.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: ...pace fatta…?

Capitolo 17

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Fecero l’amore lì, sul pavimento che credeva di essere prato e tra le pareti che credevano di essere cielo. Fecero l’amore tra i mille raggi di luce colorata che piovevano dal cuore dei cristalli-stella. Fecero l’amore come ragazzini, toccandosi sempre, esplorandosi con dita e labbra per conoscersi, impararsi, ed imprimersi a fuoco l’un l’altro nella memoria. Lo fecero lentamente, senza fretta, finché ogni sensazione si dilatava, eterna, ed essi potevano esplorarla.

Solo alla fine il loro ritmo aumentò, gradualmente, come la marea, e li travolse. Vennero insieme, gemendo l’uno il nome dell’altro, contemporaneamente, come strumenti in una sinfonia, ma piano, poco più che sussurri, come per paura che se urlate troppo forti le parole sarebbero volate via, portando con loro la realtà di quel momento unico.

S’abbandonarono abbracciati in quel mondo di tempera e luce, uniti in modo tale che non si capiva dove uno finisse e l’altro cominciasse — Glorfindel ancora nel corpo di Erestor ed Erestor sopra di lui — immobili nell’eco dei loro respiri.

Quando infine Erestor si alzò, privandolo del calore del suo corpo, fu solo per tendergli la mano e guidarlo senza fretta verso la sua stanza da letto. Glorfindel fu sconcertato, per un attimo, dal pensiero di lasciare che tutti gli abitanti di Gondolin li vedessero così, stretti insieme e nudi.

Eppure, quando Erestor si lasciò andare sulla schiena al centro del grande letto e lentamente lo guidò sopra di sé, accogliendolo tra le morbide braccia, un pensiero si fece strada dentro Glorfindel, alzandosi dalle nebbie del Tempo come un’alba a lungo attesa:

Lui è mio, finalmente mio, niente di ciò che avete fatto è riuscito a separarci, guardateci, guardateci bene, perché attraverso Spazio e Tempo siamo finalmente insieme, una cosa sola, ora e per sempre.

Guardò i Gondothlim ed immaginò i loro occhi di tempera abbassarsi in cenno di sconfitta.

“Lui è mio,” sibilò.

Nessuno dei suoi antichi nemici rispose alcunché. I loro occhi di tempera rimasero vuoti e riversi lontano da loro.

 

* * * * *

 

Giacquero stretti tra quelle onde di seta, facendo e dicendo nulla — che poi, quando si è con la persona amata, è come fare tutto ciò che c’è d’importante. Si limitarono a respirare, cuore contro cuore, le dita di Erestor che scorrevano sulla schiena di Glorfindel e le labbra di Glorfindel che si perdevano nei capelli di Erestor.

 

In quello strano dormiveglia, Glorfindel pensò al loro primo incontro — o meglio, decise di volerci pensare. Ma il risultato fu completamente diverso da quanto ci si può aspettare: Glorfindel non visualizzò sé stesso ed Erestor in piedi alle porte di Imladris (il loro primo incontro in questa vita), bensì si sentì cadere dolcemente, cadere dentro di sé, cadere come piuma e foglia giù verso qualcosa di vellutato, un’oscurità che era luce, ed una luce che era oscurità.

Fluttuò nel nulla costellato di sospiri fino ad atterrare, stranamente, di nuovo dentro sé stesso, e fu una sensazione come di germogliare, la timida eppur inevitabile spinta della pianta che esce dal seme, del fiore che sboccia, la sensazione di librarsi in aria pur restando fermi, di ingigantirsi senza mutare.

I suoi occhi si abituarono alla strana luce-buia in un attimo, e Glorfindel si ritrovò in una Sala che ben conosceva, ma addobbata con tanto sfarzo da risultargli, per un secondo, estranea (gli capitò allora, al tempo in cui quel ricordo era ambientato, ma anche adesso, mentre giaceva nella braccia di Erestor).

