.|. Auckland .|.

by Lady Ninde

Un incontro e un inganno, il desiderio e l’errore e la fatica di vivere, il timore e la fiducia di tentare ugualmente, e trovarsi.

Drammatico/Sentimentale | Slash | Rating NC-17 | One Piece

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Il suo volo è atterrato di pomeriggio, nell’aeroporto di questa città dall’altra parte del mondo. Pista quindici, e una bella giornata da dare ai nervi.

Ma non è per il sole: forse è stato il lungo viaggio a metterlo di malumore. E poi è partito poco convinto, il fatto è questo. L’idea di entrare al posto di un altro, inserirsi in un gruppo che ha già avuto modo di amalgamarsi. E il libro ha appena avuto il tempo di iniziarlo, lui che di solito si documenta per mesi, prima di accettare una parte.

Ha visto il copione, certo. Ma non è la stessa cosa.

 

Per questo ha voluto prendersi qualche giorno ed è arrivato da solo. Non c’è mai stato, in questo paese, e sente il bisogno di acclimatarsi. Di tempo per entrare in relazione, come dice sempre nelle interviste. Col luogo, con le persone. Non è mai stato uno che fa le cose d’istinto.

 

“Tempo per entrare in relazione”: ma come diavolo gli vengono, certe frasi?

Ad ogni modo sono cose che pensa davvero, che i giornalisti ci credano oppure no. L’ultima ha sollevato la penna dal taccuino a mezz’aria, quando l’ha detto, ed è rimasta lì a fissare i suoi pieni nudi con una faccia tra il sorpreso e lo scettico.

Un po’ delusa, anche.

Sorride, dietro gli occhiali da sole. Non è che abbia mai fatto gran conto di quello che si scrive sui giornali di lui. Finché resta entro i limiti, certo.

Poi gli viene in mente che forse questo suo antidivismo è una specie di divismo al contrario, e anch’esso ha il suo posto nel sistema. E ha voglia di una sigaretta, anche se non fuma da tanto.

 

Qui comunque di fotografi non c’è traccia: è stato un bene far le cose da solo. Non gli è mai stato difficile passare inosservato, se vuole. Basta comportarsi come una persona assolutamente normale.

 

Ritira il bagaglio e chiama un taxi. L’autista è gentile: gli chiede di portarlo a un buon albergo, uno qualsiasi, magari dalla parte del mare.

 

 

La stanza è confortevole e senza eccessi. Siede sul letto: le lenzuola sono bianche e profumano di bucato. Il sole da fuori vi si riflette, filtrato discretamente dalla tenda.

Chiude le imposte, e nella penombra si spoglia.

 

*

Sentirsi a volte come se la propria vita fosse altrove, senza sapere in che luogo. Come se i gesti che si compiono in questa non avessero un vero significato. Con addosso la sensazione imprecisa che ciò che si vuole sia altro, ma non ricordarselo bene.

*

 

Chiude gli occhi e a un certo punto è come se il pavimento girasse. Si appoggia a una parete e respira. È il fuso orario, decide.

 

 

***

 

Notte. Una notte di luci al neon sulle strade di questa nuova città.

Cammina lasciandosi ferire gli occhi dal carosello di semafori e insegne che si accendono e spengono, dal brulicare di gente sui marciapiedi e di auto che sfrecciano e sgommano agli stop. L’odore dello smog che si mischia col caramello del chiosco di dolci all’angolo, e lo stomaco troppo chiuso per ricordare che non ha nemmeno cenato.

 

È uscito da solo, e sta camminando a piedi, svoltando a caso per le traverse, seguendo senza uno scopo preciso le mille direzioni in cui la corrente umana si sfalda e s’ingrossa, continua.

Finché la gente si dirada, e capisce che non è più nella zona centrale. Ci sono palazzi alti e finestre opache illuminate di giallo. Al di là degli edifici neri di polvere il rumore dei camion dell’immondizia al lavoro. Non dev’essere la zona residenziale, questo quartiere.

 

Però qui, a livello della strada, ci sono locali, ed entrano ed escono persone che sembrano divertirsi. I buttafuori fumano tranquilli alle porte, e da qualche pub esce il suono di buona musica.

 

*

 

Ha preso una birra, e la sorseggia dalla bottiglia lentamente, guardandosi intorno. Sarà una mezz’ora che è seduto a questo tavolo, e il posto non è male. La musica è alta, molti ridono e parlano, altri ballano sulla pista. Come prevedeva, nessuno lo ha riconosciuto e si ferma a chiedergli se è proprio lui.

Una buona serata, in fondo.

