.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: Per Ery e Glory è giunto il momento della verità. I due si affrontano di nuovo: affrontano i loro sentimenti e paure, esplorando il loro passato assieme in un capitolo impegnato, ai limiti fra i rating R ed NC-17, in cui le spiegazioni di un confuso Uccisore del Balrog si alternano a scene del suo antico tormento, di lacrime e sangue... mentre su tutto aleggia l'unica cosa per lui davvero importante: il suo amore per Erestor, e si, anche quello per Ecthelion.

Capitolo 16

~

Glorfindel ebbe, per un verso, più fortuna di Estel: la sua ricerca non lo portò ad un cumulo di vestiti gettati in terra, ma dritto al loro bel possessore. Glorfindel si ritenne comunque un pochino deluso nel vedere dei vestiti addosso ad Erestor. Avrebbe preferito trovarlo senza, soprattutto ora che conosceva quale gloria celavano. Ma così è la vita.

Si diresse come guidato da un istinto profondo fino alle stanze del suo — già, che cos’era Erestor per lui? Il suo amico? La sua nemesi? Il suo amante, perduto o ritrovato che fosse? O qualcosa di più, il suo amore?

Glorfindel arrivò dinanzi alla grande porta scura, quella che anche nella luce del giorno pareva un occhio vigile e stretto, ed invece di bussare, la spinse con tutta la forza che aveva ed entrò, lasciandola richiudersi con uno schianto sordo alle sue spalle. Erestor si precipitò allarmato nel vestibolo attraverso la porta nascosta della sua camera — e si bloccò. Se si era aspettato di trovare qualcuno nelle sue stanze, quel qualcuno non era di certo Glorfindel. Anche se, pensandoci bene…

…chi altro poteva aspettarsi di trovare, se non lui?

 

Maranwë.

 

Emise un sospiro che vibrò di una malinconia soave, quasi trasparente. Infilò le mani nelle grandi maniche scure, e incrociò le braccia sul ventre. Sembrava al tempo stesso inarrivabile e insicuro, come l’icona di un’espugnabile castello plasmata col più fragile dei vetri.

“Cosa vuoi, Glorfindel?”

Per un attimo non ci fu risposta. Glorfindel si stava guardando attorno, ammirando la bellezza di quel luogo che l’aveva così terrificato due notti prima. Gli affreschi sulle pareti erano splendidamente dettagliati. Ogni filo d’erba era stato rappresentato in tutta la sua lucente tridimensionalità, umido di rugiada e flebilmente piegato al vento, e proiettava un’ombra sottile come un capello sugli steli che gli si affollavano accanto. Ogni montagna, ogni roccia, pareva fuoriuscire dalla tenera terra e protendersi verso il cielo, screziata di luci ed ombre. Ogni ramo ed ogni foglia era ricoperto di fitte venature di colore, trasmettendo un senso di realismo così perfetto da essere inquietante. Persino i nastri luccicanti dei fiumi, stemperati in lontananza fra onde di nebbia, parevano scorrere incessanti sotto i suoi occhi.

Glorfindel alzò la testa.

A prima vista pensò che il soffitto non ci fosse. Poi si accorse che poteva vedere attraverso di esso fino al cielo. Era costituito da enormi lastre di vetro, montate su impalcature che Glorfindel s’azzardò a definire di mithril, anche se era molto improbabile. Sotto le lastre erano drappeggiate delle tende di velluto blu, che potevano essere chiuse o ritirate per mezzo di un complesso sistema di fili (in quel momento erano ritirate per metà, così che il caldo sole pomeridiano si riversasse nella stanza). Sul velluto, una perfetta imitazione screziata del cielo notturno, era stato cucito un numero infinito di gemme simili a stelle, e la luce si rifletteva attraverso di esse, protendendosi in lunghe dita polverose verso il pavimento.

Tornò a guardare davanti a sé. Erestor assottigliò gli occhi, e chiese ancora:

“Cosa vuoi?”

Glorfindel fu tentato di rispondere “te”, ed era vero, era quello ciò che voleva, Erestor, corpo e cuore, e lo voleva ora, sì, in quell’istante, e poi per sempre. Scosse la testa.

Un passo alla volta, signorotto. Vedi di fare tutto per bene, o lo perderai.

“Tu ed io dobbiamo parlare,” disse infine. Erestor inarcò un sopracciglio.

“Oh?”