Attorno a lui, vaghi corpi indistinti si muovono sopra i loro stessi riflessi scintillanti, scivolando sinuosi al ritmo di una musica che Glorfindel non sente — non più, non ora, non a Granburrone — perché non era quello il particolare importante della visione.

Un attimo, e Glorfindel si rende conto di stare parlando. Dinanzi a lui sosta un’altra di quelle sagome lucenti. Glorfindel distingue appena le ricche stoffe pesanti della sua veste e i gioielli che appesantiscono le sue dita. Il suo volto è una macchia indistinta di bianco che ondeggia pigramente nell’aria.

 

(Chi è?)

(Un’altro Glorfindel, antico e perduto, rispose da dentro di lui:)

(Non importa. Non c’è tempo. Guarda. Guarda.)

 

E da dietro il suo Ospite

(perché era lui, l’Altro Glorfindel gli trasmise con una punta d’impazienza, il fautore della festa)

Da dietro il suo Ospite giunge un movimento.

Una forma sinuosa emerge da dietro una colonna bianca

(ma non bianca come lui è)

avanza sul pavimento di marmo nero e lucido

(ma non al pari dei suoi capelli)

come se scivolasse sull’acqua, e s’avvicina lento, lui e il suo riflesso a testa in giù — ed è lì che Glorfindel vede per la prima volta il suo volto, bianco, si, ma non come i fantasmi che li attorniano, bianco come luce di luna, reso ancora più bello dal rosa in boccio delle sue labbra, dalle lunghe pennellate nere delle ciglia, dal viola

(viola? Si domanda sbigottito)

dei suoi occhi come crepuscolo stellato.

Attorno a lui, è tutto un frullare di seta, un’occhieggiare d’oro, un tintinnare di risate. Le sensazioni si uniscono in un caleidoscopio assurdo, vorticando fino a diventare un indistinto ondeggiare che li circonda e li separa dal mondo come un velo gentile.

L’Ospite, l’Elfo Potente, avvolge l’altro Elfo sotto un braccio, come un cigno potrebbe cingere il suo pulcino. Dice qualcosa, una serie di suoni distorti, come campanelle stridule affogate negli abissi, e lo spinge delicatamente avanti.

L’altro Elfo è più piccolo

                                  Glorfindel pensa che, se lo stringesse, la bocca di lui arriverebbe appena a sfiorargli il cuore,

               e potrebbe baciargli via l’anima col più lieve dei tocchi,

                                                                                               la più bella delle morti, pensa, la più bella di tutte

E’ una creatura minuta, sinuosa al punto di risultare deliziosamente felina, e quando alza la testa il suo viso è divinamente giovane, perfettamente scolpito, bello, bello, bello da fare male al cuore, da lacerarlo, da strappartelo via dal petto

                                               ed è così che si sente Glorfindel, come se quella creatura, quel giovane, tenesse il suo cuore tra le mani, giusto davanti alla bocca leggermente schiusa, e lui lo stesse osservando rapito nell’attimo prima che lo ingoiasse e lo facesse per sempre suo.

 

Di nuovo gli giunge alle orecchio il suono stridulo di campanelle. Vagamente pensa che gli è stato chiesto di proteggere quell’inestimabile gioiello, di diventarne il custode

lui, pastore vigile sull’erba, e l’altro, giovane agnello candido con la testa sul suo grembo

  e con voce tremula Glorfindel accetta. Il suo mondo ora non è altro che desiderio e struggimento, lunghe ciglia arcuate, labbra rosse e occhi azzurrini, di un viola che lui immagina, vede, sa essere già tramutato in oro.

Il giovane posa una mano sulla sua

                                                    bianca, tenera, calda.

                                                                                        Lucido marmo o fremente colomba?

                                                                                                                                        e Glorfindel la bacia, soffice, con le labbra appena schiuse ed il respiro ansante come chi abbia corso nel tepore dolce dell’Estate.

