.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: Devo avvertire i lettori che questa storia si svolge quando Aragorn è ancora un ragazzo di circa venti/ventiquattro anni, che ha da poco scoperto le sue responsabilità come erede di Isildur. Visto il periodo in cui ho idealmente collocato la storia nella timeline Tolkeniana,  l’età “vera” di Aragorn si dovrebbe aggirare sui 50 anni circa. Preferendo però narrare di un giovane Aragorn, ho rimescolato un po’ le carte in tavola, e oplà! Gli son spariti 30 anni dal groppone... ;>

Per quanto riguarda Legolas invece, ho inventato un sistema per cui gli elfi invecchiano in modo diverso dagli umani: quindi, sebbene la sua età sia di parecchi secoli, in termini elfici il nostro Lego è solo di poco più grande di Ara (ventitre/ventiquattro anni).

Capitolo 2

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Glorfindel si trovò per la seconda volta nell’arco di una sola giornata a intrufolarsi non invitato nella stanza di qualcuno. Anche stavolta, come la prima, si affacciò in un mondo tutto nuovo, fatto di sensazioni familiari e uniche.

Com’era strana -così bizzarra!- la camera di Estel. O almeno, lo sembrava agli occhi di un Elfo. Chissà che tutte le stanze dei giovani mortali non fossero come quella: impregnate di una strana energia, un istinto appena represso di muoversi, scattare, come animali selvatici, unici padroni di se stessi, che sentendosi addosso gli occhi di qualcuno si fermano, e lo guardano negli occhi, pronti a guizzare via, agili, e nient’affatto impauriti. Come se la vita, tra quelle pareti, stesse sul punto di esplodere, ed ogni cosa, si, anche quei particolari insignificanti gettati qua e là alla rinfusa, sembrava circondata da un significato più profondo, come reliquie di un ricordo, o chissà, di un rimpianto.

Ad essere sinceri, Le stanze di Estel ricordavano un po’ le sue, ammise Glorfindel. Caotiche e solari e ricolme fino a traboccarne di ricordi particolari. Sorrise, e dentro di sé non poté fare a meno di comparare la vivace esuberanza delle due stanze con la tranquilla sobrietà dello studio di Erestor. Due opposti così perfetti che non potevano non venire collegati. Complementari, si. Ecco la parola giusta. Complementari. Come luce e buio.

Glorfindel fece un passo avanti, poi un altro. Poi i suoi occhi si posarono su Estel, steso sul letto con ancora addosso i suoi abiti da caccia, le braccia tese come verso qualcuno che non c’era. Come del resto la sua stanza, anche il corpo di Estel, nella sua immobilità, era un capolavoro di movimenti minuti e vivaci.

Dietro il velo delle palpebre, i suoi occhi si muovevano incessantemente, intenti, quasi certamente, su una qualche creatura meravigliosa. Le sue labbra erano curvate nel sorriso dolce e malinconico di chi sogna, e nel sogno vede una cosa amata; ed intanto si muovevano, lievemente, un movimento quasi impercettibile, da cui nascevano parole come sospiri. Attorno al suo collo baluginava fioco, come una stella dolce e languida, un gioiello appena visibile tra le pieghe del lenzuolo.

Che sia l’Evenstar, quella? Possibile che si sia giunti a questo? E se la profezia di Erestor dovesse avverarsi? Che accadrebbe allora? Eh, Estel?

Intento a scoprire la natura del gioiello, Glorfindel scavalcò silenzioso il gradino all’entrata e si accucciò accanto al letto, mentre la fronte di Estel si stringeva improvvisamente, disegnando una smorfia di dolore che un’altro, radioso sorriso fece scivolare via come acqua. Glorfindel, stupito, guardò Estel aprire lentamente gli occhi, mormorando un’ultima volta un qualcosa di dolcissimo: un nome, forse, o una strofa d’amore. La sua mano si alzò e si chiuse quasi di sua volontà attorno alla strana gemma, ed Estel esalò un’altro sospiro. Un sospiro da innamorato. Fece un movimento come per portarsi la gemma alle labbra, poi alzò gli occhi. Lo vide. Vide Glorfindel dinanzi a sé che lo studiava intento, che scrutava ad occhi stretti la sua collana. Estel si affrettò a riporla al sicuro sotto le pieghe della sua maglia, ed emerse lentamente, alla stregua di un felino braccato, dalle coperte sgualcite.