“Già.”

Erestor si strinse nelle spalle, alzando i gomiti come a dire che Glorfindel poteva parlare, se proprio doveva. Glorfindel trasse un respiro profondo, aprì la bocca…

…e si bloccò.

Che voleva dire, di preciso? Non lo sapeva. Cosa poteva volersi sentir dire, Erestor? Non sapeva neanche quello. E, senza pensare a ciò che loro volevano, qual’era, in definitiva, la cosa giusta da dire, quella che poteva segnare per sempre il loro destino? Questo, forse, lo sapeva. Prese un altro respiro e cominciò da capo.

“Tu hai paura,” disse, “di ciò che c’è fra noi.” Alzò una mano per fermare la protesta che stava nascendo sulle labbra di Erestor.

“Hai paura, ed io mentirei se ti dicessi che non sono assolutamente terrorizzato. Perché? Perché non sono mai stato così felice, così completo, come quando sono con te.”

Si fermò. Quando ricominciò a parlare, nella sua voce s’era aggiunta una nota di sicurezza.

“Tu sei una parte di me che è andata perduta, Erestor, e che ho cercato a lungo senza saperlo. C’è una connessione tra noi, lo so. L’ho sentita da sempre, e non capendola, ne sono sempre stato spaventato. Te l’immagini? Anche quando non ti conoscevo, quando non conoscevo nessuno, non sapevo nulla di me stesso, e nulla riuscivo a provare in questo mio petto, io già ti sentivo parte di me! Ti vedevo aggirarti nei giardini, ombra tra le ombre, bello sconosciuto di ebano e avorio, e mi sentivo parte di te!

Si passò una mano nei capelli.

“…ma ti sfuggivo. Non comprendevo il sentimento tremulo che la tua vista suscitava in me, la debolezza che mi prendeva nell’udirti sussurrare il mio nome, il fuoco che mi scorreva come metallo fuso nelle vene quando mi sfioravi, anche se per errore. Mi ci vollero anni, anni passati a sfuggirti e a fuggire al sentimento confuso che facevi turbinare dentro di me, per rendermi conto che non era nulla di maligno. Non era nulla di anormale. Era felicità, felicità pura. Benessere. Serenità. Chiamala come vuoi, ma per me aveva un solo nome: il tuo. Erestor.

Azzardò un’occhiata al viso di Erestor, e nell’ombra blu delle tende, gli parve di vedere un sorriso.

“Non sono mai stato il più sveglio tra gli Elfi quando non si tratta di guerre ed uccisioni. Ma capii che volevo stare con te. Volevo starti vicino. Dovevo farlo. Ma come potevo? Ti avevo sempre evitato, crudelmente, per anni e decenni… potevo realmente gettarmi scodinzolante ai tuoi piedi e sperare in una carezza? No… No.” Ripeté piano, come se stesse ancora cercando una risposta a quella domanda.

“Così cominciai a prenderti in giro. A ‘molestarti’, come dicesti tu il giorno che finalmente mi degnasti di uno sguardo.” Rise, ma era un suono nervoso e rauco. “Dopo quel primo barlume di luce presi a seguirti ovunque, a parlarti sempre, anche quando m’ignoravi, ed a rispondermi da solo visto che tu non lo facevi. Credo di averti praticamente costretto a diventarmi amico, che tu lo volessi o no.”

Glorfindel fissava ancora il volto seminascosto di Erestor. I suoi occhi sembravano dire: ‘non era una costrizione, non lo è mai stata’. Ma forse era solo la speranza di Glorfindel a vederlo.

 

Erestor fece un cenno con la testa come per invitarlo a continuare. Glorfindel ubbidì.

“Fino a poco tempo fa mi bastava esserti amico. Ero felice con te, e mi bastava. Poi, qualcosa è cambiato. E parlo di mesi fa, Erestor, non mi riferisco a ciò che è accaduto nella Radura. Qualcosa è cambiato in me. Ti volevo vicino, si, ma averti solo vicino non era abbastanza. Volevo di più. Sempre di più. E’ stato… si… il giorno in cui venni a parlarti del mio piano che mi resi conto che in realtà ti desideravo. Ti desideravo carnalmente. E la sai una cosa? Ero terrorizzato dal mio desiderio, perché non era solo desiderio. Era qualcosa di più, che non avevo mai provato. Con nessuno.” Si coprì il viso con le mani.

