.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: Love is in the air… again.Solo che stavolta la cosa è molto più smielata e meno fisica. A proposito: dite che è troppo ossessiva ‘sta cosa del bambino…?

Capitolo 6

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Glorfindel era seduto a gambe larghe sopra la coperta, all’ombra di una quercia, con Erestor acciambellato contro il petto come un grosso gatto. Gli carezzava lentamente i capelli, lo sguardo fisso dinanzi a sé, come se scrutasse cose conosciute solo a lui, antichi sogni o memorie perdute. Erestor si lasciava accarezzare, cullare, immobile e quieto, gli occhi appena socchiusi e colmi di torpore.

Avere quelle visioni lo prosciugava completamente, sia sul piano fisico che su quello emotivo. Grazie a quel suo dono maledetto, Erestor aveva scoperto (cosa che dal suo punto di vista di studioso l’aveva sempre affascinato) cosa provavano i mortali quand’erano ammalati. Brividi, tremiti, la temperatura che s’alzava e s’abbassava fino agli estremi, il senso di nausea, la vista annebbiata, la testa pulsante, vacua, le membra spossate ed imperlate da un fine velo di traspirazione… tutti sintomi che un comune Elfo considerava alla stregua di leggende lette nei libri, spauracchi per gli Elfetti capricciosi che non volevano andare a dormire la notte, ma che Erestor conosceva fin troppo bene.

Sospirando, Erestor puntellò i palmi sul petto di Glorfindel e si spinse in posizione seduta, ondeggiando lievemente per lo sforzo, e rifiutando aiuto si abbandonò languidamente contro il tronco dell’albero. Appena fuori dalla portata delle loro braccia, il pesce abbrustoliva lento, infilzato agli spiedi disposti a cerchio attorno al fuoco. Spandeva un fumo grigio, oleoso, che s’alzava in lente, torturate volute nell’aria tersa. L’odore penetrante, vagamente speziato, di per sé era invitante, ma ad Erestor fece serrare lo stomaco in una morsa acida di dolore. La nausea divenne tutt’una col dolore pulsante alla testa.

Distolse lo sguardo.

Poco più giù, in piedi sulla riva del lago, la figuretta traslucida del bel bimbo biondo lo fissava assorta, la bambolina egualmente pallida e perfetta del cavaliere stretta al petto. Erestor gli sorrise. La sua piccola sagoma prese a farsi evanescente, tremolando come un miraggio.

Naturalmente.

Non era mai stato lì.

“Erestor?”

La macchia indistinta che era la testa del ragazzino si ricompose lentamente a formare il viso di Legolas. Gli stessi capelli biondi. Le stesse labbra seriche, gli occhi blu colmi di struggente desiderio. Sentì una mano sfiorargli la guancia.

“Hm?”

“Stai bene?” Improvvisamente si rese conto che la figura del bimbo era troppo piccola per coincidere con quella di Legolas in quel modo, e come se il prenderne coscienza lo rendesse vero, quella se né staccò e si rimpicciolì.

Eppure questo servì solo ad acuire ulteriormente la somiglianza: L’Elfo biondo con premuta sul petto l’immagine in miniatura di un identico Elfo. Quello Vero e la Bambola. La Bambola e Quello Vero.

“Si, certo.” Sbatté le palpebre, e l’illusione svanì. Davanti a lui c’era solo Legolas. “Benissimo. Stavo solo pensando.”

 

Estel e Legolas erano finalmente riapparsi dai cespugli che li avevano inghiottiti parecchio tempo prima: una distesa di infinite tonalità di verde intersecate fra loro, che fiancheggiava la parete di roccia a nord. Avevano le braccia colme di bacche e frutta selvatica, e ridacchiavano come Elfetti. Erano emersi più o meno nello stesso punto da cui il bimbo stava a fissare Erestor, l’avevano attraversato in uno strano gioco di luci riflesse che l’aveva fatto tramutare in Legolas

(e Legolas in lui)

e ora continuavano a salire verso i due Elfi, protendendo le braccia ricolme di forme colorate.

