.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: …ci sono un paio di metafore qui e là, cariche di doppi sensi che io NON volevo mettere. Che dire? Sono *venuti* da soli… o forse non si notano? Oh, e il capitolo è di nuovo NC-17…

Capitolo 8

~

Di nuovo, pensò Glorfindel, e sorrise.

Di certo non gli sfuggiva la sottile ironia della cosa: tre giorni, tre porte spalancate senza preavviso, senza invito, senza pensare. E’ vero: a Granburrone non esistevano porte chiuse, o luoghi permanentemente inaccessibili (persino il Padiglione della Fresca Luce era aperto agli abitanti della Casa più spesso che non), ma Glorfindel dubitava fortemente che qualcun altro si sarebbe permesso simili libertà - come sgusciare non-invitati nella camera del Consigliere di Elrond nel cuore della notte.

Glorfindel sentì il cuore accelerare.

Non era mai stato, assolutamente mai, in quasi mille anni che si conoscevano, nelle stanze private di Erestor. Il pensiero di vederle, e di vedere Erestor nel suo ambiente naturale, in un simile momento di vulnerabilità, privato dei suoi severi abiti neri, avvolto solo in una morbida veste allacciata in vita, addormentato docilmente, o forse seduto nella luce delle stelle a leggere un libro, il volto d’alabastro dolce, sereno, ammaliante, le labbra schiuse attorno ad un respiro tremulo, quieto, che faceva ondeggiare appena una ciocca dei suoi capelli, i bei capelli neri liberi dalle strette trecce da nobile, liberi di ricadere lunghi e scintillanti fino alla delicata curva delle anche, fino a sfiorare il dolce angolo di una gamba nuda, appena visibile tra veste e lenzuolo…

Di nuovo, pensò Glorfindel: di nuovo aveva sentito quello strano fluttuare nel petto, come se un uccellino impazzito vi agitasse le ali, domandando di uscire. Meticolosamente, Glorfindel chiuse gli occhi, e traendo ampi, lunghi respiri, costrinse quel sentimento tremulo di nuovo nella sua gabbia.

Erestor era suo amico. Come poteva pensare di sfruttarlo, di sfruttare il suo corpo, per quanto bello, per quanto esso sembrava stagliarsi, sinuoso e candido, come barriera ultima tra lui e la pazzia?

Non poteva.

No.

No.

Sentì una parvenza di controllo rifluire dentro il suo corpo. Lentamente, aprì gli occhi.

La porta torreggiava accigliata davanti a lui, lucida e minacciosamente scura, come una grande pupilla priva di palpebra, una pupilla da gatto, alta e stretta, che non la smetteva di fissarlo.

Chissà cosa c’era aldilà di essa. Chissà com’erano nella realtà quelle stanze così a lungo immaginate.

Glorfindel le aveva sempre viste in un unico modo: molto ampie, colme fino a traboccarne di una quieta ombra grigia, fresca ed invitante. Una aria di severa bellezza, un’atmosfera di quiete solo apparentemente fragile ammantava quel luogo, i mobili di lucido legno antico, le poltrone di velluto, rosse, ed il sofà intagliato minuziosamente. Poteva vedere file e file di vecchi libri sfilare sulle pareti bianche, immacolate come fossero state dipinte di fresco. Ed il profumo… ah, il profumo di spezie, avvolgente, appena un sentore, che aleggiava vago nell’aria, un profumo lieve, né dolce né pungente, semplice profumo d’autunno, gocce di miele ambrato e terre lontane viste al crepuscolo.

Di nuovo, pensò Glorfindel.

Scosse la testa, spinse le porte, entrò, le chiuse, attento a non far rumore, e alzò la testa.

Ciò che vide lo fece trasalire. Violentemente.