“Glorfindel?” chiese, senza traccia di sonno nella voce. Il cuscino aveva lasciato solchi rossi e profondi sulle sue guance accaldate, ed i suoi occhi brillavano di una lucidità sospetta. Era, in poche parole, una creatura pericolosa.

Glorfindel scrollò spalle, e con movimento lento e calcolato si allontanò dallo spazio privato di Estel, si alzò, e senza girarsi indietreggiò e si lasciò andare sulla sediola di quercia scura posta accanto all’armadio. Le spalle di Estel si rilassarono visibilmente. Le sue nocche recuperarono un po’ di colore quando lasciò andare la stretta spasmodica che aveva del gioiello nascosto sotto maglia. Abbozzò un sorriso e si guardò intorno, fissando il letto vuoto per metà stupito e per metà rattristato. Poi tornò a fissare Glorfindel, che ostentava un ghigno troppo malizioso per un volto elfico.

“Buongiorno, bell’addormentato!” lo punzecchiò.  Estel gli lanciò un cuscino.

“Che ci fai qui?” sbottò. Poi, con voce leggermente più acuta: “E’ successo qualcosa?”

Glorfindel si limitò a fare spallucce.

“Si e no.” Estel, conoscendo la luce strana che gli animava lo sguardo, si mise a sedere sul letto e prese ad allacciarsi gli stivali.

“D’accordo…e quanto è grave?”

“Hmm… molto.” Estel prese la spada. Poi la rigettò sul letto, nel punto ancora caldo in cui il materasso aveva preso la forma del suo corpo dormiente, e scosse la testa. Si girò, giusto in tempo in tempo per vedersi atterrare in pieno volto la veste damaschinata che Glorfindel gli aveva tirato contro. L’afferrò di scatto e si liberò, ma ahimè! non fu abbastanza veloce da placcare Glorfindel, che saltandogli addosso gli bloccò le braccia. Né poté fermarlo quando questi, come una mamma tutta eccitata al debutto del pargoletto, iniziò a forzarlo negli abiti più assurdamente eleganti e ricercati mai usciti dal suo guardaroba. Fortunatamente per Estel, (e sfortunatamente per Glorfindel, che fece del suo meglio per vederla) la gemma attorno al suo collo rimase per tutto il tempo celata.

 

* * * * *

 

Legolas guardò le intricate guglie di Granburrone stagliarsi dinanzi a lui, come canne di un organo di vetro che tremolino nel calore del sole, intrise di mille colori riverberanti. Quale magnificenza! Se fosse stato ancora un giovane fanciullo, Erestor sicuramente l’avrebbe esortato a comporre dei versi per descrivere una tale vista.

Legolas sorrise tra sé e sé. Si, Erestor avrebbe magicamente prodotto carta e pennello da una qualche tasca invisibile della sua veste color inchiostro, e l’avrebbe fatto sedere, ricordandogli in un sussurro paziente le regole del comporre – la struttura categorica dei versi, le metafore più dolci e le più esotiche, le affettazioni della calligrafia.

Eppure Legolas avrebbe lasciato il foglio bianco, esasperando il suo antico maestro, così che la sua faccia solitamente lucida come il ghiaccio si torcesse in un’espressione falsamente arrabbiata, poi sconfitta, e poi in un sorriso assecondante. C’erano viste che, secondo Legolas, non potevano essere descritte, nemmeno se esortati da un maestro, perché ogni descrizione non poteva che sminuirle. E questo Erestor lo capiva, e lo rispettava. 

