.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: Stranamente stavolta non ho nulla da dire…

Capitolo 7

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Quella notte, Estel sognò.

Nel sogno, Legolas era accanto a lui, e lo guardava sorridendo. Le sue braccia lo cingevano, gentili, e sul suo volto era dipinto un sorriso radioso. Visto così, potrebbe sembrare un semplice, innocente ricordo, che colmò Estel di una strana, trepidante felicità.

Eppure, improvvisamente, il sognò si trasformò.

Le braccia di Legolas attorno al suo corpo non erano più dolcezza, ma passione. Le sue labbra persero la morbida incurvatura all’insù e si schiusero attorno a un gemito. Gli occhi si velarono per metà con un lento fluttuare delle ciglia. Estel non si sorprese quando, lasciando scivolare le mani sulla sua schiena, la trovò nuda. Si chinò a baciarlo e la bocca di Legolas era lì, calda e umida e inebriante come una coppa di vino.

Al mattino, Estel si svegliò confuso e affatto riposato. Frammenti del sogno gli erano rimasti attaccati addosso, gli si erano insinuati sotto la pelle, e come semi fiorivano in ricordi stupendi – il corpo di Legolas, la passione di Legolas, il sapore di Legolas, Legolas, Legolas… Immagini così reali che per poco Estel non allungò le braccia per cingere l’Elfo che vedeva steso al suo fianco, soddisfatto e sorridente.

Dovette combattere a lungo e strenuamente con sé stesso, per lasciare il letto. Poi, una volta in piedi, la prima cosa che fece fu rovesciarsi addosso l’acqua sottilmente profumata che alcuni Elfi premurosi gli avevano lasciato nell’anticamera per le sue abluzioni.

Turbato, solo e fradicio come un pulcino nell’aria gelida del mattino, Estel pensò distrattamente che quel sogno fosse colpa di Erestor, e di ciò che gli aveva detto il giorno prima. Poi si rese conto che non era così, e sospirò.

Gli Elfi dovrebbero essere creature di puro spirito, niente più che vaghe ombre nel crepuscolo, chiaro di luna, carezze come vento sulla pelle e sussurri melodiosi. Come poteva Legolas essere così conturbante, così incredibilmente fisico nella sua dolcezza, così sensuale nel suo distacco, eccitante nella sua perfezione? Correva voce che Thranduil, in gioventù, fosse rinomato proprio per questa sua esplosiva sensualità: una fattezza rara negli Elfi, che quando si manifestava lo faceva con lancinante perfezione. E Legolas era, dalla punta dei lucidi capelli biondi a quella dei piedi candidi, figlio di suo padre.

Sensualità.

Non innocenza, ma puro peccato.

Conturbante.

Divino.

Una tentazione irresistibile.

“Devi mantenerti puro,” Estel ricordò a se stesso. La sua voce era bassa e tremula. Si nascose il volto tra le mani e sospirò. Era una cosa più facile a dirsi che a farsi.

Fu strappato dalla sua contemplazione da qualcuno che bussava alla sua porta. Curioso, si gettò una tunica sulle spalle ed andò ad aprire, aspettandosi quasi di vedere Legolas sorridergli

(non sorrideva, no, aveva smesso. Ora gemeva: gemeva di piacere)

dal corridoio.

Per sua fortuna (o il contrario) non si trattava affatto del bel Principe biondo. Uno dei gemelli (Elrohir, o forse Elladan: era già difficile dirlo in condizioni normali, figurarsi al mattino presto, dopo una notte come quella che aveva passato Estel) – uno dei gemelli se ne stava a braccia conserte davanti alla porta, il bel corpo fasciato in un completo così stretto che Estel si domandò vagamente come facesse a respirare. Elladan (o forse Elrohir) squadrò Estel da capo a piedi, e dai piedi al capo, prima di rivolgergli un ghigno.

“Entra acqua dal tetto?”