 

La birra però forse non era il caso di prenderla così a stomaco vuoto. È dal pasto in aereo che non mangia nulla. Infatti la testa gli gira leggermente, e ha un vago senso di nausea.

Ma è lo stesso senso di nausea del pomeriggio. E anche di ieri, prima di partire.

Posa la bottiglia vuota sul tavolo e ritrae la mano in grembo. Il lieve formicolare all’inguine gli dà una sensazione piacevole, come il debole stordimento dell’alcol che pulsa lentamente alle tempie. Decisamente avrebbe dovuto ordinare del cibo, insieme alla birra.

Coglione, pensa scettico.

Però così non sta male, alla fine.

 

 

“Scusa, hai del fuoco?”

La ragazza è castana e ha una sigaretta tra labbra senza rossetto.

“Non fumo, mi spiace”.

Lei si siede lo stesso e accavalla le gambe sotto il tavolo, rilassata. Toglie la sigaretta intatta di bocca e lo guarda tenendola tra due dita, con l’aria di una che cerca di ricordare.

“Scusa... ma noi ci siamo già visti?”

Ride: “Beh... questa è una tecnica d’aggancio maschile, di solito”.

Ride anche lei, allora, e interrompe il tentativo di mettere a fuoco la sua faccia: “No, dicevo davvero, comunque. Mi era sembrato di conoscerti, scusa”.

“Scherzi? E di cosa?”

 

Poi però lei si mette a parlare a ruota libera, è anche un po’ brilla. Gli passa un braccio attorno al collo sorseggiando il suo cocktail e gli si appoggia addosso. È carina, in effetti. Sta quasi pensando di portarsela in camera, se le va.

Ma è lui che non ne ha gran voglia, stasera.

No, di fare sesso ha voglia, in realtà. Ma è di nuovo così ovvio, così banale. Quante altre volte è successo? E poi, domani, dover inventare una scusa, dirle ti chiamo sapendo che non lo farà mai... e magari deluderla, dopo averci scopato tutta la notte.

Ma no. Non stasera, non qui.

 

Resta un po’ sulle sue, mentre la lascia parlare. Lei se ne accorge, a un certo punto, ed è anche un tantino seccata, si vede. Ma non commenta. Solo, all’improvviso non ha più molto da dire, e si guarda distrattamente le unghie, osservando la gente in sala.

Poi vede un’amica passare, e si alza.

“Scusa, la stavo cercando da un pezzo!”, dice prima di allontanarsi.

Ride un po’, mentre la guarda andar via: era una vita che qualcuno non lo scaricava.

Resta sempre una sensazione sgradevole, comunque, anche se se l’è proprio voluta.

Torniamo in albergo.

Con un sospiro si passa la mano alla tasca dietro, per prendere il portafogli.

Invece il gesto resta a mezz’aria, e lo sguardo si fissa involontariamente verso il bar.

Non sa nemmeno perché.

 

C’è un ragazzo, che lo osserva appoggiato al bancone con un gomito, con un’aria tra lo svogliato e l’ironico. Sembra lo stia osservando da tempo. Ha degli occhi incredibilmente vivi.

 

 

***

 

Si stanno studiando da qualche minuto, a distanza, ma nessuno dei due fa nulla. Il giovane sorseggia il suo whisky, lui guarda in modo incurante le persone che passano, ma alla fine gli occhi vanno sempre lì, verso quel bancone.

Ha un fisico asciutto e una camicia di cotone scura. Un bracciale di maglia sottile alla destra: chissà perché l’ha notato. Ma l’ha notato, è strano, il modo in cui quel filo d’argento sottolinea il polso, come scivola lungo il braccio quando solleva il bicchiere. Ora dal bar lo sta proprio fissando, lo fissa ancora per qualche istante.

Difficile ammetterlo, ma è tremendamente sexy.

 

Cazzo, saranno vent’anni che non fa un pensiero del genere. Era successo un paio di volte ai tempi della scuola di teatro, quando faceva le sue esperienze. Un compagno di corso gay e qualche notte di sbronza, e si era ritrovato a farselo sul tappeto della sua stanza, respirando forte.

Ma poi si erano divisi, ognuno per la sua strada, e dopo un po’ non ci aveva pensato più.

 

Davvero non ci aveva pensato più.

 

E adesso questo qui chi è? E perché lo sta fissando in quel modo? Ha finito il whisky e si è morso appena il labbro inferiore in un gesto quasi involontario. Ora si volta verso il bancone, dandogli le spalle. Ha dei pantaloni aderenti.

 

 

Gli viene in mente all’improvviso.

Un marchettaro. Ecco cos’è: un marchettaro in cerca di clienti. Ha visto la scena con la ragazza e ora cerca di adescarlo.