Dinanzi a lui si apriva una pianura immensa, rischiarata dalla luce soffice delle stelle, che si affollavano in quantità assurde tra le lievi nubi vaporose. Alti colli ripidi erano stanziati in cerchio attorno a lui, come una corona in rovina. Ai suoi piedi, un sentiero dorato si protendeva bramoso fin quasi al centro della vallata, dove s’ergeva un colle assai strano, con la sommità dolcemente livellata. Il sentiero continuava a salire, diramandosi i mille dita scintillanti, aggirando sinuoso abissi e asperità, su, su, in cima al colle, sempre scintillante, sempre dorato, fino a raggiungere la porta languidamente schiusa, come una bocca invitante, e tuffarsi aldilà, verso quel nugolo di case scintillanti, appena visibili nella nebbia della sera, bianche come la luce dell’alba, coi pinnacoli ritti e imponenti come spade d’argento, un miraggio ondeggiante contro il manto di velluto scuro della notte.

(Questa è…)

Glorfindel indietreggiò. Tremava, anche se non sapeva bene il perché. Il suo corpo era scosso da brividi violenti. La sua mente si rifiutava di riconoscere quello che i suoi occhi ed il suo cuore già sapevano con certezza esasperante.

(…questa è…)

Si voltò di scatto sulle ginocchia tremanti, come una bestia impazzita che cerchi una via di fuga, e protese le mani verso la porta.

Solo che non c’era.

Non c’era.

Un tunnel tenebroso si apriva al suo posto, infinitamente lungo, e umido e nero e freddo, freddo come i ghiacci che mai si sciolgono sulle cime aspre e inaccessibili.

Boccheggiò.

Le sue dita tremanti sfiorarono una superficie lì dove i suoi occhi non la vedevano, si protesero nel nero vuoto di quel tunnel terrificante ed incontrarono resistenza. Fu allora che Glorfindel le vide: minuscole e ravvicinate e perfette, tanto da risultare invisibili persino ai suoi occhi d’Elfo.

Pennellate.

Piccole macchie di colore si susseguivano in eterna corsa su quelle che, ora lo intuiva, dovevano essere le pareti dell’anticamera di Erestor, e non l’infinito cielo notturno.

Si girò, seguendo con gli occhi l’affresco che si dipanava tutt’intorno, su quelle strane pareti lisce e circolari, prive d’ogni mobilio.

Tremò. E tremando, si arrese all’evidenza.

(Gondolin.)

Questa è Gondolin.

(Gondolin.)

Il luogo in cui era morto tra atroci sofferenze, il luogo per cui si era sacrificato, per cui aveva dato la vita inutilmente, dato che era stata distrutta, e dove aveva perso tutto

(Ecthelion)

ciò che amava.

(Ecthelion!)

 

Perché ora? Perché lì? Perchèperchèperchè? Le domande si affollavano nella sua testa, come vespe impazzite che danzavano in una cacofonia assordante, i piccoli corpi tondi colmi di un veleno stillante, che gli faceva bruciare le tempie.

Perché?

Poi, la domanda più importante di tutte.

Perché Erestor?

Rimase fermo, tremante, davanti la porta, celata abilmente sotto il disegno inquietante del tunnel di tenebra, e chiuse gli occhi.

Quella era Gondolin.

Lo sapeva.

Solo, non sapeva come lo sapesse.

La sua vita, la sua vita presente, iniziava con la sua morte –le fiamme, il dolore tremendo, le membra che si fondono, ossa che si spezzano, il baratro, le rocce del fondo che salgono roteando impazzite contro il corpo distrutto, i capelli in fiamme, la bocca spalancata e priva di voce, la frusta fiammeggiante del Balrog chiusa attorno alla gola, niente aria, solo fiamme, fiamme giù per i polmoni, mani mostruose contro le costole, vetro che va in frantumi, dolore, dolore, dolore – poi veniva un attimo, un respiro, forse anche meno, di freddo buio vuoto nulla, ed infine, Glorfindel apriva gli occhi sussultando alla spiaggia bianca, con una voce roboante nella testa che gli ripeteva:

Eroe di Gondolin. Il tempo è giunto perché tu sia restituito alla vita. Và e combatti. Và e proteggi chi sei destinato a proteggere. Và.

Và.

Così era nato Glorfindel: morendo. Con la spada al fianco e l’armatura sul corpo. Morendo.

Della sua vita precedente, poi, ricordava ancora meno.

Sapeva di essere vissuto a Gondolin. Sapeva di averla amata e di essere morto per lei.