Una delle sue sopracciglia si era alzata in un’esagerata, quanto mal riuscita imitazione dell’espressione più tipica di Elrond. “Oppure devo pensare che avessimo ragione, e tu ci hai veramente escluso da un qualche tuo strano giochino notturno? Com’è andata? Prendiamo Estel, la calda acqua profumata di un bagno, un bel Principe biondo, e possibilmente nudo, assicuriamoci di aver allontanato i gemelli, e poi agitiamo tutto per una notte d’intensa passione?”

Estel lo invitò a tacere con una ricercata quanto complessa espressione gergale in Elfico Antico. Curioso come anche gli insulti suonassero melodiosi, in quella lingua.

Elrohir (o forse Elladan) lo ricambiò scoppiando in una risata cristallina.

“Direi che ti ho beccato con le mani nel sacco, fratellino,” lo canzonò Elladan (Estel era quasi sicuro ormai che quella creatura irritante che gli stava davanti fosse Elladan), “se non sapessi che ti stai sottoponendo al rito di purificazione.” Rimase in silenzio per un attimo, poi gli sorrise.

“E’ difficile, vero?” chiese con voce sorprendentemente soffice.

“Più di quanto tu non pensi,” ammise Estel. “Non posso credere che il Plenilunio sia già così vicino. Eppure a volte sembra quasi un sogno, un sogno che s’agita giusto all’angolo dell’occhio: vicino abbastanza da ingannarmi, ma troppo, troppo lontano perché possa raggiungerlo. Ci sono momenti in cui la consapevolezza che non riuscirò a resistere mi colpisce come una lama. Mi sembra di impazzire. Così vicino… così lontano… e Legolas…” tacque.

“Legolas è una tentazione che cammina, lo so.” Gli diede una pacca rassicurante sulla spalla. “Riuscirai a resistere, vedrai.”

Estel non ebbe il coraggio di dirgli che, per ogni volta che si era convinto di dover e poter resistere, ce n’erano almeno tre in cui aveva pensato che la cosa migliore fosse, assolutamente, col corpo e con la mente, cedere.

(perché quale purezza ci poteva mai essere in una cosa simile?

Rinnegare i propri desideri

                                        la passione

                                                         i sentimenti

Quale purezza ci poteva essere nel negarsi un pizzico di felicità in quel mondo su cui incombevano le tenebre

In cui non c’era sicurezza alcuna

Se non quella del pericolo

                                     della guerra

                                                      del dolore?

                                                                  Non sarebbe stato più puro ammettere ciò che voleva

          e prenderlo

               e fare l’amore con Legolas

                              fare l’amore con Legolas

                                                                                        fare l’amore con Legolas come se non ci fosse nient’altro al mondo, niente di più importante

                                                                        o di più vero

Nient’altro se non loro due

                                      i loro corpi

                                                       la loro passione

 

amore

amore

amore

)

 

Elladan vide la fronte di Estel stringersi in una smorfia, e gli occhi farsi vacui, mentre le labbra si serravano in una linea pallida. Non era un bel sentimento, eppure in quel momento Elladan commiserava il suo fratello mortale. Comprendeva il dilemma in cui si trovava, o almeno ci provava, essendo che lui non era umano e non aveva le stesse debolezze. Sentiva comunque che per Estel non era facile: si trovava ad un bivio, ed entrambe le strade, resistere alla tentazione e arrendesi ad essa, erano egualmente invitanti; c’era una luce calda, e confortevole, alla fine di ognuno dei due sentieri, e dal punto in cui si trovava, Estel non sapeva dei dire quelle delle due fosse la luce vera e quale un pallido riflesso.

Scegliere non è mai semplice.

Quando poi la nostra decisione può influire sulla vita di molti, scegliere diventa addirittura un’agonia, dove la vita minaccia di tramutarsi in una strada costellata di sensi di colpa.

Elladan sospirò.

Poggiò una mano calda sulla spalla di Estel e lo vide sussultare, come se si fosse svegliato in quel momento. Aveva una faccia stanca, e tirata. Gli sorrise, comunque, ed il suo volto s’illuminò.

“Scusami, stavo… pensando,” disse. Elladan trattenne a stento l’ennesima battutina (posso immaginare a chi), e gli strinse la spalla con fervore.