Ora che lo ha capito lo guarda con più distacco: figuriamoci.

Ma forse, proprio perché l’ha deciso, adesso la fantasia viaggia da sola e lo sguardo indugia ancora su quel corpo. Gli gira sempre un po’ la testa. Un corpo di ragazzo, riccioli bruni, e un viso di un’innocenza viziata.

Si rende conto che si sta quasi eccitando.

 

‘Fanculo, solo questa ci manca. E doveva arrivarci qui, in un pub merdoso dall’altra parte del mondo.

 

Si alza e gli passa accanto senza guardarlo per andare a pagare il conto. Prende il resto ed esce di nuovo in strada.

 

 

***

 

 

È il sole già alto che picchia sui vetri a svegliarlo. Ieri ha aperto la tenda e non l’ha richiusa. Stringe le palpebre e si gira sul cuscino, la testa pesante e fragile come cristallo.

Disagio sulla pelle accaldata: maledizione, il condizionatore spento.

Ci mette qualche minuto a ricordare, quanto basta per mettere a fuoco le lenzuola sfatte, e i vestiti a terra, e il posto accanto al suo vuoto.

Si alza di scatto a sedere, e una fitta lancinante gli perfora le tempie. Gli viene da vomitare mentre si ripiega su se stesso, con la mano sulla fronte.

 

Fare mente locale è una fatica tremenda: si sforza di mettere assieme i tasselli sfocati dei ricordi che affiorano, ma il senso di nausea gli impedisce di ragionare. Solo immagini, violente, che lo aggrediscono.

Una sigaretta spenta sotto le scarpe, e il sapore di fumo in un’altra bocca. Un vicolo scuro e una mano sfrontata nei pantaloni. L’erezione immediata e impellente e quella mano che la asseconda. Glielo ha succhiato nel vicolo. Glielo ha tirato fuori e glielo ha succhiato, in ginocchio, con prepotenza, agguantandologli le natiche rapido e tirandolo a sé quando ha goduto e gli si è riversato in bocca, con un gemito represso e selvaggio.

 

“Non ti dispiace se fumo io, vero?”

“Non è aria, fila”.

“Sicuro? Te ne potresti pentire”.

E non sa perché, invece, ha lasciato che lo seguisse.

 

Il suo viso tra le lenzuola, dopo. Ha sorriso dolce ed esausto rialzando il capo e abbandonandolo di nuovo sul cuscino. Non fingeva: è venuto veramente mentre lo scopava muovendosi dentro di lui. “Fermo...” gli ha sibilato all’orecchio, bloccandolo e inchiodandolo al letto mentre duro da impazzire entrava gemendo in quella carne arrendevole. “Ti faccio godere”, ha detto in un ansito mentre lo prendeva da dietro, a lungo, tenendolo immobile mentre entrava e usciva da lui. E quando lo ha detto l’ultima volta ha sentito lo sperma caldo sgorgare dal suo pene eccitato nella mano. Lo ha sentito gemere ancora di piacere quando si è alzato in ginocchio e ha continuato a prenderlo, stringendolo per i fianchi. L’orgasmo lo ha fatto quasi gridare, ha goduto pazzamente quando gli è venuto dentro.

 

Ma la cosa che gli è rimasta più impressa è stata il sorriso alla fine.

Ora ricorda, sì... si è svegliato, la notte, e si è ritrovato a dormirgli addosso.

 

È andato via. Chissà quando.

 

 

 

***********

 

 

 

Non è la stessa cosa che stare a New York, passare le giornate qui. Questa città ha un suo carattere, un ritmo particolare. Sembra quasi, a volersi immaginare da fuori mentre si vive, che il tempo scorra in maniera torpida, sinuosa: eppure che le cose succedano tutte insieme, senza progressione di fasi.

È in questa dimensione attutita che ha cercato di riordinare le idee. Non solo per quella sera, che gli ha devastato il morale, anche se nel ripensarci lo invade un incongruo e stupefacente rimpianto. Ma per il sapore in bocca: sapore di whisky invecchiato che te la impasta, e che non va via. E sapore di vento, insieme, e di colline bianche di neve, e di uccelli che gridano nell’azzurro.

È strano, stranissimo.

 

Sono passati solo pochi giorni, in realtà. L’eventualità di cercarlo di nuovo non l’ha neanche presa in considerazione, e per non tornare a pensare che non ne conosceva nemmeno il nome si è messo a leggere il libro, concentrandosi tutto su quelle pagine.