“E sono ancora terrorizzato.

“Ho paura ad avvicinarmi a te: temo di perdermi, di perdere tutto ciò che sono e sono stato, di annullarmi in questa cosa infinita e senza nome che sento per te. Ho paura di avvicinarmi perché temo che poi, un giorno, quando sarà troppo tardi, ed io sarò andato troppo a fondo, tu te ne andrai, per caso o per scelta, e mi lascerai solo, senza più te a sostenermi nel buio. Ho paura di avvicinarmi perché temo di ferirti, come so, come sento di aver già fatto in passato. Tu sei l’unico punto fisso nella mia vita, l’unica felicità, l’unica certezza… ed io sono pronto a strapparti al tuo trono di luce per trascinarti con me nel fango. Che razza di creatura blasfema sono?” Alzò la testa. Erestor si era avvicinato, ed il suo viso rifulgeva come un roveto ardente nella pallida ombra screziata.

“Eppure, allo stesso tempo, ho paura ad allontanarmi da te, a tornare a trattarti come un estraneo, perché… perché non credo che potrei andare avanti in questa vita senza averti al mio fianco.

 

Erestor si era avvicinato abbastanza da toccarlo. Non lo fece. Lasciò invece scorrere gli occhi sul quel viso aperto e sofferente, e c’era una luce strana nel suo sguardo: Glorfindel non poteva saperlo, ma Erestor stava ricordando suo malgrado tutte le volte in cui Glorfindel gli aveva ripetuto quanto lo stimava,  quanto gli voleva bene, quanto era importante per lui la loro assurda amicizia rabbiosa. Le stava ricordando tutte e, finalmente, ci credeva.

Annuì, come chi ha preso una decisione importante. Si avvicinò ancora di più.

“Allora non fare niente, Glorfindel. Resta mio amico, e nulla più,” disse.

“Perché? Non posso. Non capisci? Io non posso.

“Ti rendi conto che se andiamo avanti in questa follia non ci sarà più possibile tornare indietro? Ti rendi conto che quando questo finirà noi non potremo più nemmeno essere amici? Non saremo più niente, Glorfindel. Niente. E questo non è forse la cosa più spaventosa di quelle che possano accaderci? Non è quella che più ti terrorizza? Perché terrorizza me. E molto.”

“Meglio. Perché se la fine ci fa paura allora non lasceremo che accada. Non ci separeremo mai, e resteremo sempre così: amanti.”

Erestor sospirò, tradendo ancora quella malinconia scintillante.

“E’ questo che siamo, Glorfindel? Una cosa così squallida? Amanti?

“Forse siamo qualcosa di più,” disse Glorfindel, serio come mai era stato. Strinse le mani di Erestor tra le sue, e con foga se le premette al petto. “Forse siamo qualcosa di più, ma non lo sapremo mai se non tentiamo. Dacci una possibilità Erestor. Dalla a… a qualsiasi cosa ci sia tra di noi. Dacci la possibilità di esplorarla, di capirla, e di darle un nome.”

Erestor gli sorrise amaramente.

“Vuoi un nome? Eccotelo: desiderio. Non ti basta? Ne ho mille altri: voglia; passione; libidine; voluttà; brama; lascivia; lussuria. E non dirmi che non li conosci. Proprio tu, che ti concedi a chiunque ti voglia, che passi da un letto ad un altro senza mai voltarti indietro, disdegnando coloro il cui sapore hai già assaggiato. Glorfindel il Conquistatore, ti chiamano. E si dice che ogni Elfo con cui sei stato sia una tacca che incidi nel muro, un nome su una lista lunga ormai da qui fino al Mare.” Le sue labbra si erano assottigliate in una linea bianca.

“Hai solo aggiunto un altro nome alla lista: il mio. Passa al successivo, e dimenticami.”

“Dimenticarti? Vivessi anche fino alla Fine del Tempo io non ti dimenticherò mai, Erestor. Mai più.”

“Solo parole, Glorfindel. Vane parole, come brezza che passa e se ne và.”

Pensò che per quanto Glorfindel dicesse di stimarlo, di desiderare il suo corpo, lui lo amava, lo amava davvero, e niente di buono poteva nascere da una simile ingiustizia. La sua voce si spezzò.