Fu solo quando divenne più grande che Legolas iniziò ad imprimere i suoi sentimenti su carta – ma lo faceva attraverso carboncini e colori, polveri ricavate da fiori e rocce che lui diluiva pazientemente con acqua, prima d’intingervi il pennello. Per molto, i suoi dipinti ed i suoi schizzi espressero i suoi pensieri più della sua voce, sempre costretta dalle regole dell’etichetta, dalle norme di corte, dal volere eterno e supremo di suo padre, il Grande Re Thranduil.

Come assorto, Legolas s’incamminò verso i palazzi svettanti. La strada era polverosa, eppure niente più che minuscoli sbuffi color nocciola s’alzarono al suo passaggio. Attorno a lui, l’architettura più squisita si fondeva perfettamente con gli elementi naturali, così che gli archi intarsiati sembravano scaturire dalle piante, ed essi stessi erano tempestati di gemme umide, mentre le colonne scolpite parevano sorgere dalla terra, come alberi, e dalla montagna, come bracci di roccia scintillante. Legolas sentì il cuore colmarsi di meraviglia, e il respirò gli si mozzò in gola. Era confortante che, nonostante le tenebra soggiogasse completamente la sua terra, esistessero ancora cose di una bellezza così pura, intoccate dall’orrore, e che gli Elfi potevano chiamare casa.

Un rumore lievissimo gli giunse all’orecchio. Voltandosi, Legolas vide Erestor andare verso di lui, perfettamente a suo agio nel silenzio greve e sonnolente. Emerse da una zona d’ombra come se ne fosse stato generato, i lunghi capelli che indugiavano dietro di lui come trame di tenebra. Le mani, giunte in grembo, erano una macchia di luce bianca nel mare di velluto nero della veste, che fluttuava silenziosa attorno ai suoi piedi.

Incapace di trattenersi, Legolas gridò il suo nome, e correndogli incontro gli gettò le braccia al collo.

“Erestor!” ripeté Legolas quando il suo antico maestro lo strinse al petto con un moto di genuino affetto. Una stretta morbida, appena percettibile, eppure era lì, ed in quel contatto il principe ed il consigliere, l’alunno ed il maestro, quelle due figure dall’identica bellezza esotica e felina si raccontarono senza parole anni e secoli di lontananza.

Infine Erestor scostò gentilmente ma inesorabilmente il principe, e ricomponendosi in una posa da statua, gli rivolse il saluto formale degli Elfi, chinando il capo con una mano sul petto. Legolas lo ricambiò con riluttanza, e quando alzò lo sguardo trovo Erestor che lo scrutava con critico cipiglio.

“Mangi poco, Giovane Altezza” commentò asciutto. “Potrei contarti le costole, se solo volessi.” Legolas ebbe la grazia di arrossire. Occupato com’era a studiare tutto ciò che c’era da studiare, ad esplorare tutto ciò che c’era da esplorare, ed a difendere e salvare tutto ciò che era in pericolo (fossero essi città, uomini, elfi o gentil fanciulle) Legolas aveva la riprovevole tendenza a non curarsi della sua salute personale.

“Mangio abbastanza,” provò a replicare, ma Erestor bloccò la protesta –che ancora conosceva a memoria, persino a distanza di anni- con uno sguardo fulminante. Legolas sobbalzò, e combatté strenuamente contro l’ impulso infantile di nascondersi nelle spalle e tracciare cerchi nella terra con la punta del piede.

“Lo immagino. Lembas a colazione, Lembas a pranzo, e –oh! Non dimentichiamoci: Lembas a cena! Certo: solo quando gli impegni lo permettono, magari un pasto una volta a settimana? E non cominciare-” l’ammonì, agitandogli l’indice davanti al viso, che ora si faceva leggermente porporino. “Lo *so* che i Lembas sono il cibo più comodo da portare con sé in un viaggio. E *so* che non esiste nulla di più nutriente da questa parte delle Grandi Acque. Come *so* che sei un Elfo e per te il cibo non è una necessità, ma Legolas! C’è una certa differenza tra il mangiare abbastanza ed il doverti infilare a forza nella gola il minimo sostentamento! Di questo passo mi scomparirai sotto gli occhi, e dubito fortemente che garantirebbero mai l’accesso alle Terre Beate ad un Elfo che si è lasciato morire di fame.” Erestor terminò la sua predica, incrociò le braccia, e alzando gli occhi al cielo scosse la bella testa corvina con fare esasperato. Legolas lo guardò a sotto le ciglia. Gli angoli della sua bocca erano curvati in un ghigno di pura malizia.