“Vieni, devo mostrarti una cosa,” disse.

“Cos’è?”

“E’ una sorpresa. Vedrai. Sono certo che ti piacerà.” Forse.

 

* * * * *

 

Essendo Glorfindel il Capo delle Guardie di Granburrone, nonché il Maestro delle giovani reclute, gli era stato concesso un intero padiglione privato in cui allenarsi, e di cui solo lui aveva le chiavi. Era un po’ il suo spazio personale, l’angolino segreto che si era ritagliato dentro Granburrone per potervi respirare.

La gente di solito si riferiva ad esso come al Padiglione Luminoso, o il Padiglione della Fresca Luce. Si trattava più che altro di un balcone: un balcone immenso che si apriva nell’angolo più alto della Casa, tutto bianco - bianco pavimento di marmo, bianche colonne svettati che reggevano un soffitto bianco scolpito, alto come gli alberi più antichi della valle. La luce, lì, la luce entrava tutto il giorno, si riversava dagli immensi spazi tra colonna e colonna come cascate d’acqua, silenziose, però, e bellissime, ed anche di notte le fredde stelle baluginanti ed il chiaro di luna accendevano tutto quel bianco, lo rendevano vivo, e non c’era mai ombra, o calura, perché quel balcone era così alto, e l’aria così rarefatta, che un fresco umido lo permeava sempre, persino nelle stagioni più calde.

Fresca Luce.

Estel non aveva più visto quel posto dal tempo in cui gli fu concesso come dono di compleanno (cosa strana, il compleanno, che gli Elfi non festeggiavano mai, non il loro almeno, perché festeggiavano sempre quello di Estel) – gli fu concesso di andarsi ad allenare lì, con Glorfindel, come se quello scricciolo infagottato nel cappotino blu fosse un vero guerriero, forte e valoroso, e la spada di legno che reggeva fosse un’arma micidiale.

Ora che ci era tornato, lasciò vagare lo sguardo in quel mondo strano, così bianco, così immacolato e lucido. Sulle pareti sfilavano in bella vista vari tipi di armi, spade, archi, frecce e persino lunghe alabarde dorate. Qui e lì un’armatura silenziosa faceva la guardia. A distanza eguale tra loro, due al fianco di ogni armatura, c’erano degli stendardi appesi su lunghe aste. Estel notò con un moto di malinconia che erano tutti stendardi di Gondolin, riproduzioni fedeli della varie casate che un tempo l’avevano abitata: quella del Fiore Dorato, di cui aveva fatto parte Glorfindel una vita prima; quella del Pilastro; quella della Torre di Neve, dell’Arco Celeste, dell’Albero, dell’Arpa…*

Estel provò uno strano rimescolio nel notare che un solo stendardo mancava: quello del popolo della Fonte, il cui capo era stato Echtelion, amico intimo

(unico amore)

di Glorfindel, morto al fianco del suo compagno

(amante)

nella caduta di Gondolin, tanti, tanti secoli prima.

“Come hai fatto a procurarti la chiave?” chiese Estel, cercando di dimenticare la malinconia che quell’amore sfortunato gli portava: soprattutto perché temeva, temeva in modo infantile, che il pensare a una tale sorte la facesse capitare, ed anche il suo amore sarebbe stato così stroncato prematuramente da un destino avverso.

“E che ci facciamo qui?” Aggiunse, una volta notato che Elrohir se ne stava in un angolo, seduto quietamente dietro la sua arpa. C’erano anche altri strumenti disposto accanto a lui: liuti, lire, flauti e persino campanellini d’oro e d’argento.

“Ci alleniamo!” rispose cinguettando Elladan. Fece un cenno col capo al fratello, che attaccò a suonare un’aria dolce e frizzante, molto gioiosa.

“A fare *cosa*?” replicò Estel, tutto occhi, quando il fratello lo prese per le braccia ed iniziò a farlo volteggiare per la sala.

“Ma a ballare, sciocchino!” Fece un suono di disapprovazione sbattendo la lingua contro i denti, ma non smise mai di sorridere. “Estel, lo sai o no, che una volta terminata la cerimonia voi piccioncini dovrete dare inizio alle danze e ballare fino al mattino?”