“Dimenticami, Glorfindel. E se davvero mi stimi anche solo un po’, non scrivere mai il mio nome sulla tua lista. Lascia una riga bianca, se proprio devi, prima del prossimo, chiunque sarà, ma fingi che non ci sia stato nulla fra di noi. Continua per la tua strada, Uccisore del Balrog, senza più incrociare la mia.”

Le mani che stringevano le sue si serrarono quasi al punto di fargli male. Erestor non reagì, e subì con calma la reazione di Glorfindel, che se lo strattonò al petto, si chinò su di lui, ed urlando gli disse:

“Tu! Proprio tu mi credi capace di una cosa così ignobile? Una lista di amanti, una serie di tacche nel muro, senza rispetto, senza sentimento?!”

Erestor trasse un respiro che era come un singhiozzo.

“Non ti ho forse visto passare ridente da un letto ad un altro, senza vergogna, senza rispetto per un atto come quello? “L’unione sacra dei corpi”, “l’amore dolce della carne”, lo chiamavi un tempo, e non ti ho forse visto deriderlo nei secoli, come fosse un’amenità? Non ti ho visto cercare amanti sempre nuovi, sempre più, uno ogni sera, uno per ogni volta che ne avevi voglia?” Il suo labbro tremò. “Non ti ho forse aiutato a conquistarne alcuni? Non ti ho coperto quando perso nella tua passione ti assentavi ai concili, quando non consegnavi in tempo i tuoi rapporti?”

Glorfindel sentì un moto di colpevolezza così profondo che rischiò di travolgerlo.

“Non è come pensi tu,” gracchiò.

“No? E allora dimmi qual’è la verità, e dimmelo ora, perché non riesco a immaginarne nessuna.”

 

Glorfindel sospirò. Dal suo viso traspariva una lotta interiore. Qualsiasi cosa stesse per dire, era una rivelazione difficile per lui, che l’angustiava. Fu grato quando Erestor liberò i pollici dalla sua stretta e li usò per carezzargli le mani.

“Ricordi gli incubi che avevo, nei primi anni dal mio ritorno?”

Erestor annuì appena.

“Come non potrei? Ne eri preda, giorno e notte. Incubi così spaventosi che persino quand’eri sveglio facevano calare un velo dinanzi ai tuoi occhi, e tu ti perdevi da qualche parte dentro la tua stessa mente.” Non poté trattenere un brivido. “Sire Elrond si risolse a somministrarti delle pozioni soporifere ogni notte, e rammento che il dosaggio era talmente alto da risultare… da risultare…”

“Pericoloso. Mortalmente pericoloso.”

“Si-iii…” mormorò Erestor non senza una certa riluttanza. Cercò gli occhi di Glorfindel coi suoi, e per un attimo parve illuminarsi. “Ma poi tutto si risolse. Tu guaristi inaspettatamente. Fu all’incirca quando…”

“Non all’incirca, Erestor. Fu quando diventammo amici. Fu allora che le cose migliorarono.” Scosse amaramente la testa. “Ma non posso dire di essere guarito. Sento ancora le voci dei morti vorticarmi nella mente. Sento ancora le fiamme lambirmi la carne ed esplodermi nelle viscere. Sogno ancora della mia morte e dell’orrore senza nome che la precedette.”

Erestor diventava ad ogni parola più pallido. Glorfindel si odiò per quello che gli stava facendo, si odiò come non aveva mai odiato nessuno in vita sua. Si odiò, ma non smise.

“Sento la frusta di fiamma chiudersi attorno alla mia gola. Sento la mano che impugna la spada ardere e svanire in una colonna di fumo. Sento l’odore disgustoso della mia carne bruciata nelle narici, la cenere che mi scende per la gola. Sento la lingua gonfia, gli occhi lacrimare e le lacrime evaporare nel giro di un secondo. Sento le ossa spezzarsi, le ascolto frantumarsi come sassolini sotto i piedi di un gigante sulla spiaggia. Sento i frammenti insinuarsi nella carne e bruciare come veleno.

“Capita meno spesso, questo lo ammetto, ma capita. Ed è orribile.”

Sospirò.

“I primi tempi, quando ero appena giunto ad Imladris ed ancora mi lasciavo drogare dalle pozioni di Elrond, provai ad affogare il dolore nell’alcool. Ma questo servì solo ad abbassare ulteriormente le mie difese. Mi aggirai ubriaco per i corridoio per due giorni, e le visoni che avevo erano tali da sembrare vere. Da allora non ho più abusato di nessun liquore, ringraziando i Valar.” Spinse delicatamente una ciocca di capelli dalla guancia di Erestor fin dietro il suo orecchio. Gli chiese se ricordava quei due giorni, e lo vide annuire.