È un bel libro, con una gran bella storia. Da quanto tempo aveva bisogno di una storia come questa. Parla di lotte, e di scelte, e di carattere e bene e male. Ma non è quel che sembra: non è come se fossero separabili facilmente, bene e male. Il bene è lì, anche se pare costantemente altrove, e si deve in fondo solo allungare la mano per raggiungerlo. Ma nessuno ha la forza per fare un gesto così limpido e piano, e bisogna combattere una guerra atroce, allora. Perché anche i cuori più grandi sono tormentati dal dubbio, e dalla paura.

È una storia sul coraggio, e sulla virtù, e ha capito che gli piace quel ruolo per cui l’hanno chiamato: è così che si è sentito spesso, nella sua vita. Proprio così. O forse è così che avrebbe voluto sentirsi. Anche adesso.

 

Legge e non cerca di incontrare qualcuno, di conoscere gente. Fissa il cuore e la mente sul libro, ogni giorno. Solo la sera, quando dal colore del cielo capisce che si prepara il tramonto, interrompe e lo posa, e va fuori a camminare. Verso il porto, dalla parte del mare, nei toni rosati che la luce stempera sulle nubi, mentre i gabbiani gridano sugli alberi delle imbarcazioni. Siede su una banchina, e chiude gli occhi qualche minuto.

 

 

***

 

 

Ma è stata solo una pausa breve, l’interstizio tra due momenti della stessa necessità di fronteggiare l’avvicendarsi dei giorni. Si ha una strada ed un nome e delle cose da fare. Il suo, di impegno, è importante, e non può attendere più.

 

 

 

 

*************************

 

 

 

 

Certo, a vederlo così, con i sandali e la tazza di tè in una mano che si agita sul copione, questo regista è una cosa che incuriosisce. Si rende conto di aver pensato, di primo acchito,  che dev’essere un matto o un genio. Ma ora lo sta ascoltando perché si è concentrato sulle cose che dice, e su se stesso nella sua storia.

Gli piace, lo segue per il set volentieri, e si fa mostrare le ambientazioni, le macchine, in un giro ampio e fitto di cose da imparare velocemente. È attento, e non si scompone quando gli annuncia che adesso andranno dagli altri.

“Ti presento il resto del cast”.

 

 

Sono in corso le prove del trucco, quando ci arrivano. C’è una gran confusione di attori e addetti. Alcuni li conosce, e li saluta, altri gli vengono incontro. Un bel gruppo, e si presentano in modo affabile, come del resto cerca di fare lui.

 

 

Poi ho visto te, e ho capito subito che eri tu, anche se sembravi irriconoscibile, con quella parrucca bionda e le lenti azzurre.

Non ho sentito più nemmeno la voce che ti presentava, mentre ti tendevo la mano per stringere la tua e rimanevo a metà, col gesto sospeso nell’aria e la bocca aperta, e le orecchie che rimbombavano.

 

“Questo è il nostro giovane collega, di cui tanto si parla come la nuova promessa del cinema”.

 

Non hai sorriso mentre prendevi tu la mia mano diventata di pietra, e la scaldavi nel tuo saluto.

 

“Non lo conoscevi, vero?”

 

Hai chinato il capo ed hai chiuso gli occhi un momento.

 

“Facile che succeda, con gli attori giovani”, hai detto.

 

Nell’orrore che mi stava serrando alla gola ho pensato senza volerlo alla tua pelle addosso alla mia. Al tuo bracciale d’argento.

 

“Io ti conosco da tanto, invece. Ho visto tutti i tuoi film”.

 

 

 

***

 

 

 

Non so, non lo so davvero perché sono stato così spietato all’inizio. Ti ho tenuto lontano e ti ho scacciato in un modo che avrebbe portato all’odio chiunque. Non ho pensato ad altro che alla paura che tu rivelassi qualcosa, alla rabbia, e a quanto ce l’avevo con te.

 

*

 

Ci ha messo diversi secondi a riprendersi dallo shock e a dissimulare sotto un’aria neutra il turbamento che lo rivolta. È smarrito sotto la faccia senza espressione con cui restituisce il saluto. È sbigottito, è confuso. È impaurito. Lo guarda sorridere.

È arrabbiato, è furente.

 

Ma forse non ha dissimulato poi così bene, perché negli occhi di quel ragazzo il riso si tramuta in sofferenza, e dolore. Si vede che vorrebbe parlare, ma non riesce. Si vede che adesso ha paura anche lui, di non poter più parlare.

 

Bastardo, cosa potevi aspettarti? Tu sapevi fin dal primo momento. Mi hai visto e mi hai preso in giro in quel pub, e in quel vicolo mentre non riuscivo più a dire, e a reagire e a pensare ad altro che non fosse il tuo corpo, e la tua presenza improvvisa nella mia notte. Mi hai ingannato fin da quell’alba nebbiosa, prendendoti i miei gemiti nel mio letto, prendendoti l’abbandono cui mi ero dato, la mia privata controllata follia.