In quella visione in cui l’aria è acqua e la gente alghe ondeggianti nella luce vaga, ci sono solo loro, solo loro sono reali, vivi, splendidamente vivi, e sono insieme, respirano assieme, uniti da quel singolo contatto, in quel singolo momento, per sempre.

“Qual è il tuo nome, mio Giovane Signore?” dice Glorfindel.

“Chiamatemi Erestor,” risponde l’altro con una voce che è un fremito e un sospiro. E poi, facendolo tremare, aggiunge:

Pen-valthennen...”

 

Glorfindel si scosse.

Rientrare nel suo corpo, nel suo corpo presente, quello che si trovava non più a Gondolin bensì a Granburrone, fu come cadere da altezze incommensurabili e buie.

Fu come nascere di nuovo.

Fuori, il Sole aveva descritto un ampio arco, e cominciava già a scivolare dolcemente verso il basso orizzonte. Glorfindel guardò fisso il tenue riflesso cangiante che la luce proiettava sul pavimento, una trama mobile come quella che potrebbero riflettere le acque di un lago. Lo vide allungarsi e poi quasi scomparire, sommerso da una sottile lingua d’ombra. L’oro e l’ebano erano ormai due perfette metà simmetriche quando finalmente parlò.

“Io credo che i Valar ci vogliano assieme,” disse.

Erestor annuì impercettibilmente.

“Lo volevano anche allora.”

Glorfindel contemplò per un attimo l’idea di chiedergli a cosa si riferisse, ma poi si rese conto che lo sapeva già: era una sensazione, nulla di più, coadiuvata da nessun ricordo, eppure era lì. Sapeva che i Valar avevano favorito il loro amore a Gondolin. Il fatto che non ricordasse come non toglieva veridicità alla cosa. Tacque per un lungo istante, poi sospirò.

“E’ per questo che mi hanno privato della memoria?” Il suo tono era piatto, come quello di chi domandi sapendo già la risposta. “Perché così potessimo ricominciare da capo, io e te? Due persone nuove, una nuova vita, una nuova storia?”

Sospirò. Si fermò un momento per posare un bacio sul collo di Erestor, chiudendo la bocca sul battito dolce del suo cuore.

“Eppure ho rovinato tutto. Non ho capito niente, mi sono comportato da codardo, sono fuggito, ferendoti più di quanto possa mai arrivare a comprendere, ed ho rovinato tutto.”

Stavolta, Erestor scrollò le spalle, ma fu altrettanto impercettibile che il cenno di prima.

“Niente può ostacolare il volere dei Valar, Glorfindel. Forse ora credi di averlo ritardato, ma non illuderti: questo è ciò che volevano e l’hanno avuto. E probabilmente tutti noi abbiamo solo seguito il loro volere, come pedine in una scacchiera.”

Glorfindel alzò la testa per guardarlo negli occhi.

“Se solo mi fossi comportato in modo diverso--”

“Ma non l’hai fatto,” l’interruppe Erestor. Strano come la sua voce poté infondere un tono di distante saggezza, di tenera comprensione, in una simile accusa. “Non l’hai fatto, che la cosa ti aggradi o no. Eppure, credi che ciò che abbiamo ora sarebbe nato, e ci avrebbe fatto sentire così, se tu ti fossi comportato diversamente? Siamo persone differenti, Glorfindel, da quelle che eravamo allora, in quel passato perduto di Gondolin. Qualsiasi cosa ci sia tra noi adesso, non sarebbe nata se ci fossimo comportati in modo differente, se avessimo cambiato anche una sola delle scelte fatte nel corso degli anni. Quindi dimmi: ti penti davvero del nostro passato?”

“Mai.”

“Allora… lascialo andare.”

Glorfindel si issò sopra di lui, puntellandosi su mani e ginocchia. Sorrise, un sorriso da bimbo, un po’ timido, un po’ dolce, un po’ speranzoso e tanto, tanto bello.

“E ricominciare da capo? Ricominciare sul serio? Solo io e te?”

Erestor gli carezzò i fianchi nudi.

“Credo che mi piacerebbe.”

Una risata.