“Ricorderai allora che, quando mi ripresi dalla sbronza nell’Ala Medica, balzai a sedere urlando,  e rovesciai una caraffa che Elrond stava poggiando sul comodino al mio fianco. La caraffa si frantumò, ed io, non so come, mi procurai un squarcio dal polso fino al gomito.” Lasciò andare le mani di Erestor per arrotolarsi la manica e tracciare con la punta di un dito la ferita a lungo scomparsa. Sospirò ancora.

“Fu una rivelazione. Il dolore, il dolore del corpo, faceva sparire la sofferenza, quella che avevo nel cuore, e cacciava le visioni. Credetti di aver trovato la cura. Erestor, lo credetti davvero.”

Erestor scosse la testa, piano all’inizio, e poi sempre più forte, come un bambino che non capisce una realtà più grande di lui.

“No,” gemeva. “No, Glorfindel. No. No, no, no, ti prego…”

Glorfindel lo carezzò dolcemente con le braccia, cingendolo per la vita stretta. I loro corpi si sfioravano, e Glorfindel traeva una strana, fluttuante consolazione da quel minimo contatto.

“Si, Erestor. Si. Che i Valar mi perdonino, io presi a ferirmi da solo. Presi a farmi del male volontariamente. Piccoli tagli all’inizio, semplici graffi, fino a giungere a ferite che m’impedivano di muovermi o camminare.”

Erestor emise un gemito lungo e tormentoso, come il vento fra i rami di un albero morto. Tremava come una foglia.

“Poi, una mattina in cui avrei dovuto partire per un giro di perlustrazione delle frontiere, scoprii che non potevo alzarmi dal letto. Quando ci provai mi ritrovai steso a terra, con la testa che mi girava e lo stomaco accartocciato su se stesso. Lacrimavo e vomitavo, ed il liquido che riversavo era sangue in entrambi i casi, o almeno così mi pareva. L’unico modo che avevo di muovermi era strisciando come un verme. Non sentivo le gambe. La mia spada era andata troppo a fondo, recidendo qualcosa che solo molti giorni di riposo risanarono. Se non fossi stato un Elfo, sarei rimasto paralizzato.

“Avevo raggiunto il proverbiale fondo, credo. Per andare più giù avrei dovuto solo armarmi di pala e scavare. Scavarmi una tomba. Ed oltretutto, le visioni cessavano solo finché le ferite che m’infliggevo non smettevano di sanguinare. Quando quel primo, tenue pizzicore spariva, quelle tornavano all’attacco, più potenti che mai, come se fossero gelose che per qualche attimo non le avessi considerate.”

Si passò una mano tra i capelli, ma l’altra continuò a carezzare lentamente la schiena e le spalle di Erestor, che tremavano.

“Quel giorno ripresi a combattere. Provavo uno strano odio ribollente verso me stesso: cosa strana per me, che non sentivo nulla a quei tempi, salvo dei pallidi stimoli che m’incitavano a nutrirmi e dormire.

“Quel giorno segnò la mia caduta più profonda, ma anche il momento della mia ripresa.

“Mi puntellai con le mani sul fondo di quel pozzo oscuro in cui mi ero gettato, e mi rialzai. Cadendo, imprecando e trascinandomi con unghie e denti delle volte, ma mi rialzai.

“Fu come aprire gli occhi per la prima volta. Mi resi conto di ciò che avevo intorno, della bellezza di Imladris, della saggezza di Elrond, della dolcezza che scorre lenta in questa Valle. Mi resi conto che concentrarmi sul proteggere la mia nuova Casa faceva diminuire un po’ le voci, le smorzava, come se fare ciò che già una volta avevo fallito bastasse a redimermi. E così ripresi a pattugliare la Valle e le regioni circostanti; ripresi ad allenarmi, ed ad allenare i giovani soldati. Mi provai degno della mia posizione di Comandante, e ne fui fiero.

“Poi mi resi conto anche della cosa più importante.” Era chino su Erestor, alla distanza di un bacio.

“Cioè che quando stavo con te le voci si facevano ancora più quiete.”

 

Silenzio. Due respiri ansanti. Occhi che s’incontrano. Corpi che fremono. Due bocche che quasi si sfiorano ad ogni sillaba.