Solo, non la ricordava.

Non sapeva com’era fatta, dov’era sorta, né ricordava i volti che tutte le mattine lo salutavano, o che alla sera gli facevano cenni cortesi. Le mani che mille e mille volte avevano stretto le sue non avevano forma nella sua mente. Le voci che avevano chiamato il suo nome non avevano suono. Non c’era nulla, se non il vuoto.

Sapeva della sua vita passata come se l’avesse letta in un libro: una strana storia tormentosa che lo commuoveva, ma che non era sua. Non del tutto. Forse per niente.

L’unica cosa che ricordava –che ricordava chiaramente- era l’Amore.

Amore.

Ricordava il cuore che accelerava, la vaga sensazione tremula alla bocca dello stomaco, le guance in fiamme, il dolce languore, frasi sussurrate, ti amo, un fiore spinto tra i capelli, una serenata argentea al chiaro di luna, musica di flauto, il fiero istinto di proteggere, una sfiorarsi leggero delle dita, che s’intrecciavano, i fremiti, la tenerezza, l’ardore.

Ricordava un sinuoso corpo caldo stretto al suo, mani bianche che scorrevano sulle braccia, labbra che lambivano il sudore dalle sue spalle, capelli di seta contro il petto, dita agili e svelte che si chiudevano sul suo sesso, l’accarezzavano languide, accendendogli un fuoco inestinguibile nei lombi.

Se chiudeva gli occhi, poteva quasi vedere quella figura, un’indistinta sagoma diafana dai contorni fluttuanti che, china su di lui, gli mormorava dolci frasi d’amore, lo baciava, lo stringeva.

Se tendeva l’orecchio, poteva sentire sé stesso mormorare, come una nenia, come una preghiera, come un frammento spezzato di luce nelle tenebre, un solo, dolcissimo, nome:

“Ecthelion.”

Ecthelion Ecthelion Ecthelion …

Ricordava il sentimento.

Ricordava la passione.

Ma non ricordava lui.

(il suo volto il suo corpo la sua pelle occhi mani capelli bocca ti amo ti amo ma non riesco a vederti non posso non posso…)

Non ricordava niente.

Ed ora, quell’affresco maledetto aveva mandato in frantumi qualcosa dentro di lui, una diga, da cui si riversava scrosciando un fiume tumultuoso di ricordi indistinti, troppo veloci perché Glorfindel potesse afferrarli e tenerli stretti a sé. Rischiava di affogare. La marea saliva inesorabile, e lui non aveva luogo in cui nascondersi, perché Gondolin era caduta, ed Ecthelion era morto, e lui era solo.

Di nuovo, quella domanda gli esplose nella mente, come fiamme.

Perché?

Si lasciò andare contro il muro (immaginò, per un breve secondo, che sarebbe caduto in quella fenditura orrenda, e sarebbe precipitato, all’infinito, attraverso le tenebre), e lentamente fece scorrere lo sguardo tutt’intorno.

L’illusione era perfetta. Sembrava realmente di trovarsi avvolti nel cerchio di colline, sotto l’infinito cielo stellato, ai piedi di quella favolosa città dei tempi antichi. Pareva quasi di poterla toccare. I fiori che tempestavano la valle sembravano pronti per essere colti e l’erba, l’erba immobile di albume d’uovo e acqua e polveri verdi, sembrava frusciare nella brezza.

Pian piano Glorfindel riuscì a scorgere i contorni della stanza: si trattava un ampio semicerchio, e lui poggiava contro la parete curva, mentre dritto dinanzi a lui, celata dal dipinto del colle e della città, si allargava la parete retta. Glorfindel continuò a scrutarla a lungo, in cerca del luogo in cui fosse nascosta la porta (se quella stanza somigliava anche solo lontanamente al resto dell’architettura di Granburrone, allora lui si trovava nell’anticamera, e nascosto da qualche parte c’era un passaggio che portava direttamente nelle stanze da letto), quando infine si rese conto dell’ovvietà di quell’indovinello: la porta non era affatto nascosta.

