.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: La fic doveva essere corta… racconta gli avvenimenti di soli sette giorni! Eppure guardate: Capitolo 9, e siamo ancora al terzo giorno…

Capitolo 9

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Glorfindel si sentì, per un attimo, come colui che, sopraffatto dai flutti, viene trascinato in fondo, senza peso, senza volontà e senza speranza. Poi si riscosse, facendo violenza su sé stesso per non soccombere allo shock. Dai suoi pugni stretti stillarono pigri rivoli di sangue.

Voleva vedere Ecthelion. Il suo viso, i suoi occhi, il suo corpo. Eppure parte di lui era sollevata al pensiero che quella figura immobile sulla parete non si sarebbe mai potuta girare e mostrargli il tenero viso innamorato. Gli tornò in mente ciò che l’incontro con Legolas gli aveva ricordato poco prima, e cioè che un Elfo, privato dal suo amore, muore lentamente e tra atroci agonie.

Ecco perché i Valar l’aveva derubato del ricordo di Ecthelion: per tenerlo in vita.

Ma il cuore ricorda ciò che la mente dimentica; il corpo ricorda sempre. Per l’eternità.

E vivere in quel modo, a metà, era forse peggio che morire.

Un luccichio al limitare del suo campo visivo lo fece girare. Non l’aveva notata, prima, ma sul basso comodino intagliato accanto al letto bruciava lenta una piccola candela. S’incamminò verso di essa. La fiamma si piegò all’indietro, come per allontanarsi da lui, una, due, tre volte, quindi si raddrizzò tremolante, come un bimbo spaurito che si nasconde nell’angolo. Glorfindel avanzò ancora. La fiamma guizzò e si spense. Per un attimo la punta rossa dello stoppino si stagliò nell’oscurità, coronata da intricati fili di fumo. Poi più nulla.

Glorfindel continuò ad avanzare. Sentiva il volto serrato in un rigido ghigno, che forse voleva trasmettere tranquillità, ma serviva solo a rivelare il suo tormento interiore. Aveva freddo. Subito dopo, aveva caldo. Gelo e fiamme alternavano le loro carezze sul suo corpo. Glorfindel le sopportò in silenzio. Tratteneva il respiro, lasciando che il cuore soffocasse, pur di placarlo.

Avanzava.

Infine, raggiunse il lato del letto. Nella pletora di sensazioni che s’agitavano dentro di lui, Glorfindel sentì insinuarsi un vago, ondeggiante stupore. La realtà, la realtà adagiata candida e indifesa lì davanti ai suoi occhi, era incredibilmente identica a come l’aveva immaginata, come se, prima di entrare, avesse percepito il ricordo di qualcosa: qualcosa ancora da venire.

Erestor dormiva quieto nel letto intriso di soffice luce lunare, con un libricino scuro poggiato sul petto. I bei capelli sciolti scendevano in rivoli fluenti tutt’attorno a lui, arabescando squisitamente la sottile stoffa blu della sua veste da sera, allacciata mollemente in vita. Glorfindel poteva vedere una gamba nuda emergere maliziosa da sotto la stoffa trasparente, e sparire, dopo un lampo di velluto bianco, sotto le lenzuola arruffate. Il suo volto era aperto e incredibilmente sereno. Le labbra, carnose e rosee come petali, erano socchiuse a rivelare il lampo dei bei denti bianchi. Gli occhi erano velati per metà dalle lunghe ciglia color dell’inchiostro, e le pupille bionde s’intravedevano appena sotto di esse, intente non su ciò che era all’esterno, bensì sulle memorie e le fantasie e i vaghi presagi che costituiscono il sonno degli Elfi.

Glorfindel esalò un respiro incerto, mezzo strozzato.

Sentiva un bisogno impellente di scuoterlo, di scuoterlo violentemente, e fargli del male, male fino a farlo urlare, a fargli confessare perché, perché c’era quell’affresco nella sua camera, perché c’era quel bimbo la cui sola vista gli stringeva il cuore addolorato, perché, perché, perché c’era Ecthelion?

Prima di rendersene conto si era adagiato sul letto sulle braccia potenti, le ginocchia poggiate attorno ai fianchi di Erestor, le mani poggiate ognuna accanto ad una sua spalla candida, e stava sospeso sopra il suo corpo alla distanza di un respiro.

Oh, che strana sensazione! Che strana nostalgia provava, ogniqualvolta era vicino ad Erestor. La sua presenza gli faceva sorgere nella mente un’Ombra, come di qualcosa a lungo dimenticato che si affacci timido all’Orizzonte. Era per questo che l’aveva evitato così a lungo, nevvero? Per via di quell’Ombra. La stessa Ombra, lo stesso Desiderio di Sapere, di Ricordare, che anni dopo l’aveva spinto ad avvicinarsi, a tentare di diventargli amico.