 

“Avendo riacquistato la mia capacità di sentire mi resi conto che tu mi facevi provare qualcosa: me lo avevi fatto provare persino quando ero ancora chiuso in me stesso ed indifferente al Mondo. Mi rendevi felice. La cosa mi stupì, ma lo stupore servì almeno a portarsi via gran parte della paura che avevo di avvicinarti. Così presi a cercarti, a spendere ogni attimo con te, per diventarti amico. Fu l’inizio della mia ripresa. La mia vera rinascita. Sei stato tu a restituirmi al Mondo, non i Valar. Loro si erano limitati a scaraventare fuori dalle onde un guscio vuoto e tremebondo, colmo di incubi e paure come d’acqua di mare.”

Glorfindel sorrise, ma proprio perché sorrideva sembrava triste.

“Ma le visioni, seppur indebolite, continuarono. Si erano elette a Regine incontrastate delle mie notti, mentre i giorni si susseguivano pieni di sensazioni, colori ed odori che avevo dimenticato. Che fare? Come spodestarle? Potevo solo resistere, mi dicevo, e stringere i denti. Avevo te ed avevo il mio testardo coraggio. Potevo combattere: combattei. Poi un giorno, di nuovo, la soluzione si presentò da sola ad i miei occhi, come se l’avessi evocata.”

Maranwë, pensò Erestor. Ma si limitò a chiudere gli occhi.

“Una cura,” continuò Glorfindel. “Una cura ingannevole come le precedenti, ma che almeno non si ritorceva come una lama contro di me. Accadde durante la Festa delle Messi, sessant’anni circa dopo il mio arrivo. Un giovane ospite venuto da Lothlórien mi avvicinò in un angolo, e quando si accorse che non rispondevo ai suoi cinguettii, mi si sedette in grembo e senza tanti preamboli mi conficcò la lingua in gola, facendola vorticare come un serpente ubriaco.

“Lo sentivo agitarsi dentro la bocca, lo sentivo premere sopra il mio inguine, e lo sentivo pulsare di desiderio contro il ventre, caldo ed umido. Fu come se una luce si spegnesse dentro di me. Una luce violenta che mi aveva accecato per anni era ora eclissata da un qualcosa, un’ombra, e quell’ombra era il corpo che si strusciava contro il mio, miagolando di piacere. Le voci si zittirono, ammutolite da qualcosa che forse era sgomento e forse no. La fiamma del Balrog fu eclissata da un’altra fiamma, un’altro calore, e sebbene il mio cuore urlasse di sdegno e senso di colpa, io mi lasciai trascinare dall’impulso, e…” esitò.

“… e facesti l’amore con lui.”

Glorfindel scosse la testa con violenza.

“Non era amore, non lo fu mai. Era solo bisogno. Un’altra scappatoia facile dal tormento, come poi tutte le volte successive. Non illudo mai i miei ‘amanti’ dicendo loro che per me c’è qualcosa di più. Quando vengono nel mio letto lo fanno di loro volontà, consci che non ci sarà nulla tra noi se non una notte, una notte di passione senza sentimento, una notte che non si ripeterà mai, perché ripeterla significherebbe ingannarsi e fingere che esista qualcosa, un sentimento, che invece nessuno dei due prova.” Sorrise di un sorriso spettrale. “Ed il senso di colpa e lo sgomento, dopo quelle notti, è così forte da far zittire le voci anche per settimane.”

 

La testa di Erestor vorticava. Si sentiva debole, ed il suo corpo ondeggiava, come un filo d’erba sospinto dalla brezza. Era certo che l’unica cosa che lo tenesse in piedi era la pressione gentile attorno alla sua vita.

Poi si scosse.

“Senso di colpa…” mormorò con voce roca. “Che strano sentimento da provare, visto che i tuoi amanti sanno ed accettano…”

Glorfindel esitò. La luce nei suoi occhi si spense, le sue spalle possenti parvero cedere sotto un peso enorme.

“Non mi sento in colpa per loro,” disse. “Mi sento in colpa perché stando con loro, io tradisco Ecthelion.”

Erestor alzò di scatto la testa. I suoi capelli volarono tutt’attorno a lui, come un manto, come acqua, come ali, neri come la notte e lustri come una stella. Aveva gli occhi sgranati e fissi. Le sue labbra tremavano. Sembrava essere impallidito ancor di più.

