.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: Finalmente si torna, dopo un bel po’ di capitoli, a focalizzarsi sul rapporto che c’è tra Ara e Lego.

Capitolo 15

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Estel sapeva, sapeva che quei vestiti gettati in terra non significavano nulla. Non aveva anche lui stretto a sé il corpo nudo di Elrohir, quando era febbricitante per il veleno? E non sapeva forse che Arwen, eternamente circondata da stuoli di servitori adoranti, tendeva a lasciare le sue stanze in uno stato d’abbandono, consapevole che altri avrebbero sistemato ciò che lei lasciava dietro di sé? E poi, come dimenticare quella cosa, la più importante, il particolare decisivo fra tutti?

L’odore.

O meglio, la mancanza di esso.

Estel poteva non essere un Elfo, ma il suo odorato era fine come quello di un segugio. E nella stanza non aveva avvertito altro odore che quello dolce delle loro pelli, quella bianca di Arwen e quella luminosa di Legolas, unito al sudore sofferente della febbre. Ma niente odore d’amore. Niente odore di sesso.

Ma a ben poco valeva quella bella logica compatta. Lo capiva dal modo in cui fremeva, rabbioso come una bestia selvaggia; dal modo in cui si torturava le ferite sui palmi, stillando sangue; dal modo in cui arricciava le labbra, mostrando i denti serrati.

Perché, si domandava, perché era così sconvolto?

Perché anche se pensi che non hanno fatto nulla, si rispose, con l’occhio dell’immaginazione li hai visti, ed erano bellissimi.

Ed era vero. Bellissimi. Uguali e diversi. Opposti e riflessi di una stessa immagine. Perfetti. Forse, perfetti l’uno per l’altra? Che c’entrava lui, povero, sciocco mortale, in quella sinfonia di bellezza? Come poteva aspirare, lui, all’amore di un Elfo?

Sospirò.

Sentì le mani di Elladan e di Elrohir chiudersi, rispettivamente, sulla spalla destra e sinistra. Sospirò ancora.

“Non angustiarti, gwador,*” disse Elladan, sofficemente, nel suo orecchio. “Legolas sarà pure la perfezione incarnata, una sinfonia armoniosa che invita, suo malgrado, a toccarlo, che invoglia a prenderlo, possederlo, con dolcezza o con selvaggio ardore…” Estel fremette. Era per l’immagine di Legolas, quel prepotente ricordo del suo corpo nudo e caldo muoversi sotto le sue dita, che balenò come fiamma nella sua mente; o forse per il respiro altrettanto caldo e dolce che gli solleticava la pelle in quell’istante?

“Ma credi davvero,” intervenne Elrohir, premendosi contro l’altro suo fianco, “credi davvero che Arwen ti farebbe questo? Che farebbe questo al vostro sogno? Al vostro amore? Se lei toccasse Legolas con voluttà-”

“-se lo portasse a raggiungere l’estasi-”

“-sarebbe come distruggere per sempre ogni speranza di celebrare il matrimonio; lo sai.”

“E lei non lo farebbe.”

“No.”

“Ci tiene troppo.”

“E poi, lei è forse l’unica, in tutta la Terra di Mezzo, ad essere immune al suo fascino.”

L’Unica,” ripeterono in un coro sommesso, solleticante, nelle sue orecchie. Estel si domandò vagamente cosa sottintendessero con quella parole — forse che anche loro amavano, o avevano amato Legolas? Ma dimenticò presto tutto: erano giunti, chissà come, nei cortili. E su una panchina lo attendevano, come per magia, i vestiti scuri e lisi che usava quando s’allontanava coi suoi Raminghi, vagabondo fra i vagabondi, Re fra stuoli di Re.

“Andiamo,” disse uno dei gemelli, che ora si stagliavano alti e agili dinanzi a lui. L’altro gli tese la mano.

“Che l’esercizio del corpo scacci il dolore della mente.”

“E del cuore,” sospirò Estel.

Ma li seguì.