“D’accordo allora.” Glorfindel si alzò in ginocchio, fingendo di non notare lo sguardo diffidente dell’altro. Mise su uno spettacolino, ravvivandosi le ciocche scarmigliate, tossicchiandosi nel pugno (e controllandosi l’alito, santi Valar…), facendo scrocchiare le dita e flettendo i muscoli del collo. Poi sorrise ancora, malizioso, e spinse una mano sotto il naso di Erestor.

“Piacere,” disse, strascicando le lettere nel suo miglior accento da seduttore. “Glorfindel o Imladris, Capitano delle Guardie della Valle, migliore guerriero ed amante che si possa trovare da questa parte del Grande Mare. Posso avere l’onore di conoscere il vostro nome, mia deliziosa creatura?”

Erestor per tutta risposta lo spintonò lontano, facendolo rotolare giù dal letto in un nodo di lenzuola. Si alzò a sedere, sollevandosi i capelli dalla spalla con una mano languida, e poi lo fulminò dall’alto.

“No,” rispose serio.

Si alzò con la grazia di un felino, aggiustandosi attorno al bel corpo nudo una veste di fresca seta blu, ed andò a sedersi alla toletta. Gettando la testa da un lato, riunì i lunghi capelli corvini in solo, pesante fascio che riposò sulla spalla. Vi passò le dita.

 Glorfindel si liberò con uno sbuffo dall’intrico di lenzuola. Arrancò a fatica sul letto. Una volta che si fu seduto con la schiena contro i cuscini, lanciò uno sguardo verso l’altro occupante della stanza. Come se si fosse ricordato solo allora, Erestor lo guardò di sfuggita nello specchio e disse:

“Ma potete comunque chiedere di me al mio segretario, e fissare un appuntamento tramite lui. Melpomaen si chiama, il piccolo caro. Potrete trovarlo nella Biblioteca di questa Casa. Sala Sud, terzo corridoio a destra, la doppia porta di mogano con intagliati gli Alberi di Valinor.”

E, come se nulla fosse, prese a passarsi una spazzola d’argento tra i capelli (capelli che, a differenza di quelli di Glorfindel, erano rimasti lucidi e dritti anche dopo gli avvenimenti del pomeriggio).

 

Glorfindel rise ancora, di gusto. Si accomodò meglio tra i cuscini, e rimirò il suo amante con lo sguardo di un estimatore davanti a un quadro.

Glorfindel era uno dei pochi ad avere il privilegio di conoscere sia Thranduil che Legolas che Erestor — ossia gli unici tre gli Elfi mai esistiti ad essere maledetti da un corpo peccaminosamente eccitante. Ma i tre erano così diversi fra loro che anche solo accomunarli nella stessa frase pareva follia.

Thranduil, coi suoi muscoli levigati, le spalle larghe e le labbra fine, possedeva come Glorfindel un tipo di bellezza Umana, più che Elfica. La sua era una sensualità tutta maschile, prepotente e selvaggia, che faceva palpitare più di una Dama.

Legolas aggiungeva al quello stesso fascino maschile ereditato dal padre tratti di una bellezza squisitamente androgina: così che alla mascolinità del suo corpo meravigliosamente scolpito s’aggiungevano in splendido contrasto una grazia felina, e ciglia e labbra e lunghi capelli d’oro da fare invidia a ogni fanciulla.

Erestor, invece, era l’epitomo dell’androginia. Era innegabilmente maschio (Glorfindel rabbrividì di delizia), ma al tempo stesso rammentava una femmina nell’aspetto e nei modi.

Era sottile come un fanciullo e aggraziato come una fanciulla; forte come un Uomo e sensuale come una Ninfa. La sua capigliatura era lunga e lustra, così scura che riflessi di un blu cangiante l’attraversavano come brividi sotto la giusta luce. La sua pelle era chiara, quasi trasparente per quant’era diafana. Gli occhi d’oro erano grandi, espressivi, ornati dalle lunghe pennellate d’inchiostro delle ciglia. Il naso era perfettamente proporzionato con gli zigomi alti. Delle labbra, quello superiore era sottile, mentre quello inferiore sbocciava rosa e carnoso come un bocciolo.