E adesso cosa vorresti, parlare?

 

Abbassa il viso e passa oltre chiudendo le ciglia. L’ultima cosa che vede è quella chioma bionda posticcia. Finta come i suoi occhi, falsa come lui. Vera come la realtà che ha svelato, portandola a galla sui liquami della coscienza.

 

 

 

***********

 

 

 

Autunno.

 

Il primo dei film è quasi alla fine, oramai, e ci si è gettato con una tale intensità da aver tolto il respiro a tutti. Il modo in cui è entrato nel personaggio è incredibile. Sta pensando solo a quello, da mesi, non si toglie nemmeno il costume fuori dal set. Al punto che di lui si dice che sia una macchina, una macchina perfetta, che non commette mai errori. L’ultima volta, quando ha dato lo “Stop”, il regista si è tolto gli occhiali sudato passandosi sulla fronte una mano, e lo ha guardato incredulo, annuendo più volte con una soddisfazione arresa.

 

Lui l’ha visto ogni giorno, da allora. Ci ha recitato insieme mille volte, senza una parola in più di quanto sta nel copione. Con gli altri è amichevole, affabile, ma con lui no. Non gli ha dato niente di sé.

Più niente.

 

E quando in una pausa delle riprese ne è stato avvicinato in segreto, in un angolo nascosto tra le roulottes, ha respinto con rabbia la mano che lo cercava, ha risposto con disprezzo alla preghiera degli occhi umiliati dallo sforzo di nascondere il pianto.

 

“Ti prego, devo spiegarti…”

“Cosa? Come mi hai ingannato, come mi hai fatto strisciare? Come hai riso al pensiero che non sapevo?”

“No! Volevo solo che noi…”

“Noi? Come osi parlare di “noi”? Volevi solo raccontare a tutti che avevamo scopato? Cos’è che volevi, uno scoop incredibilmente piccante? Un gossip per diventare famoso? O solo divertirti alle mie spalle, senza alcun rispetto di me e di quello che avrei provato dopo?”

“Volevo solo che avessimo un’occasione”.

“Un’occasione per cosa? Per distruggerci? Io non faccio queste cose, di solito! Ho passato mesi a cercare di capire che cos’era successo, e ancora non ne sono capace. Credi che questo mi faccia piacere, che mi faccia star bene? Credi di avermi fatto un regalo? Di quale occasione parli?”

“Perdonami, io… è che io ti ammiro da sempre, desideravo incontrarti con tutta l’anima… volevo un’occasione per essere noi stessi prima che ci presentassero, e divenisse impossibile…”

“Essere noi stessi… grandioso! Ingannandomi sulla tua identità, fingendo di non sapere la mia. Quello che hai fatto è imperdonabile…”

 

Gli ha dato uno schiaffo violento quando si è avvicinato di nuovo, gli ha fatto sanguinare il labbro.

 

 

***

 

 

Non so, non lo so davvero perché sono stato così spietato all’inizio. Ti ho tenuto lontano e ti ho scacciato in un modo che avrebbe portato all’odio chiunque. Non ho pensato ad altro che alla paura che tu rivelassi qualcosa, alla rabbia, e a quanto ce l’avevo con te.

Anche quella notte, che ti ho aperto la porta, e ti ho fatto entrare, e ti ho preso ancora soffocando sul cuscino le grida.

*

 

 

È tardissimo, quando sente i colpi sull’uscio. Uno o due, sommessi. Ma non sta dormendo, e li avverte subito.

 

La prima cosa che ho fatto quando ti ho visto è stata chiudere ancora. Tu sei rimasto davanti alla soglia senza bussare di nuovo, coi capelli incollati alle tempie dalla pioggia.

 

 

Perché è venuto, e cosa vuole? Sono trascorsi dei mesi, e da subito ha messo bene in chiaro, con lui. Ha detto che qualsiasi cosa sia accaduta deve cancellarla dai suoi ricordi. Gli ha sbattuto in faccia tutto il suo risentimento, la collera, la vergogna. Sì, anche la vergogna, anche quella.

Gli rivolge la parola solo quando lavorano: mai fuori, al punto di aver fatto pensare a tutti che si detestano.

Ed è così.

È così, lo detesta.

 

 

Piove.

Maledizione, perché non se ne va?

 

Apre di nuovo, con rabbia.

“Perché sei venuto qui?”

 

 

Poi invece, quando sei entrato spingendomi di lato e mi sei rimasto davanti fremente di dolore e di sdegno, ho chiuso la porta e non ho potuto evitare di avvicinarmi a te.