“Stavo solo… ricordando.”

Legolas lo sentì. Alzò lo sguardo su di lui, inclinando la testa con fare interrogativo.

“Cosa?”

Erestor scosse la testa. Pareva quasi volesse liberare la sua mente da fitte ragnatele che la rendevano lenta e opaca.

“Nulla.” Forzò un sorriso. “Ci avete messo molto, eh? Forza, a me puoi dirlo: che ti ha fatto? Qualcosa di indecente?” Legolas lo fissò, gli occhi immensi nell’incavo del volto, e sbatté le palpebre, una volta, vagamente sorpreso. Non mosse un muscolo. La reazione di Estel fu molto meno dignitosa: arrossì, la sua lingua incespicò nelle frasi smozzicate che tentò di pronunciare, e per poco non lasciò cadere la frutta che portava in braccio. Glorfindel gli scoppiò a ridere in faccia. Evitò per mera fortuna la manciata di more che Estel gli tirò in testa.

Finalmente, Legolas si mosse. Scrollò le spalle.

“No.” Si fece più avanti, e con lentezza iniziò a posare il suo fragile carico sulla coperta.

“Ah! Peccato,” lo stuzzicò Erestor. Legolas scrollò ancora le spalle. La sua risposta rischiò di far cadere Estel lungo disteso.

“Già.”

 

* * * * *

 

A riguardare indietro, il pranzo andò più che bene, nonostante fosse colmo di attimi imbarazzanti, silenzi, e moltissima tensione: ad esempio quella che intercorreva tra Estel ed Erestor.

L’Elfo se ne stava lì, a guardare Estel giocherellare col suo spiedino per poi spingerlo, discretamente e senza farsi accorgere, di nuovo vicino al fuoco, con Legolas che ridacchiava divertito ogni qualvolta Glorfindel, beatamente inconsapevole, s’avventava su quello stesso spiedino, mentre Estel, sorridendo privatamente, lasciava scivolare una mano nel mucchio di bacche, noci e frutta che avevano colto per Legolas, e si portava un piccolo, succoso frutto lucido alle labbra.

In quei momenti, Erestor provava l’impulso irrefrenabile di cacciare giù in gola ad Estel un parte del pesce che Glorfindel aveva pescato ed arrostito, così, anche solo un morso, una briciola, tanto per essere sicuri di distruggere completamente (ed in modo del tutto accidentale, ovviamente) il suo rito di purificazione. Estel pareva avvertire quell’istinto ostile, perché ogni volta s’irrigidiva, sussultando, così che i due spesero il resto del tempo a fissarsi di sottecchi, sospettosi come gatti, dai due lati opposti della coperta.

Ad essere sinceri però, c’era anche un’altro tipo di tensione ad agitarsi nell’aria, altrettanto intensa, ma di natura molto, molto, diversa - quella che passava tra Estel e Legolas.

Con somma soddisfazione di Erestor ci fu un momento in cui i due Principi, quello mortale e quello immortale, si sfiorarono inavvertitamente con le dita, giusto un tocco, sulla superficie fresca e tempestata di goccioline luminose di un vellutato frutto rosso.

Si bloccarono entrambi.

Si guardarono.

Le loro dita ebbero uno scatto, si protesero, quelle di Legolas verso di Estel e quelle di Estel verso di Legolas, come se volessero intrecciarsi insieme, e non lasciarsi mai più.

Le fermarono in tempo.

Eppure Erestor riuscì a vedere, nello spazio esigue ed immenso che separava i loro corpi, raggi di morbida luce pulsante intrecciarsi, fili d’oro colato e ambra luminosa che s’irradiavano da Estel, mentre trame d’argenteo chiarore lunare e smeraldine s’emanavano da Legolas.