Estel impallidì.

“Io non so ballare!” uggiolò.

“Ecco perché siamo qui!”

“…”

 

* * * * *

 

Glorfindel rientrò che era ormai buio pesto.

Durante il giorno avevano avvistato piccoli, veloci gruppi di Orchi, accampati o in corsa, in tutte e quattro le direzioni – nord, sud, est ed ovest. Non c’era stata battaglia, no: quei gruppetti isolati ed evidentemente disorganizzati non costituivano una minaccia, data la loro distanza. Però Glorfindel non si era lasciato tranquillizzare dalle apparenze, ed aveva cavalcato tutto il giorno, da un appostamento ad un’altro ad un altro ancora, informandosi della situazione, riportando ciò che accadeva agli altri confini, e più che altro diramando ordini e consigli.

Ora che finalmente la giornata era volta al termine, Glorfindel si sentiva esausto. Eppure, persino mentre avanzava ondeggiando per i corridoi deserti, si ripromise di non andare a dormire prima di aver parlato con Erestor: aveva trascurato il loro piano per tutto il giorno, ed ora che si sentiva tranquillo per la situazione ai confini, la cosa lo imbarazzava un poco. Non poteva permette che Estel si sposasse con qualcuno che non era Legolas. Non se il prezzo da pagare era la salvezza della Terra di Mezzo.

Svoltò assonnato dietro un angolo, e si stupì di incontrare proprio la persona a cui stava pensando: Legolas.

Era in piedi in un fiotto di luce nebbiosa, vestito in una lunga tunica formale di un bianco azzurrino, leggera e scintillante. I lunghi capelli erano sciolti, e ricadevano liberi sulla schiena, lisci, tranne che per le ciocche centrali, più lunghe, e leggermente inanellate in fondo. Dava le spalle ad un affresco dell’Ultima Alleanza, un opera eccellente che mostrava l’attimo esatto in cui Sauron veniva sconfitto. Il dito maligno, tranciato via di netto dal resto della mano, era una macchia scura al centro della geometria di forme. Gli occhi di Sauron brillavano follemente, e la sua figura emanava un’aura così raccapricciante che ben pochi Elfi s’attardavano davanti a quell’immagine, sconvolti dalla palpabile malvagità che trasudava.**

Legolas, comunque, non aveva occhi per quell’immagine sconcertate. Fissava meditabondo i frammenti scintillanti di Narsil, offerti alla sua vista da una statua reverente. Un’immagine commovente di donna che reggeva il prezioso fardello tra le belle mani protese, quasi fosse il suo figlio neonato.

Nella sua immobilità, Legolas pareva anch’egli una statua, pallida e bellissima. Si riscosse al suono del suo nome. Si voltò, e per un attimo fissò Glorfindel con un misto di tristezza e preoccupazione. La sua espressione mutò così repentinamente in un sorriso radioso che Glorfindel si disse di aver immaginato tutto.

“Glorfindel!” Il Principe andò verso di lui, spandendo attorno barbagli di luce ad ogni passo. Glorfindel gli aprì le braccia e lo strinse.

“Ah, Principino. Che ci fai sveglio a quest’ora, quando tutti si sono già ritirati da tempo?” Si scostò gentilmente, e di nuovo pensò di vedere sul volto di Legolas quell’espressione sofferente.

“Meditavo,” ammise il Principe.

“E quale pensiero oscuro ci sarà mai in questa bella testolina, da toglierti il sonno?” così dicendo, gli picchiettò con un dito gentile sulla testa. Legolas sorrise debolmente. Lanciò uno sguardo colmo di struggente desiderio alle sue spalle.

Glorfindel lo seguì, e si ritrovò a fissare Narsil adagiata nella sua culla di pietra.

“Quella appartiene ad Estel,” disse Glorfindel. Legolas annuì, lentamente. “Lui è l’Erede di Isildur, lo sapevi? Il suo vero nome non è Estel, ma Aragorn, figlio di Arathorn.”