Ti ho stretto le mani nei polsi con tutta la forza che avevo, per farti urlare.

Ti ho avvinghiato i fianchi, e ti ho costretto con la lingua ad aprirti, e a rispondere.

 

*

 

Dentro. Si sta muovendo dentro di lui nel tepore caldo dei corpi. Non gli ha detto una parola e stanno gemendo uno contro l’altro, l’abbraccio è troppo disperato per non sapere di rifiuto, e paura. “Fermo”, gli ha detto di nuovo perché questo gioco, adesso, lo conduce lui. Fermo, perché ogni parola, ogni movimento ogni gesto sarebbero uno spreco, un errore, un passo nella direzione sbagliata.

Si sta muovendo pianissimo, e morde la sua spalla, e piange.

 

 

Non ti ho parlato il giorno dopo, né i giorni venuti poi.

 

 

 

******

 

 

È andata avanti così, per settimane ormai. Si vedono di giorno sul set durante le riprese. E non si parlano. Ognuno recita le sue battute alla perfezione, poi si separano. Oppure restano vicini anche durante le soste, e gli sta accanto come se non ci fosse. Come se non esistesse. Lui tace, e a volte resta lì, accanto, senza dir niente. Non gli chiede mai niente, come quando lo raggiunge e si fa scopare, la sera, in camera sua.

Come se fossero due estranei, o nemici. Ci ha fatto l’abitudine tutto il cast a vederli così ostili e distanti. Non sembra più nemmeno una cosa strana.

 

 

Eppure non sono riuscito a spiegare la frenesia che mi ha preso da quella notte, la rabbia e il desiderio e la smania di volere che non finisse, il bisogno che tu tornassi ogni volta nella mia stanza e ti facessi prendere e ti dessi senza condizioni. Senza dire niente, senza diritti.

Non sono riuscito a controllare più nulla di tutto quello che accadeva tra noi, dopo che avevo chiuso la porta ed ero rimasto con te, dentro il buio, a toccarti senza guardarti in faccia.

Non ho mai voluto che tu parlassi, che mi parlassi. Non ho mai voluto parlare. Ti ho preso disperatamente ogni notte aspettando con impazienza sempre maggiore di sentire il tuo passo e il tuo sommesso bussare, e l’unica cosa che ho voluto sentire sono stati i tuoi gemiti e le tue grida, e il piacere del tuo piacere, e il tuo corpo avvinghiato al mio e le tue lacrime, e il tuo sudore e il tuo odore. Anche quando ho capito che per darmi questo soffrivi. Anche quando ho capito che tu piangevi.

 

 

 

************

 

 

 

Sono quasi alla fine delle riprese, tra una settimana tutto sarà smantellato. E l’operosa confusione del set lascerà il posto a un silenzio da fine estate. Lo sanno tutti anche se nessuno ne parla. Lo sa anche lui.

 

Dopo ci sarà un altro film, poi un altro. Ma ora è come se tutto finisse qui.

 

 

“Dieci minuti di pausa”, ha detto il regista, e loro sono fianco a fianco, coi loro vestiti di scena. C’è un cielo di un azzurro distratto tra nuvole che sbandano pigre senza una meta apparente.

Ma è un tempo strano, quello di questa terra. Un minuto dopo tutto si copre, e piove.

Forse pioverà anche il giorno della fine del film, quando gli addetti smonteranno le macchine e ognuno prenderà un aereo per casa sua.

 

 

Alza gli occhi a guardare quel cielo, e a cercare di capirlo.

Si volta verso di lui, quasi senza rendersi conto.

“Chissà come si metterà…”, pensa ad alta voce.

E lo vede bloccarsi, stupito. Non riesce a rispondere subito: è pallido, e non sa cosa dire.

 

Ma poi lo vede alzare le spalle, lasciar andare fuori il respiro.

È strano, il tempo di questa terra. A volte un’improvvisa schiarita squarcia d’azzurro la cenere smorta del cielo, affannata dall’aria ferma da troppo.

Forse per questo succede così, senza un motivo apparente. Lo vede sospirare, e sorridere con un sorriso che lo spiazza. Un sorriso gaio, dissonante, giovane come è giovane lui:

“Io non ne ho proprio idea, di come si metterà”, dice indicando in alto.

 

Allora ride. Non sa cosa gli prende ma scoppia a ridere. Vorrebbe anche resistere se potesse ma non può proprio, perché questo riso è rapinoso ed è bello e ha un sapore buono sopra le labbra, e sa di dolcezza, sa di tepore e di libertà e di finestre aperte e di primavera improvvisa.