S’incamminò lungo il sentiero dorato, che per effetto della prospettiva disegnata diventò, man mano che avanzava, inverosimilmente piccolo: un nastro luccicante nella penombra, una misera ciocca di capelli biondi. Quando Glorfindel arrivò al colle, era diventato un gigante che guardava negli occhi la città sospesa. Allungò le dita verso la porta socchiusa, la porta di tempera grande non più del suo palmo, e spinse delicatamente. La porta, quella vera, si aprì, dividendo in due il colle, la città, il cielo. Era molto semplice.

Per un momento, Glorfindel non seppe decidersi ad entrare. Cosa avrebbe trovato aldilà? Erestor? Oppure… Gondolin? Un vago sentore di profumo emerse dalla porta schiusa. Fiori, erba, incenso forse? rugiada e muschio. Un odore verde, fresco, di cose vive.

Glorfindel sgusciò all’interno della stanza, facendo attenzione a non produrre il più piccolo rumore. Gli sembrava di aver raggiunto un santuario, antico e molto sacro, e temeva di spezzare, con la sua presenza, un qualche incantesimo millenario.

Si guardò attorno.

La stanza era il riflesso perfetto della precedente: un semicerchio rovesciato, per cui gli ampi balconi si aprivano al centro della parete curva, bagnati dalla candida luce della luna, ormai vicina a farsi piena. La stanza era completamente ricolma di quella luce: le sedie, la toletta aggraziata, l’alto letto bianco, le pesanti tende di broccato antico… tutto baluginava fioco, dando l’impressione di relitti adagiati sul fondo del mare, addormentati in quell’immobilità pulsante che è frutto della luce.

Ora era calmo.

Si guardò attorno.

Anche sulle pareti di questa stanza si snodava un’enorme affresco. Stavolta però (e Glorfindel non se ne stupì) l’illusione era quella di trovarsi dentro la città.

Glorfindel era passato dalla valle frusciante nella brezza all’interno di un porticato ombroso. Una successione di archi svettanti si apriva tutt’intorno a lui, le belle colonne di marmo venato tutte avviluppate nello stretto abbraccio dell’edera rigogliosa. Aldilà si potevano vedere le infinite strade della città, tutte bianche, e le case, orgogliose e lucide come specchio. Ma la vera meraviglia erano i personaggi ritratti a grandezza reale al centro di ogni arco: Elfi di una bellezza squisita, così realistici da risultare inquietanti, coi capelli morbidi adagiati sulle spalle, le labbra tumide, schiuse attorno ai respiri quieti, i vestiti adorni di mille pieghe e nastri e arabeschi e stemmi ricamati e gemme preziose. Era incredibile come sembrasse che, sorpresi in un attimo eterno, essi stessero sul punto di muoversi, di voltarsi e parlare, di tenderti le mani per un abbraccio… un abbraccio freddo come pietra.

Glorfindel si riscosse, e guardò ad uno ad uno ogni personaggio, credendo, con la sua memoria scaturita dai libri, di riconoscere in essi alcuni abitanti di Gondolin: c’era un’Elfa bellissima, appoggiata languidamente ad una colonna, con le mani incrociate sul bel seno bianco e i piedini nudi, che Glorfindel riconobbe essere Idril. Alla sua destra, regale nella sua tunica scintillate, lo sguardo fiero rivolto verso chiunque osasse fermarsi a guardare quel dipinto, c’era suo padre, Re Turgon. Alla sinistra di lei invece era stato rappresentato suo marito, Tuor, con le membra atteggiate in una posa di bramante ardore, il volto proteso verso la sua amata, nascosta dall’altro lato della colonna che li separava. E poi, in una processione infinita vennero Voronwë, Isfin, Penlod, Duilin, persino Meglin*, e altri ancora. Prima di rendersene conto, Glorfindel aveva fatto scivolare lo sguardo lungo tutta la parete curva, e si ritrovò a fissare la porta da cui era entrato, ancora aperta, ed i due affreschi bellissimi ai lati di essa.