Glorfindel mugolò. Sembrava un cucciolo in lacrime.

Il suo cuore urlava come mai prima d’allora. E la mente chiedeva pietà, disperata per un po’ di quiete.

‘L’unica cosa che mi mantiene sano è quello Legolas: è la Passione.’

Forse, allora… poteva essere, si… magari quel desiderio che gli stracciava il petto era di baciare Erestor, si, con passione, la passione che ogni dolore può distruggere, desiderio di baciare quella labbra schiuse e fiduciose, fino a quando non fosse stato costretto a fermarsi, fino a quando non fosse rimasto senza fiato, fino a quando Erestor non l'avesse spinto violentemente via

                                                                                             fino a quando Erestor non l'avesse stretto, con le braccia attorno al collo e le gambe attorno alla vita, e non l'avesse attirato su di sé, baciandolo languidamente, come se volesse imprimere a fuoco il suo sapore nella mente, mentre le dita correvano a sciogliere lacci e bottoni, rivelando la pelle squisitamente bianca e nuda e calda, e la passione saliva, come la marea, e attutiva la realtà attorno a loro, e le voci ed i ricordi, finché non ci sarebbero stati solo loro, nudi ed avvinghiati e fusi in una cosa sola, un corpo solo, un’anima sola…

 

Abbassò il volto verso quello di Erestor. Il suo alito sapeva di fiori e rugiada, di miele e purezza.

Erestor era acqua.

E Glorfindel era assetato.

Bruciava.

Fiamme di passione, fiamme di dolore, fiamme affamate, fiamme, fiamme fiamme…

Senza rendersene conto, Glorfindel si avvicinò ancora, gemendo, di dolore o di passione, o forse entrambe le cose unite insieme, e abbassò il volto verso quello di lui, verso quelle labbra, verso l’Acqua tanto agognata, ed il ristoro che prometteva.

 

Lasciò scorrere gli occhi su quella figura regalmente bella, vagamente stupito che la sua vicinanza fosse per lui così familiare, così normale, da non indurlo a svegliarsi. Guardò il viso, che rifulgeva di luce come una stella. I capelli, torrenti d’inchiostro luccicante. Le spalle: una celata, l’altra maliziosamente scoperta, ombreggiata appena dalla veste scivolata fin quasi al gomito.

Poi gli occhi di Glorfindel raggiunsero il petto leggermente scoperto, e lì, inesorabilmente, senza speranza di fuggire, senza controllo, senza fiato, si fermarono.

Perché la pelle, la morbida pelle bianca che lui aveva sempre immaginato liscia e vellutata, era ricoperta di cicatrici ributtanti, e sciabola e mazza e frusta e fiamma, segni profondi che s’incrociavano orribilmente sulla tenera carne, come sentieri abbandonati che siano sprofondati nel marmo, tanto rossi da sembrare ferite ancora fresche, tanto profondi da sembrare inguaribili.

Glorfindel s’immobilizzò, privo di fiato, ad un millimetro appena da quelle labbra che, pur da ferme, sembravano invocare i suoi baci.

Non dicevano forse le antiche leggende che nessun segno rimane sulle pelli eterne degli elfi, se non quelli inflitti da un dolore straziante, inumano, impossibile a dirsi e ad immaginarsi?

Fu allora, in quell’attimo assurdamente sospeso tra la sua vita passata e la presente, che l'Enigma che era sempre stato Erestor si compose quietamente davanti agli occhi di Glorfindel: quel potere proibito, concesso solo agli Elfi antichissimi, la nostalgia, i ricordi pressanti, gli affreschi, le cicatrici...

Come negarlo?

Erestor era un sopravvissuto di Gondolin.

L’Ultimo.

L'Unico.

L'unico legame che Glorfindel aveva col suo passato da lungi perduto.

E con Ecthelion.

 

Glorfindel si alzò, distogliendo lo sguardo, e corse via.

 

* * * * *

 

Estel si lasciò cadere sulla schiena, ridendo senza fiato. Elrohir si sedette con regalità affianco a lui, piegando le gambe mollemente sotto il corpo, mentre Elladan si lanciava in un’altra, frizzantissima ballata.

Le stelle iniziavano già a sbiadire quietamente nel cielo sopra di loro, ed una tenue riga di luce si allargava lentamente all’orizzonte, dietro le sagome imponenti delle montagne. Estel allargò un po’ braccia e gambe e gettò indietro la testa, stiracchiandosi come un grosso gatto sotto la pallida luce. Sorrideva. Stranamente, sebbene avesse ballato (o meglio: incespicato, saltellato, rotolato ed inciampato) tutta la notte, si sentiva sveglio e arzillo, se non addirittura riposato: tutto merito delle strane bevande che i gemelli avevano portato con loro, e che Estel aveva consumato con entusiasmo.

