo. Aveva mormorato, sorridendo ancora.

“E perché no, mio unico amore? Tu mi hai insegnato una cosa dal valore sconfinato: saper morire, se un giorno incontreremo questo, sulla nostra via. Forse io adesso  posso insegnarti una cosa che non sai ancora, che non hai ancora mai appreso, perché sei stato troppo solo, troppo infelice. Posso insegnarti a vivere, Estel. A vivere”.

 

Lo aveva stretto, allora, chinando il capo sopra la sua spalla, con un sospiro pieno di consolazione, e di dolore.

“Lo stai già facendo, Legolas. Me lo stai insegnando, adesso. E da sempre...”

 

L’ultima cosa di cui era stato cosciente erano le sue labbra sul petto, e le dita che s’infilavano sotto le vesti, sulla pelle tremante.