In quel momento, dilagò in lui la fuggevole certezza che tutto sarebbe andato bene: Estel si sarebbe innamorato perdutamente di Legolas, avrebbe restituito ad Arwen la sua Evenstar tra mille lacrime e sospiri, per poi precipitarsi nell’abbraccio del suo biondo amore, del suo Principe splendente, ed insieme i due avrebbero percorso il cammino che li avrebbe condotti fino a sconfiggere Sauron, e a salvare la Terra di Mezzo.

Erestor sospirò.

Perfetto.

Semplicemente Perfetto.

 

* * * * *

 

Le fresche tenebre della sera erano già calate, e piccole stelle come diamanti tempestavano il cielo sgombro di nubi quando i quattro fecero ritorno a Granburrone. La tranquilla serenità della notte era rotta solo dalle risate gorgheggianti, dai canti sinuosi – suoni di gioia pura che sollevavano lo spirito. Corpi agili e slanciati scivolavano tranquilli sotto file di lampioncini accessi, le luci morbide delle fiammelle filtrate da fogli di sottile carta colorata – rosa, gialla, lilla, verde, arancio – in un arcobaleno fluido. Tutti vestivano abiti di una quieta eleganza, semplici eppure bellissimi, seta, velluto e veli multicolori che frusciavano dolcemente nella brezza, lunghe vesti che fluttuando rivelavano il lampo candido di una snella caviglia color latte, pantaloni a guaina stretti attorno a curve più sensuali di quanto una qualsiasi parte dell’anatomia umana potesse aspirare ad essere.

I quattro vagavano in silenzio per i giardini, Erestor e Glorfindel davanti, uno di fianco a l’altro, mentre Estel e Legolas li seguivano. Si separarono subito dinanzi all’entrata principale della Casa di Elrond: i mille impegni di Erestor gli impedivano di coricarsi troppo tardi, ed anche Glorfindel, incaricato d’ispezionare i confini al mattino, non poteva permettere che il sonno annebbiasse la sua mente. Si salutarono con un decoroso cenno del capo. Poi Legolas stampò un bacio sulla guancia di Erestor, e ridendo trascinò via Estel.

I due si addentrarono nuovamente nei giardini, sussurrando più che parlando, perfettamente a loro agio con solo pochi centimetri a separarli, vicini, ma non abbastanza da toccarsi. Legolas parlava quietamente, come se ogni parola fosse una nota, e lui lo strumento che le suonava: parlava di Granburrone come di un luogo irreale, stupendosi grandemente quando qualcosa attorno a loro faceva scattare la sua memoria. Un basso albero contorto, una panchina di pietra bianca, un cespuglio di rose abbarbicato come un manto attorno ad una statua antica.

Estel era affascinato dal corpo armonioso che si muoveva al suo fianco, leggero ed elegante, insolitamente sensuale nel gioco di luci ed ombre della sera. Parlava poco: perlopiù si limitava ad annuire, percorrendo distrattamente e quasi senza guardarle le tortuose stradine tracciate nel verde. Ad un certo punto, virò così bruscamente dietro una siepe che Legolas, pur di non perderlo, infilò il braccio sotto il suo. La bella testa bionda si posò, come la corolla di un fiore pesante di rugiada, sulla sua spalla. Non c’era nessuno attorno a loro. Solo ombre, e le alte siepi che si diradavano in corridoi labirintici e senza senso. Di nuovo, Legolas si lasciò guidare senza parole.

La strada sotto i loro piedi perse improvvisamente d’importanza: non avevano una meta che li assillasse, né nulla che li inseguisse. Si limitavano a muoversi, così, senza badarci, attraverso tutta quella bellezza – la stradina lastricata che conduceva al gazebo biancheggiante sotto l’edera; i roseti incantati gravidi di fiori splendidi più dei rubini; l’erba frusciante bagnata dalla luce delle stelle; la sagome fantastiche degli alberi, avvolte in veli di nebbia scintillante. Non avevano fretta. Semplicemente, si lasciavano condurre avanti, Estel dal suo cuore, e Legolas da Estel. Il tempo non aveva significato. Si sentivano a casa, lì, insieme nel centro del nulla, più di quanto fosse mai capitato loro.