Ed infine ci siamo, pensò Glorfindel. Ho detto la cosa che me lo farà perdere per sempre.

Sospirò.

“Si,” confermò comunque con un cenno del capo. “Ecthelion.

Erestor parve non comprendere.

“Tu… tu ti ricordi di… Ecthelion?”

Glorfindel sospirò.

“Ricordo cosa provavo per lui, ma non ricordo lui.” Emise una specie di risatina strozzata. “Cambierò mai? Ciò che ricordo è com’era fare l’amore con lui.” Fece una pausa. “Ed i sentimenti… le emozioni… che sentivo per lui. Dentro. In profondità, sai. Dove… dove nessun’altro è più arrivato.” Un’altra pausa.

“Nessun’altro tranne te.”

“Io… Ecthelion… e io…?

Scosse la testa. La stanza vorticava impazzita davanti a suoi occhi. Erestor pensò di stare per svenire. Sentiva nelle tempie l’ormai familiare pulsazione che l’avvertiva prima che i ricordi rompessero la diga e affogassero la sua mente. Trasse un respiro e non lo esalò. Quando sentì che il cuore stava per scoppiargli in petto, espulse l’aria in un ansimo tremante. Scoprì di aver ritrovato il controllo della voce.

“Glorfindel, mi stai dicendo che da quando sei tornato, per… millenni… hai amato Ecthelion, ed al tempo stesso hai amat—” —deglutì a vuoto— “—al tempo stesso anch’io ho avuto una parte nel tuo cuore? Assieme… assieme a lui?”

Glorfindel lo lasciò andare. Erestor s’immaginò di cadere, ma così non fu. S’allontanò di un passo, chiudendosi nella veste come dietro uno scudo. Di nuovo il sorriso amaro e spettrale curvò le labbra di Glorfindel.

“E’ un po’ più complicato di così, ma non ti ho mentito finora, e di certo non ti mentirò adesso,” disse. “Questo forse fa di me una persona ignobile, ma non è come se il mio cuore fosse diviso fra te e lui. E più come se avessi due cuori. Lo capisci? Uno di essi è colmo solo di Ecthelion, di questo amore immenso ma senza volto, mentre l’altro è colmo di te, colmo di un volto per cui provo un sentimento senza nome. E’ strano. Non ricordo Ecthelion, perciò è poi vero che lo amo ancora? E poi, visto che penso sempre e solo a te, voglio solo te, allora ti amo? Oh, è così assurdo.” Si coprì il volto con la mano.

 

Un silenzio calò su di loro come nebbia. Non si muovevano, nessuno dei due, e persino il rumore dei loro respiri pareva attutito, come se giungesse da un luogo lontanissimo nel tempo e nello spazio, un luogo ormai sparito e sprofondato negli abissi.

Infine Erestor esalò un respiro tremante. Si avvicinò a Glorfindel a testa bassa, e senza nemmeno guardarlo lo superò e si diresse alla porta. Glorfindel strinse gli occhi. Nella testa sentì una voce, la sua, ma non proprio: la voce di Glorfindel o Gondolin, piena di sprezzo e furia.

E’ fatta. L’hai perduto. Ora lui aprirà quella porta e ti chiederà di uscire, per non vederti mai più. E avrà la testa abbassata, ma tu lo sai, lo sai, che starà piangendo, come piangeva allora, e le sue lacrime saranno luccicanti come gemme e dolci come nettare…

Nella stanza echeggiò, assurdamente amplificato, il fruscio della mano di Erestor che sfiorava la porta. A Glorfindel parve di sentirlo vorticare nella testa come vespe di un favo mostruoso. Si preparò a sentire la porta aprirsi, a sentirla girare sui cardini con un cigolio come la risata di una vecchia strega, a sentirla aprirsi e poi richiudersi alle sue spalle, vicina eppur lontana, con un rombo come tuono, e lasciarlo nel buio freddo del corridoio deserto.

Ma il suono non arrivò.

Invece, distintamente, chiaro e limpido come luce del mattino, Glorfindel sentì il chiavistello scattare.

Click.

Tremò. Fiori rossi gli esplosero dietro le palpebre serrate.

Poi vennero altri fruscii — seta, non legno. Qualcosa di delicato che cade tintinnando al suolo. Capelli che ricadono frusciando nell’aria. Velluto che scivola sulla pelle e con un sospiro s’abbandona a terra. Altri rumori, vaghi, dolci. Passi che s’avvicinano. Un respiro quieto, cadenzato.