“Ci sei mancato a Bosco Atro, Consigliere.”

Erestor rise, un suono splendidamente genuino.

“Come un cane ai gatti.” Alzò le spalle, facendo ondeggiare i capelli attorno alle guance. “Tu piuttosto? Come mai sei venuto senza scorta e senza farti annunciare?”

“Oh!” Legolas lanciò un’occhiata verso l’orizzonte. Si morse il labbro inferiore, ancora curvato in un ampio sorriso. “Avevo una scorta. Credo… di averli lasciati un po’ indietro.”

“Quanto indietro?” Legolas agitò la mano.

“Oh, saranno qui entro la notte del plenilunio, o al massimo il giorno seguente.” Erestor si portò una mano davanti alla bocca, in una posa pensierosa che servì a coprire l’espressione da gatto_che_ha_mangiato_il topo che gli era balenata sul volto. Il fatto che Legolas fosse solo avrebbe agevolato di molto l’attuazione del loro piano: i membri del suo seguito avrebbero potuto trovare… ah… sconveniente una storia tra il loro Principe ed un comune mortale.

“Ah, non ti smentisci mai, vero mia Giovane Altezza? Tutte le ere di questo mondo non basterebbero a fare di te un’aspirante re degno di questo nome… serio, monotono e prevedibile come la marea. Ringraziamo i Valar! Devo ammetterlo: ci sei mancato molto qui, a Granburrone.”

A quelle parole, Legolas si rabbuiò, e cercò istintivamente con le dita il gioiello che portava nascosto sotto la tunica. Erestor conosceva bene quel gesto, ed i suoi occhi luminosi si colmarono di  una pietà stranamente dolce. Quella era un’abitudine che Legolas aveva sin da piccolo: cioè da quando sua madre, in partenza per i porti, gli aveva allacciato al collo la gemma dei suoi avi, senza parlare, nemmeno un fiato, prima di sparire per sempre nelle nebbie tenebrose. Lasgalen era il nome di quel gioiello, Verdefoglia, che per grazia e lucentezza si diceva essere inferiore solo ai Silmaril, le pietre sacre di Fëanor.

“Non è vero,” sussurrò mestamente il Principe. Si stupì di sentire la mano di Erestor, morbida e calda, posarsi sul suo capo.

“Sciocchezze, Giovane Altezza. Sei mancato a me. Ed a Glorfindel. Ed ai gemelli. E credi che Arwen abbia parlato altro che di te, dall’ultima volta che sei venuto in visita?” Legolas abbozzò un sorriso.

“Ma Sire Elrond…”

“…è un buon signore, che però diventa un inetto incompetente quando si tratta di ignorare i proprio pregiudizi. Ben arrivato, Legolas: ci sei mancato. Asfaloth chiedeva di te ogni giorno, già-già.” Legolas si girò con gli occhi scintillanti: quando era ancora molto piccolo, Erestor era andato a Palazzo per educarlo. Nell’oscurità di Bosco Atro, i due erano divenuti compagni inseparabili, forse proprio perché così diversi, giorno e notte, giovane e antico, innocente e cinico. Poi Erestor aveva deciso di condurre il Principe via da quelle tenebre, lontano, e lo aveva portato con sé a Granburrone. Qui Legolas aveva conosciuto Glorfindel, che in breve era divenuto il suo maestro d’armi, nonché incomparabile compagno di giochi e marachelle.

Comunque, nel momento in cui Legolas vide il suo vecchio amico, il saluto entusiasta gli morì sulle labbra, e l’espressione estatica si tramutò all’istante in una di perplesso stupore.