Ridono. Prima timidamente, senza guardarsi. Poi insieme, senza riuscire a frenarsi, senza cercare di resistere più. Ridono come pazzi con le lacrime agli occhi e le mani sulla pancia, piegati in due dalle risate, per un sacco di tempo, cadono a terra, mentre gli altri li guardano esterrefatti e non ci capiscono niente.

 

 

*

 

 

Poi non ricordo tanto bene ma ho smesso.

Ho smesso e mi è venuta una lacrima. Una sola, che però ha fatto tutto il percorso: è scesa fino a nascondersi tra le labbra.

E l’ho lasciata fare, perché ero troppo preso a guardarti mentre mi guardavi, con degli occhi che non ti avevo mai visto, con la brezza che ti muoveva i capelli e tutte le parole che avresti sempre voluto dirmi concentrate e racchiuse in quel momento ed in quello sguardo, e solo allora ho capito che erano le stesse parole che avrei sempre voluto dirti anche io, anche prima di trovarti e di sapere che c’eri. E che non importava che quei capelli biondi non fossero veramente tuoi, che lenti azzurre coprissero i tuoi occhi così pieni di te, perché sotto quella maschera e dentro quello sguardo c’eri sempre stato soltanto tu, anche quando ti avevo visto la prima volta senza riconoscerti seduto al bancone di un pub, pensando che fossi soltanto uno dei tanti inciampi e dei disguidi che la vita ci getta sul cammino per riuscire a passarci inosservata davanti e fuggire mentre siamo distratti dall’evitarli, dal rimediare al dolore e alla tristezza e alla noia, e dal dotarci di armi adatte a rispondere alle aggressioni del mondo che lasciano ognuna una piccola ruga ben definita sul viso, come una mappa dettagliatissima che non porta da nessuna parte.

 

L’ho lasciata fare perché pensavo a quando saresti tornato un’altra volta da me, a quello che sarebbe successo la sera di quel giorno, quella sera alla fine e all’inizio di noi, alla gioia di risponderti e a come avrei cercato di accoglierti e di parlarti e dirtele, dirtele tutte, finalmente, quelle cose, dirtele senza tralasciarne una sola.

 

L’ho lasciata fare perché tu la stavi guardando, e ho compreso che era come se tu potessi ascoltare il discorso mormorato e discreto che gorgogliava nella mia anima mentre fissavo il tuo viso, e ho compreso che non ci sarebbe stato bisogno di parlare con parole quella notte, la notte di quel giorno alla fine e all’inizio di noi, quando sei tornato ancora da me e ti ho baciato e ti ho amato invaso dalla marea della gioia, e della dolcezza, e della passione, mentre tenevi tra le mani piano il mio viso e sussurravi il mio nome, solo il mio nome, nient’altro, più.

 

 

L’ho lasciata fare e l’ho amata perché mi portava al tuo cuore, e raccontava di te, della tua paura e della forza di sopportare e delle lacrime che non mi hai fatto vedere quando ti uccidevo e ti rifiutavo e non ti volevo ascoltare, e di come quella notte infinita ti sei lasciato avvolgere dalle mie braccia nel buio e ti sei raggomitolato in silenzio senza chiedere niente, finché il respiro rasserenato sulle tue labbra si è fatto regolare e sommesso, e ogni respiro ti ha condotto lentamente in un sonno che è divenuto anche mio.

 

 

 

 

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Non ci si può mai abituare all’anima di questa strana città, che è insieme acerba ed antica, che non chiede spiegazioni e non ne dà mai. Solo una serie infinita di domande da contemplare un poco spaesati.

Ma senza fretta, e forse anche senza il bisogno di rispondervi ad ogni costo.

L’albergo è quello, e anche la stanza è la stessa, l’ha chiesta lui. Grida di gabbiani che portano la voce del porto in pieno giorno, e il vento che scompiglia le tende con folate imperiose e liete.

 

È questa, e l’ha voluta lui, in ogni modo.

 

Forse per ritornare su quei passi e raccogliere i pensieri perduti lungo il cammino, lasciati cadere senza capire quanto erano importanti, quanti ammonimenti e segnali cercavano di lanciare senza riuscirci.

Forse per confrontarli con l’aria e la mente sgombra di questa estate, di questo giorno di vacanza quasi al termine, con lo spirito vivo di passione, di gratitudine, di mani colme di carezze, di sonni durati per notti intere.

 

Sorride, e si sofferma per un istante sul candore delle lenzuola e sul profumo di bucato ben fatto che empie delicato la stanza, sul letto e la t-shirt bianca e azzurra che scivola sfiorando molle la spalliera della sedia poco più in là.

Non è solo per la bella giornata e per il suono del mare.