Glorfindel strinse gli occhi ancora di più, finché la sua visione fu solo un indistinto ondeggiare di rosso. Quando sentì le dita di Erestor posarsi sulla schiena, gentili e leggere, il suo cuore perse un battito.

Poi le dita si mossero, i polpastrelli caldi risalirono la linea della scapole, solleticarono il collo, ridiscesero, sfiorando appena le braccia. All’altezza dei reni le dita si trasformarono in due palmi, caldi ed umidi, che gli carezzarono i fianchi, il ventre, i capezzoli che subito si fecero turgidi. Due braccia nude lo cinsero dolcemente.

Erestor posò la testa sulla sua spalla, fronte contro collo, respiro contro pelle. Poi vennero le sue labbra — soffici, calde— e la lingua, che parevano mormorare poemi senza suono su di lui. Le braccia si strinsero, e Glorfindel sentì aderire alla schiena il petto glabro di Erestor. Più giù avvertì la levigatezza del suo ventre. Il tepore pulsante dell’inguine s’adagiò sulla curva delle sue natiche, le cosce tornite combaciarono alle sue.

Per un attimo, Glorfindel ebbe l’idea folle che loro non fossero due persone ma una, uniti assieme a quel modo. Poi Erestor mosse le mani, solo le mani, e poi le braccia, mentre il resto del corpo restava modellato a quello di Glorfindel.

E quelle mani scesero, per i Valar, scesero, e lo trovarono, trovarono il desiderio di Glorfindel, e lo sfiorarono, lasciandosi dietro promesse di un piacere immenso.

“Erestor…”

“Non dire niente.”

Glorfindel afferrò le sue mani e le spinse via. Qualcosa in lui s’agitò ed urlò alla perdita del delizioso contatto. Dovette mordersi il labbro per un urlare lui stesso.

“Erestor, no.”

“Non mi vuoi?”

“Ti voglio così come ho bisogno dell’aria per respirare,” tentò di ridere, ma parve solo singhiozzare. “Ma non posso. Non così.”

“Perché?”

“…”

Perché?

“… perché non è giusto. Sai per quanto tempo la passione per me è stato solo un diverso tipo di dolore? Agonia e tormento, sempre agonia e tormento… ma con te… con te è solo gioia. Perfezione come non la credevo possibile. Non voglio che tu giaccia con me per pietà, o per qualche strano senso dell’amicizia. Vorrei che con me provassi sempre e solo quella gioia, quella gioia che tu fai sentire a me… non sforzarti Erestor. Io non voglio più farti del male.”

Erestor gli mordicchiò gentilmente la punta dell’orecchio, la zona più erogena nel corpo di un Elfo. Glorfindel non poté reprimere un gemito. Sentì le ginocchia traballare.

“Erestor…” lo ammonì, ma la sua voce era arrochita dal desiderio.

“Quanto tempo fa sei morto, Glorfindel?” Un respiro come carezze. Labbra che gli sfiorano le pelle. Glorfindel scosse la testa, confuso. Sentì la mano di Erestor scivolare dalla sua e farsi strada di nuovo sul suo corpo, ma stavolta sulla pelle, sotto l’ignobile barriera dei loro vestiti, per trovarlo duro e stillante di desiderio. Gemette ancora nel sentire Erestor mormorargli nell’orecchio:

“Quanto tempo fa? Hm? Quanto? Quanto?

“Se…settemila… anni,*” ansimò.

“Oh, si. Settemila anni fa sei morto, Glorfindel.” Di nuovo, denti si strinsero sul suo orecchio, calore pulsò contro le sue natiche, dita si chiusero e tirarono sul suo sesso.

“Mi hai fatto aspettare così tanto, ind nîn**… vuoi farmi aspettare ancora?”

No. Glorfindel non voleva. Affatto.

Si girò tra le sua braccia, lo strinse e come un falco si avventò con la bocca sulla sua.

 

Maranwë.

 

 

 

 

 

 

-TBC (?)

 

 

 

 

 

* La cosa non è matematicamente certa, ma visto che Gondolin è caduta nell’anno 510 della Prima Era, e la fic si svolge ben dopo l’anno 2500 della Terza, direi che come stima probabile ci siamo.

** ind nîn = cuore mio