Glorfindel portava, trascinandolo pesantemente dietro di sé, qualcosa che a prima vista sembrava un’animale selvaggio avvolto in un mantello di prezioso broccato scuro, con disegni a rilievo di una preziosità inaudita. Oltre il tessuto scintillante Legolas poteva vedere un paio di braccia e gambe che venivano agitate con violenza, ed in più una testa di riccioli scuri da cui provenivano ringhi e borbottii degni delle fiere più selvagge.

Estel si dibatteva, contorcendosi, offeso e umiliato e per una minima, irritantissima parte anche divertito (se ciò fosse successo ad Elladan o a Elrohir lui sarebbe stato di certo in prima fila a ridere di gusto). Poi, con un movimento che era quasi una piroetta, Glorfindel si inchinò, alzò il suo carico, lo girò, lo scosse, e torcendo il braccio lo fece atterrare dinanzi a sé. Estel, che un attimo prima guardava accigliato il cielo scorrere sopra di sé, si ritrovò con gli occhi fissi su due gemme del blu più intenso che avesse mai visto, blu come il mare, blu anche più del cielo. Il suo naso aveva sfiorato, per un attimo, una guancia vellutata come pesca e sulle sue labbra giocava, caldo e profumato come frutta dolcissima, un respiro languido e sensuale. Sbatté gli occhi. Provò a deglutire. E questo servì solo a portarlo ancora più vicino a quel viso, quel viso da sogno.

“---Estel, questo è Legolas, il Principe di Bosco Atro. Da bravo dì: ‘ciao’.”  In un’altra occasione, Glorfindel avrebbe rischiato grosso per aver trattato Estel come fosse un bambino. Ma è difficile esprimere ciò che stava accadendo in quel momento.

Estel e Legolas si stavano fissando negli occhi, rapiti e senza fiato, come se trovarsi l’uno di fronte all’altro li rendesse felici e al tempo stesso l’intimidisse. Il modo in cui Legolas aveva inclinato la testa, e si carezzava in punta di dita una ciocca di capelli scintillanti che gli ricadeva sul petto, parlava di aspettativa e eccitazione. Un sorriso giocava sulle sue labbra come luce. Estel lo guardava col respiro accelerato, gli occhi sgranati fissi in quelli socchiusi e languidi dell’elfo, proteso come se tutto il suo corpo anelasse a quello dell’elfo, con le labbra e le mani che iniziavano a muoversi e si fermavano in preda ad un’euforica incertezza.

Erestor e Glorfindel si scambiarono un’occhiata d’intesa sopra le teste dei due giovani. Glorfindel fece ondeggiare le sopracciglia in modo suggestivo. Erestor formò con le labbra le parole: “te l’avevo detto” e sorrise, muovendo le spalle come a ribadire il suo punto.

Una risatina scintillante sfuggì dalle labbra di Legolas. Erestor e Glorfindel si voltarono, e videro Estel portarsi alla bocca la mano bianca di Legolas e sfiorarla con le labbra in un bacio che era tutto fuorché innocente. La bocca di Estel si mosse in un benvenuto sussurrato, che terminò in altri piccoli, veloci baci sulla dita dell’Elfo. Per tutto il tempo i loro sguardi rimasero uniti, e quando Estel sorrise con un lampo malizioso negli occhi, Legolas ebbe un fremito lungo la schiena. Tra di loro sembrava aleggiare un’atmosfera carica di sensualità, una connessione difficile da esprimere, ma che tutti i presenti potevano avvertire quasi fisicamente.

Oh, si.

Risultato finale: Arwen – 0/ Legolas – 3.476.

Glorfindel era ad un passo dal catturare Erestor tra le braccia ed esibirsi in una Danza della Gioia. In realtà l'avrebbe fatto sul serio, se solo Elrond non fosse apparso in quel momento dal portone principale, ed avesse spezzato l'incantesimo accanendosi contro Legolas in tono sprezzante.

 

 

-TBC (?)