È per la quieta gaiezza delle voci di sottofondo che salgono dalle strade, per il fresco del vento, per il placido sfilacciarsi delle nuvole dentro al cuore.

 

Respira, e si volta, e lo cerca con gli occhi senza parlare, di là dalla vetrata aperta sulla terrazza, davanti al cielo.

È là, dove l’ha lasciato da tanto, un minuto fa, poggiato con i gomiti al tavolo bianco in dotazione all’arredo sobrio di quest’hotel dove ha voluto che tornassero insieme senza nemmeno spiegarsi bene perché, per quale motivo ne sentisse un’esigenza così profonda, come se avesse un conto da regolare.

Anche se forse l’ha capito stanotte, il motivo: stanotte, col capo posato sul suo petto e la mente sgombra e piena solo di lui.

Forse è stato perché non voleva che questo luogo conservasse le immagini del dolore e della fatica, il senso di nausea e il desiderio e l’odore di analgesico e niente che vi aveva lasciato. Forse perché coi ricordi di ora voleva spolverare le tracce di quel primo disperato trovarsi, di quella prima lotta tra le lenzuola, del camminare senza meta tra le luci assordanti di una città sconosciuta, cercando qualunque cosa gli impedisse di andare a fondo, solo per difendersi poi da tutto ciò che avrebbe trovato, per difendersi anche da lui.

 

Lui era quella sera in quel pub. È stato solo un caso che fosse là. Ma lo ha capito. Ha capito subito, quella sera.

 

 

*

 

 

Per questo non c’è bisogno di dire niente, adesso che gli è di fronte sulla terrazza, e risponde con un sorriso allo sguardo sereno che gli rivolge.

Lo osserva solamente, e ora ha lui posato il mento sulle braccia incrociate, e lo guarda. È una posa familiare, e sembra, quest’immagine, sovrapporsi a quella della prima volta che l’ha visto nel pub, fissarlo dalla distanza di quel bancone, con un bicchiere in mano e la stessa ricerca di qualcosa dentro agli occhi, dentro a ogni gesto.

 

Ma questo è il tavolo della loro stanza, e la porta è chiusa. Ed è un fresco pomeriggio e tra poco si ritorna insieme sul set, e c’è un cielo luminoso e nessuno fuma. E non c’è whisky nel bicchiere di fianco a lui, ma limonata da bere piano, a piccoli sorsi che fanno frizzare la gola.

 

 

È bello osservarlo così, mentre lui lo fissa. Adesso non c’è bisogno di parole da dire.

Tante sono state da allora le parole che hanno dovuto usare, ma le hanno cercate a una a una, con pazienza lenta e cocciuta, trovando il coraggio di dirsele, e di ascoltarle.

 

 

È stato ben strano il modo in cui si sono scoperti, in cui si sono incontrati.

Eppure adesso, nella gioia pacata e viva di questa terrazza, insieme, gli viene in mente che forse sarebbe andata così in qualunque modo si fossero conosciuti. Forse le mille combinazioni possibili dei casi che li avrebbero fatti trovare non sarebbero state altro che orditi e trame coperte per intrecciare gli stessi passi, la stessa meta, in mille modi diversi.

 

Forse sarebbe successo questo comunque, e non è poi così vero che siamo nelle mani del caso, e forse alle volte il caso è solo il nome che diamo alle scelte che finiamo per compiere, e che vogliamo davvero.

 

 

Pensa queste cose guardandolo, ed è uno strano e inaspettato sollievo che non sa bene spiegare. Gli riempie l’anima, ma senza peso e timore mentre lo osserva ancora, sorridergli di sotto in su tra i riccioli bruni, tra la brezza che proviene dal mare.

Scuote la testa, e a un certo punto si accorge che è come se glielo stesse dicendo. Che è come se quello stesso pensiero fosse qualcosa di vivo tra loro, e stesse sfiorando anche lui. Come se potesse essere pensato e formulato e compreso solo condividendolo tra due menti, tra due spiriti, tra due sguardi.

 

Per questo non prova sorpresa e china la testa commosso e grato quando lui parla, ed è come se non potesse far altro che ascoltarlo mentre gli dà voce, per tutti e due, sollevando il viso:

 

“Sai, Vig? Spesso, ci ho pensato… ho pensato a come sarebbe stato se, fra di noi, le cose fossero andate in modo diverso…”

“Diverso… come?”

“Non lo so. Diverso… Non so nemmeno se migliore o peggiore di come stiamo adesso, però… quando mi guardo indietro vedo così tante strade lasciate vuote. Strade delle quali non riesco a vedere la fine, ma sempre assolate. E rassicuranti…”

 

FINE

  

 A Leia, per il suo disegno