Legolas sospirò.

“E’ affascinante guardarti mentre ti aggiri per questi luoghi. E’ come vedere uno spirito silenzioso sgusciare tra le luci e le ombre del suo dominio, una creatura regale che avverte i tenui segnali segreti della natura che lo circonda, segnali che solo lui può comprendere.” Fu con un intimo senso d’orgoglio che Estel gli rispose:

“Conosco questi giardini come nessun’altro. Sono da sempre il mio rifugio segreto. Non c’è angolo qui che non mi abbia accolto tra le sue ombre quand’ero spaventato o triste, o semplicemente giocavo a nascondino coi miei fratelli*”

Sorrise. Adorava sentire quella creatura incredibile affidarsi così completamente a lui. Legolas strinse il suo braccio un po’ più forte. La sua testa si abbassò impercettibilmente più in basso.

“Durante il mio soggiorno qui non lasciavo mai le mie stanze. Se lo facevo, era solo per recarmi nello studio di Erestor, o al campo d’addestramento di Glorfindel, o per correre lontano, sotto al luna, nei boschi, dove non c’era nessuno che potesse fermarmi. Non conosco affatto Granburrone, eppure, se solo potessi, io…” esitò un momento. Scosse la testa.

Estel provò ad immaginarselo, quel bimbo squisito chiuso tra mura gigantesche, freddamente scolpite: un punticino di colore luminoso, infelice, disperato e solo, oh, così terribilmente solo. Provò un moto di pietà per lui, una pietà amara, perché Legolas aveva sofferto immensamente lì, in quel luogo che Estel adorava. Sentì un groppo salirgli in gola e togliergli il fiato. Si voltò, e senza pensare, come se le parole fluissero da sole, dotate di volontà propria, promise in un fil di voce:

“Ma ora ci sono io con te. Ogni cosa che vorrai vedere, te la mostrerò. Ogni cosa che vorrai sapere, te la spiegherò. Non ci sarà storia, o canto, che mi rifiuterò di ripeterti. Né dono che non ti farò, se solo me lo chiederai.” Estel tremò nel sentire il sentimento che permeava la sua voce.

Legolas non disse nulla, ma premendogli il palmo dolcemente sul braccio lo costrinse a fermarsi. Si portarono l’uno dinanzi all’altro. Sotto di loro, un ponticello di pietra arabescato di rampicanti. Attorno, una cascata canterina da una parte, e la Casa con le sue luci sfumate dall’altra. Sopra, nient’altro che il cielo infinito.**

“Mostrami il tuo mondo,” mormorò l’Elfo. Il suo tono era morbido e cadenzato, un sussurro  sottilmente eccitante. “Non solo entro i confini di Granburrone, per belli che siano. Mostrami ciò che giace aldilà. I luoghi che tu vivi, e di cui io ho solo sentito cantare. Mostrami le città degli Uomini, i campi bagnati dal sudore delle loro fronti, le dimore anguste tra il verde, ed i palazzi scintillanti come perla. Mostrami il mondo, così come lo vedono i tuoi occhi, così come lo vive il tuo cuore. Mostrami il Mondo, Estel. Il tuo Mondo. Vuoi?”

Lo Voglio.***”

 

-TBC (?)

 

 

*Estel si riferisce ad Elladan ed Elrohir

**Insomma il luogo dove Arwen dà l’Evenstar ad Aragorn nel primo film della trilogia…

***Era mia intenzione far si che la parte finale del dialogo ricordasse uno scambio di promesse nuziali… (lo vuoi? Lo voglio). Dite che ci sono riuscita?