 

* * * * *

 

I tre fratelli rimasero a lungo nei boschi, cacciandosi l’un l’altro, seguendo piste, mimetizzandosi, appostandosi, tendendosi tranelli ed evitandoli — segugio e preda che si scambiavano tra loro ad ogni cattura, e poi ancora, in uno strano gioco di specchi — così che il rito si ripeté, sempre uguale, ma sempre diverso, per ore. Per ore.

Era sera fatta ormai, quando Estel s’incamminò nuovamente verso casa. Faceva freddo, ed il cielo ingrigiva rapidamente sopra di lui, come se una marea scura dilagasse da dietro le colline e si muovesse contronatura a sommergerlo, salendo dal basso verso l’alto.

Era inzaccherato di fango e linfa, fradicio fino alle ossa, infreddolito e stanco. Sentiva la testa pulsare, come un tamburo impazzito, per la stanchezza, mentre lo stomaco faceva sentire le sue proteste, contorcendosi come un sacco vuoto su sé stesso.

Eppure, anche mentre si sentiva miserabile e solo, in lui s’agitava qualcosa di pericolosamente simile alla felicità — perché una vita di guerre gli aveva insegnato che sentirsi male, sentirsi disperati o furibondi, significava, prima di tutto, essere vivi.

Essere sopravvissuti.

Girò un angolo particolarmente scuro e fitto d’alberi del giardino, quando udì delle voci. Risate. Si bloccò. Sentiva il cuore martellargli nel petto, ma era come se non respirasse, tant’era immobile; una pietra sarebbe parsa più viva di lui. Rimase qualche minuto così, vigile ed attento a quei suoni dolorosamente melodici; quindi si concesse un passo in avanti. Un secondo seguì il primo; poi venne un terzo. Si arrestò subito davanti ad una fitta siepe scura, alta almeno quanto lui. S’acquattò quel poco che serviva a guardare da uno spiraglio, e li vide.

Arwen e Legolas.

Naturalmente.

Sedevano l’uno di fronte all’altra, lei con le gonne aperte tutt’intorno —quasi che il busto, come un pistillo sinuoso, spuntasse dal cuore di un fiore cangiante— e lui con le ginocchia al petto e la testa inclinata in una posa d’ineguagliata serenità, di pace — e questo era il brutto, ciò che impedì ad Estel di voltarsi, di andarsene, o anche solo di muoversi — la sua espressione felice, rilassata, di piena onestà di sé — Legolas non appariva mai così libero, mai così sé stesso, nemmeno con i gemelli, nemmeno con Glorfindel; forse solo con Erestor — ed era proprio quell’espressione — quell’espressione — quella che aveva fatto battere il cuore ad Estel nei giardini di notte, quella che lui non voleva mai, mai, assolutamente mai, vedere diretta a nessun’altro — il volto del vero Legolas, quello vero, non il Principe, non il Guerriero, non il Diplomatico, ma Legolas, solo Legolas, semplicemente Legolas.

Arwen disse qualcosa, che Estel percepì solo come un susseguirsi di sussurri musicali. Legolas rise, così forte che le sue spalle tremarono, facendo ondeggiare i lunghi capelli color del grano. Lei piegò la testa da un lato, socchiuse gli occhi, e poi lo gratificò con una frecciatina musicale come ogni altra cosa avesse detto. Legolas rise ancora, annuendo, come se le stesse dando il suo assenso per qualcosa.

Fu allora che Arwen si sporse verso di lui.

Lo fece lentamente, piegando il busto come un giunco sospinto dal vento, mentre le sue mani intrecciate si scioglievano, ed una saliva, saliva, e sofficemente s’immergeva nei capelli di Legolas — Legolas, che, come un riflesso in uno specchio, s’era piegato verso di lei, sinuoso…

Estel si gettò fra gli arbusti nel piccolo cerchio verde dove sostavano i due Elfi. L’aria echeggiava ancora dell’urlo che aveva rilasciato, ma non sapeva bene cosa avesse detto. Arwen e Legolas si voltarono entrambi verso di lui, e sbatterono i larghi occhi profondi con inquietante sincronismo. Così facendo la mano di Arwen fu sospinta dolcemente via dalla chioma dorata — e con essa venne la foglia che stringeva — la foglia caduta di cui lei aveva liberato il suo amico. Estel fissò confuso quella virgola verde, e scosse il capo.