Sulla sinistra, avvolto squisitamente in una lunga tunica color dell’argento, stava un Elfo biondo. Il suo fisico era giovane e sinuoso, ed i capelli, lunghi fino in vita e con le punte dolcemente ricurve, erano del colore pieno del grano maturo. Fu il viso però a stupire Glorfindel, ed a costringerlo ad avvicinarsi. O meglio: la mancanza di esso.

Al posto del volto si allargava infatti una macchia umida e irregolare, come se il disegno originale fosse stato cancellato, e poi rifatto, e poi cancellato ancora, per un’intera eternità. L'ultima applicazione di colore sembrava ancora fresca, e scintillava fioca nella penombra: ma si vedeva che anch’essa era stata subito ricancellata. S’intravedevano solo appena il perfetto arco di cupido della bocca, gli zigomi alti, il naso importante, mentre gli occhi, gli occhi grandi ed espressivi, erano stati cancellati violentemente con dei tratti di nero, come se l'artista frustrato dal suo insuccesso non sopportasse di sentirseli addosso nel buio, ed ora essi spiavano Glorfindel attraverso i segni che li deturpavano.

Scosso, e senza sapere il perché, Glorfindel si costrinse a guardare l’affresco sul lato destro della porta, che però si rivelò altrettanto sconcertante.

Glorfindel vide, ritto contro lo sfondo sfarzoso di una camera riccamente ammobiliata, Erestor.

Portava una veste nella foggia tipica di Gondolin, lunga, e di un colore che sembrava stranamente chiaro sulla sua figura eternamente fasciata di nero. Aveva i capelli corvini lunghi quanto lui era alto, e completamente sciolti, tranne che per pochi ciuffi che dalla fronte erano stati spinti indietro e intrecciati sulla nuca. Due ciocche come nastri di seta gli ricadevano ai lati del viso, lunghe fino a terra.

In braccio a lui c'era un bambino biondo, le braccine tonde avvolte amorevolmente attorno al collo di Erestor, che lo cullava dolcemente, le labbra schiuse come se cantasse una ninna-nanna. Il piccolo viso adagiato nell’incavo della sua spalla era incredibilmente pallido, bellissimo. Gli occhi sembravano zaffiri incastonati nella roccia, le labbra pallidi rubini.

L’impressione che davano era quella forte e tristissima di padre e figlio, infinitamente soli in quello sfarzo esagerato, abbandonati da tutto e tutti, tranne che l’uno dall’altro.

Glorfindel rimase a rimirarli per un tempo infinito, con mille domande che gli vorticavano nella testa, quand’ebbe un’illuminazione: aveva notato come alcuni degli affreschi che l’attorniavano servissero a camuffare delle altre porte. Questo significava forse che dietro la porta da cui era entrato c'era nascosto un'altro personaggio?

Lentamente, Glorfindel protese la mano e spinse la porta. L’affresco del colle si eclissò, rivelando la facciata interna.

Lo stupore esplose dentro di lui in guisa di dolore. Un dolore tremendo e fiammeggiante, che lo paralizzò, pure mentre la sua mente gli ripeteva con ossessione: lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo, lo sapevo…

Incastonato dentro quell'ultimo arco c’era lui, proprio lui, Glorfindel, seduto sulla riva di un fiume, la faccia sorridente e le mani protese nel gesto di applaudire. Dinanzi a lui era seduto un’altro elfo. Vestiva un completo scuro, maglia e pantaloni da caccia foggiati in un morbido tessuto aderente. Dava le spalle al Glorfindel che guardava il dipinto, fronteggiando affettuosamente l’altro, chino verso di lui con una complicità che rasentava l’intimo. I lucidi capelli neri, lunghi a malapena fino alle spalle, erano stretti in un’acconciatura inverosimilmente complicata, e adorni di una tiara di rami d'argento e foglie d'oro. La sua faccia era nascosta, se non per la curva morbida di uno zigomo, appena visibile sopra la spalla, alzata in modo frivolo nell'atto di suonare un flauto d'argento.

La consapevolezza colpì Glorfindel come un dardo al cuore.

Quello era Ecthelion.

 

 

-TBC (?)

 

 

*i nomi sono stati tutti scritti seguendo l’esempio dato nei Racconti Perduti