Aragorn…” sussurrò Legolas. Roco, tremulo, dolce: il suo tono sorprese e fece rabbrividire persino Glorfindel, tant’era carico di sensualità e sentimento. Per un lungo momento nessuno dei due disse niente. Fissavano la statua ed il suo prezioso carico. Il vento, smuovendo nuvole e fronde, disegnava un arabesco d’ombra sul pavimento, una creazione in continuo movimento.

Glorfindel si ricordò improvvisamente, e con una vaga tristezza, che l’amore, l’amore quello vero, prende possesso di un Elfo con un singolo sguardo, senza bisogno di parole, e poi non lo lascia andare per tutta l’eternità. Se Estel era davvero il Vero Amore di Legolas, allora quel loro strano incontro due giorni prima era stato l’inizio della fine di Legolas. Perché Estel, amato, coraggioso, caro Estel, era mortale. E forse Legolas, persino in quel momento, stava già svanendo, lentamente e senza speranza di salvezza, come ogni Elfo condannato a vivere senza il suo amore.

“Glorfindel…Tu credi che sia possibile amare qualcuno, senza rendersene conto? Credi che sia possibile per un Elfo andare avanti, pretendendo una felicità che non prova, proclamando un amore che non sente, senza accorgersi che il suo cuore, no, la sua anima, tutto il suo essere, appartengono invece a qualcun altro? Qualcuno che quest’Elfo, nell’ignoranza del suo cuore, si ostina a trattare come un semplice amico?”

“Un Elfo,” chiese Glorfindel, “O piuttosto un Uomo?

Legolas non rispose. Si strinse un po’ di più nelle spalle, quasi avesse freddo. Il suo sguardo era ancora fisso sulla statua.

“Legolas…” esitò un attimo. Gli poggiò una mano gentile sul mento, e con una lieve pressione lo fece girare fino ad incontrare il suo sguardo. “E’ a lui che ti riferivi? A Estel? Credi che nel suo cuore lui sia innamorato di qualcuno, ma nonostante questo pretenda di amare un’altra persona?” gli occhi di Legolas si sgranarono, improvvisamente immensi nel volto pallido.

“Glorfindel, io… … … … No…”

“Shhh. Non dire niente. Legolas, potrai non crederci, ma…” esitò ancora. Poteva dirlo. In fondo ci credeva, anche se poco, anche se la sua era solo speranza, pallida speranza, e questo rendeva quella piccola bugia un po’ più vera. Inspirò a fondo, come se cercasse coraggio.

“Io penso… credo… Legolas, Estel ti ama. Ne sono certo. Hai visto il modo in cui ti guarda? Le reazioni che ha quando ti sfiora? Io lo credo, lo credo fermamente,” e Glorfindel si stupì di quanto ciò fosse vero.

“Estel ti ama,” ripeté, quasi cercasse di assaporare le parole, lentamente, dopo che la prima volta aveva scoperto quanto gli piacevano.

Legolas distolse lo sguardo. I suoi occhi vagarono inquieti sul pavimento, lucidi di tristezza.

“Non mi hai risposto,” disse infine. “Può un Elfo amare qualcuno, e non rendersene conto?”

“Non lo so, Legolas. Forse. Il cuore e la mente funzionano in strani modi, e raramente sono d’accordo su qualcosa.”

“E credi che costui possa andare avanti all’infinito, ignorando ciò che prova, oppure un giorno, inesorabilmente, aprirà gli occhi e vedrà ciò che ha sempre avuto davanti, e prenderà atto dell’amore che sente?”

“Io… non lo so, Legolas.” Legolas lo guardò negli occhi. Sembrava guardare contemporaneamente su, attraverso e dentro di lui, fino a posti e tempi remoti nel passato di Glorfindel. Il guerriero biondo sentì una strana urgenza di rispondere, di dire qualcosa, qualsiasi cosa.

“Però posso dirti che l’Amore è un sovrano crudele, e non ammette disertori. Così che quando un Elfo ama davvero qualcuno, e lo perde, poi non amerà più nessun’altro. Mai più,” disse.