“Estel?”

Il Giovane aprì gli occhi, colmandoli della visione eterea di Ganburrone all’alba. Si voltò verso Elrohir, facendo un suono intelligibile con la bocca.

“Hmmm?”

Elrohir scoppiò in una risata cristallina.

“Sei tremendo, te ne rendi conto? Non sai fare due passi di danza uno di fila all’altro, ed eccoti qui, soddisfatto come se avessi ballato al pari di Luthien!”

Estel scrollò le spalle.

“E’ che sono felice. Tanto.” I suoi occhi luccicavano come gemme colme di luce. Elrohir si stese a petto in giù al fianco del fratello. Incrociò le caviglie in alto e prese a molleggiare vezzosamente le gambe piegate.

“Sei molto innamorato, vero?”

Estel ridacchiò.

“Quello, oppure sono tutte le pozioni che ho in corpo! Ma no, davvero,” ammise poi, imbarazzato ma felice. “Mi sembra di essere entrato in un sogno. E non credo di volermi più svegliare.”

“Ma dovrai,” sospirò il fratello. Sembrava altamente triste. “Pagherai per questo tuo sentimento. Ora sei ancora preso nella sua novella intensità, e ti pare impossibile guardare lontano, nel futuro. Ma lo sai vero? Sai di aver volto il cuore a qualcuno troppo in alto per te. Sarai ostacolato, si, e forse anche maltrattato, per via di questo tuo Amore. Ma tu sei saggio, fratello mio, molto saggio per la tua razza e per la tua età, e so che comprendi che quest’Amore sarà anche la cosa più bella della tua vita. La più pura, e quella che ti darà più gioia. Non lasciartelo sfuggire.”

“Lo so,” lo assicurò Estel. Non c’era dubbio né incertezza nella sua voce. “E non ho intenzione di lasciarmi sfuggire la mia felicità. Per niente al Mondo.”

 

I tre fratelli avevano appena fatto in tempo a chiudere la porta e ad allontanarsi in direzioni diverse (Estel verso la sua camera, Elladan verso lo studio di Glorfindel, dove avevano preso la chiave del Padiglione, ed Elrohir verso il Salone del Fuoco, dov’erano custoditi tutti gli strumenti musicali) che, svoltato il primo angolo, Estel incappò proprio nel Signore del Padiglione della Fresca Luce.

“Glorfindel!”

“Estel!”

E poi, all’unisono:

“Che ci fai sveglio a quest’ora?”

Una pausa. Uno arrossì, l’altro impallidì. Di nuovo in concerto, dissero:

“Non riuscivo a dormire,” e poi si guardarono di sottecchi, insicuri su cos’altro aggiungere.

Fu Glorfindel il primo a rompere il silenzio. Scrollò le spalle.

“Beh, è una fortuna averti incontrato. Ti cercavo.”

“Cercavi me? Come mai?” Estel forzò un sorriso nervoso. Possibile che Glorfindel sapesse che si erano infiltrati nel suo santuario privato, e che fosse arrabbiato? Impossibile! Eppure…

“Beh… no. Non proprio, almeno. Io… vedi, io…” l’Elfo esitò. Poi guardò il Giovane dritto negli occhi, ed Estel ebbe l’impressione di essere trafitto mortalmente da quello sguardo.

“Ho bisogno del tuo aiuto!” disse Glorfindel, quasi urlando. Lo prese con foga per le spalle, facendolo indietreggiare di un paio di passi.

“Ho bisogno del tuo aiuto, Estel.”

C’era un fremito strano nella sua voce solitamente gioviale. Ed anche gli occhi avevano perso il loro lucore gaio, in favore di una lucidità febbrile e orribile a vedersi. Estel non l’aveva mai visto così sconvolto. Sentì un’apprensione terribile salirgli in gola dallo stomaco serrato, acida come bile. Glorfindel non era mai così serio: anche le crisi più grandi lui le affrontava con un sorriso sulle labbra. Cosa poteva essere successo per ridurlo così?

Glorfindel s’avvide dell’effetto che il suo nervosismo stava avendo su Estel e lasciò andare leggermente la presa. Sarebbero rimasti dei lividi su quelle spalle mortali, e lo sapeva. Si umettò le labbra. Si schiarì la gola.