Glorfindel, che non sapeva (o meglio: non ricordava) come i compagni di gioco avevano definito Erestor da piccolo, lo paragonò nella sua mente ad una pallida creatura di cristallo, o ghiaccio.

Una Fanciulla della Notte e delle Nevi, si disse. E di nuovo, rabbrividì.

 

“Mi domando,” disse dopo qualche istante di rapito silenzio, “come tu abbia potuto accettarmi, dopo la confessione che ti ho fatto.”

Glorfindel…” Detto in tono ammonitore.

Suddetto Elfo alzò i palmi.

“Lo so, lo so. Non andare a rivangare il passato. Il passato non esiste. Però…” Inarcò un sopracciglio. Erestor, continuando a spazzolarsi meticolosamente le lunghe ciocche, gli rispose senza voltarsi.

Maranwë, Glorfindel. Non avrei potuto dirti di no più di quanto possa chiedere al Sole di non sorgere domani. Ti ho pensato, pianto e desiderato per millenni, quand’eri morto e quando sei tornato in vita. Ed ora anche tu… per qualche strano caso… ricambi il mio desiderio. Perché quindi avrei dovuto nascondermi o fuggire? Questa è la realizzazione di un sogno. Un sogno pericoloso, ma comunque qualcosa che ho voluto per tanto, tanto tempo. Mi farà male? Mi ucciderà? Non lo so, non voglio saperlo, tutto ciò che so è che correrò il rischio, vivrò fino in fondo ciò che mi è stato offerto, lo vivrò giorno per giorno, ora per ora, finché Maranwë lo permetterà.”

Passò ancora qualche attimo di silenzio, rotto solo dai soffici colpi di spazzola. Glorfindel si torturava il labbro coi denti, il viso chiuso in una smorfia di concentrazione. Poi Erestor parlò ancora.

“Ora sono io a domandarmi una cosa.” Rise. “Che avresti fatto se ti avessi rifiutato?”

“Sarei morto.”

La spazzola cadde con un tonfo. Rovesciò alcune boccette di profumo e olio, mescolandone nell’aria gli odori in un qualcosa da far lacrimare gli occhi. Erestor si girò di scatto, il volto dipinto di orrore ed angoscia. Glorfindel fece una smorfia.

A quanto pare mi conosce abbastanza da sapere quando scherzo e quando no.

Si alzò, ancora completamente nudo, e andò a fermarsi a un passo da Erestor. Gli posò una mano sul viso, quasi con violenza, stringendo le dita attorno ai suoi capelli, ed Erestor si spinse immediatamente contro il calore del suo palmo. Il suo respiro era quello di un bimbo febbricitante, corto e veloce.

“Erestor, Erestor… io non posso più vivere senza di te. Piuttosto che perderti, mi ucciderei. Piuttosto che vederti andare via, ucciderei te.”

Erestor gli posò le mani sul ventre, e fece scivolare i palmi fin sul suo petto, mentre languidamente si alzava. Si spinse contro di lui, calore contro calore, inguine contro inguine, cuore contro cuore, e gli prese il viso tra le mani.

“Non ti lascerò morire, Glorfindel. Mai più,” sussurrò contro le sue labbra, prima di immergere la lingua nella sua bocca. Glorfindel sciolse la cinta di seta e lasciò scivolare in terra la veste blu che nascondeva ai suoi occhi il corpo Erestor, suo unico desiderio, sua unica debolezza, sua unica forza.

Scagliò a terra violentemente boccette, fermagli e spazzola con un braccio; gli affondò le mani nelle natiche e lo issò sul mobiletto.

Il tavolo da toletta non sarà stata la scrivania scura che spesso sognava, ma prenderlo lì sopra non fu meno bello che nella sua fantasia.

 

 

 

 

 

 

-TBC (?)