“Oh, Glorfindel.” Legolas gli carezzò teneramente la guancia. “Perché continui a vivere in questo modo crudele? Perché ti avvolgi di una tale desolante tristezza, e te la tieni stretta, come fosse il tuo unico riparo contro il mondo? Credi che non sappia cosa pensi, o cosa provi, o a chi ti riferivi con quelle tue parole? Glorfindel, Glorfindel! Non essere così malvagio con te stesso! Non nasconderti dietro una felicità che non senti.”

“Un tempo ero davvero così,” rispose Glorfindel lentamente. “Un tempo non avevo bisogno di fingere, perché ero felice, e lo ero sul serio. Avevo tutto ciò che potevo desiderare. Ma da quando mi è stato strappato, io non sono più lo stesso. Non lo sarò mai più, senza Echtelion.” La sua gola si strinse in un singhiozzo. “Nonostante io sia rinato, qualcosa di me è rimasto morto, rinchiuso nell’aldilà, e non tornerà mai in vita.”

“Ed è per questo che ti fingi allegro senza motivo? Spensierato, frivolo, sereno? E’ per questo che ti abbandoni nelle braccia di gente che non ti ama, e che non ami? Per dimenticare?”

“E’ l’unica cosa, Legolas. L’unica cosa che riesce a scacciare la tristezza, l’oblio, l’oscurità che sento crescere dentro di me, quella disperazione senza fine, come se una notte eterna mi avvolgesse, senza speranza di luce.

“L’unica cosa che mi mantiene sano è quello Legolas: è la Passione. Perché quando sento, quando sento col corpo, con tutto il corpo, allora non ho bisogno di sentire col cuore, e la sua voce lamentosa si spegne, anche solo per un attimo, e smette di invocare l’altra sua metà, il suo doppio, il suo riflesso: Echtelion.” Scosse la testa, come se volesse liberarla da pensieri assillanti. “Solo quello mi dona un attimo di pace, anche se tormentata, poi, dai sensi di colpa. Quello, ed il dolore. Il dolore fisico. Il dolore di una lama che scivola nella carne, del sangue che scorre senza freno, del veleno che corrompe. Mi biasimi, se ho scelto di mantenervi vivo grazie al Piacere?”

Legolas scosse la testa. I capelli, liberi da ogni costrizione, gli ondeggiarono come un velo contro le guance.

“Io non ti biasimo, Glorfindel. Ma non posso vederti così. Ti voglio bene: come puoi pensare che mi metta in disparte a guardare mentre ti distruggi? No,” scosse ancora la testa, “Ciò che voglio è aiutarti, Glorfindel.”

“Non puoi.”

“No, non posso. Solo tu puoi aiutare te stesso. Ma ascoltami: ascolta le parole di chi ti vuole bene! Non continuare a vivere immerso nei ricordi, limitandoti ad esistere, più che vivere, nascondendo sempre il tuo vero volto e il tuo vero cuore. Tanto tempo fa hai conosciuto il Paradiso, l’hai amato, e poi l’hai perduto. Ora è tempo per te di rimboccarti le maniche e riconquistare quel Paradiso, anche se la posta in gioco fosse l’intera Terra di Mezzo.”

“Amare di nuovo, dici? No, non posso. Non potrei mai. Non qualcuno che non sia Echtelion.”

“Forse l’Amore che rinneghi esiste già, Glorfindel. Apri gli occhi. E forse questo basterà a farti vedere ciò che hai sempre avuto dinanzi. Sempre.”

Inclinò il capo, e con quel leggero inchino si ritirò, assorbito dalle ombre cangianti della notte come se si fossero fuse con lui. Glorfindel fissò a lungo le braccia protese della statua, poi si voltò.

La sua giornata non era ancora finita: prima di andare a dormire, doveva vedere Erestor.

Doveva vedere Erestor.

 

 

-TBC (?)

 

 

*Tutte casate indicate nei “Racconti Perduti”

**Insomma il luogo dove Boromir e Aragorn (e successivamente Aragorn e Arwen) si incontrano ne “La Compagnia dell’Anello”