“Si tratta di Erestor,” disse, sforzandosi di apparire naturale. “Devo vederlo oggi. Assolutamente. Dobbiamo essere da soli, ma lui non accetterebbe mai di seguirmi nella foresta, così, senza spiegazioni, e senza nessuno che ci scorti! Quindi, ti prego, Estel… accompagnaci. Poi potrai andare dove vorrai. Non c’è bisogno che resti con noi, e anzi! se ci concederai un po’ di solitudine ti sarò grato fino alla fine di Arda. E’ importante. Non so dirti nemmeno io quanto. Perciò, per favore… vieni. Dammi una scusa per vederlo, per stare solo con lui, per parlargli. Vieni con noi.”

Estel vacillò per un momento nella sua indecisione. Ma fu solo un attimo. Risolutamente annuì col capo, e alzando le braccia le passò attorno a Glorfindel, ancora così sconvolto. L’Elfo si tese momentaneamente, poi parve ricadere su se stesso, come un sacco privo di contenuto. La voce di Estel nelle sue orecchie era come gocce di pioggia in uno stagno, quieta e centellinata. Glorfindel si sentì piccolo, mentre Estel suonò improvvisamente adulto e regale, come un padre-Re che s’inginocchi al cospetto del suddito pregante e lo tragga fuori dalle ombre.

“Non preoccuparti di niente, Glorfindel. Oggi lo vedrai, e ti darò occasione di parlargli, qualsiasi cosa ciò mi possa costare. Siamo d’estate, ed Erestor ha sempre adorato le rive quiete ed ombrose del Bruinen. Allora io dico: dirigiamoci lì, più tardi, prima di pranzo, con cibo e bevande! Con la scusa di nuotare io potrò allontanarmi tranquillamente lungo la corrente, ed Erestor, che non ama immergersi, potrà restare solo con te sotto gli alberi. Io riemergerò più vicino alla Casa, a cui tornerò nel calore del meriggio, e nessuno che incrocerò avrà da ridire dei miei abiti zuppi o dei capelli grondanti.”

Glorfindel chiuse gli occhi. Si prese un momento per ricomporsi, quindi si raddrizzò lentamente, scostando Estel da sé con attenzione. Aveva gli occhi chiusi. Quando li riaprì, assomigliavano un po’ di più a quelle gemme maliziose di sempre.

“Io… credo che mi piacerebbe,” disse, e abbozzò un sorriso.

“Vuoi…?”

Glorfindel scosse la testa.

“No, no. Ne parlerò con lui. E poi andrà tutto bene, lo so.”

Estel ricambiò il sorriso pallido di Glorfindel con uno fiero e confidente.

“Bene, allora! Passerò subito dalle cucine per farci preparare qualche cestino e delle fiaschette di succhi e liquori. Vuoi che vada io a parlare con Erestor?” Glorfindel annuì, un gesto brusco e conciso. “Allora l’appuntamento è nei giardini del Padiglione Azzurro, giusto davanti ai Cancelli, quando il sole splende appena sopra la Torre Argento, e filtra attraverso le sue finestre colorando l’erba. Porta i cavalli. Io porterò… il resto.”

In quel momento, uno strano luccichio attraversò gli occhi di Glorfindel, ed Estel si sentì per un attimo uno stolto: come aveva potuto sentire la mancanza di quello sguardo cospiratorio, se ora che gli veniva rivolto lo faceva tremare dalla preoccupazione?

“Bene-bene,” fece Glorfindel, allontanandosi all’indietro di un passo e sfoderando tutti i denti in un ghigno sornione. Si sfregò le mani, e ruotando sui tacchi trotterellò giù per il corridoio, fischiettando un’arietta dolce.

“Glorfindel? Dove stai andando? Che hai in mente, ora?!”

Glorfindel si fermò, giusto alla fine del corridoio, e gli lanciò un’occhiata birichina da sopra la spalla.

“Non penserai certo che Erestor si lascerebbe convincere ad accompagnare solo noi due nella foresta!” Scosse la testa come ad un bimbo sciocco. Fece un rumore schioccando la lingua sui denti. “Vado a prendere la nostra arma segreta!”

Estel sentì le ginocchia deboli.

“E cioè?” gracchiò, immaginando già la risposta.

Glorfindel rise, di nuovo simile al vecchio se stesso, anche se solo forzatamente.

Legolas!” disse, e ridendo girò l’angolo, sparendo alla vista.

Estel indietreggiò sulle gambe di burro fino a toccare la parete con la schiena. Una schiera d’immagini s’assieparono lampeggiando davanti ai suoi occhi, per poi sfilare via, cadendo ad una a una, come dipinti operati su foglie autunnali che scivolavano frusciando una sull’altra.

Fiume.

Acqua.

Caldo.

Legolas.

Nudo.

 

Oh, Valar…

 

 

-TBC (?)