“Estel!” Stava gridando Arwen, ma sorrideva. “Ma dov’eri finito? Non hai letto il messaggio che ti ho lasciato oggi a pranzo? Io e Legolas ti abbiamo aspettato tutto il pomeriggio!” Gli lanciò un’occhiata fintamente arrabbiata, da cui il sorriso traspariva come luce da dietro un velo. Quindi si girò verso l’altro Elfo, il suo riflesso, il suo gemello, e gli carezzò la guancia.

“Guardalo! Sta bene! Sta bene! Oh, non è meraviglioso, Estel? Legolas sta bene!”

“Oh, Osellë!” si schernì lui ridendo. “Lo dici come se avessi rischiato la vita, mentre invece sono bastate un paio d’ore perché mi riprendessi.” Voltò il viso verso Estel. “Potevi venirmi a trovare, però. Anche se non era nulla di grave, potevi venirmi a trovare.” Corrucciò le labbra. Arwen rise, coprendosi la bocca, e presto la voce di lui si unì alla sua.

Estel sbatté le palpebre.

Che aria familiare spirava in quel luogo. Familiare, come quella che respirava quando, ancora bimbino, si lasciava cullare da Elrond nella notte; quando si sedeva davanti al camino, d’inverno, stretto tra i corpi caldi dei gemelli, ad udire storie; quando, ridendo estasiato, correva per i corridoi echeggianti fin nelle braccia di Erestor, urlando quando Glorfindel sbucava da dietro un angolo e fingeva di volerlo mangiare come l’Orco delle fiabe.

Otornassë ed osellë

Fratelli.

 

Oh, che sciocco! Geloso com’era, non aveva visto il messaggio di Arwen, non aveva visto realmente cosa c’era tra i due, cosa provavano — non aveva visto nulla, se non ciò che temeva di vedere, come in un incubo. E’ mai esistito potere più assurdo della fantasia umana? Temere una cosa ce la fa immaginare, e l’immagine è spesso per noi più vera della realtà.

 

Estel sentì, contemporaneamente, le mani di Elladan ed Elrohir posarglisi sulle spalle, mentre i loro respiri calavano verso le sue guance. Non ebbe reazione alcuna, no, e nemmeno si stupì. Onestamente, non poteva dire di non esserselo aspettato.

“Lo vedi Estel?” cominciò uno. “La gelosia, quante volte può essere fondata, se diretta ad un Elfo?”

“Abbandonala,” disse l’altro, nello stesso tono di voce, caldo e fluente contro la pelle. “Che te ne fai, di un’emozione così folle? Abbandonala.

“Non sai, forse, che gli Elfi sanno essere fedeli a vita?”

“Non sai che quando trovano l’Amore, l’Amore quello vero, è per sempre?”

“Abbandona la stolta gelosia, Estel, che mai sarà gradita a uno dei Priminati. Noi del Bel Popolo non siamo oggetti da essere conquistati-”

“-o mostrati con orgoglio-”

“-od usati a piacimento.”

Estel li sentì premere i loro colpi palpitanti contro di lui, cingerlo con le braccia, sfiorargli le gambe con le loro, quasi a chiuderlo come due lembi di un manto, uno per fianco — e d’improvviso fu com’era stato allora davanti al camino e mille cose in più, tutte dolci, ma che lo fecero fremere fin nell’animo.

“Non puoi possederci-”

Respiro come una piuma solleticante in un orecchio.

“-né dominarci.”

Dita come brezza sulla pelle.

“Noi siamo i figli della notte-”

“-col vento nei capelli e le stelle negli occhi.”

Liberi.

Gentilmente, lo spinsero in avanti, ed il calore che lo cingeva si sciolse, lasciandolo nudo contro la brezza fredda della sera. Lasciò ch’essa gli asciugasse il sudore. Il respiro che trasse allora gli sembrò essere il primo della sua vita.

“E di una creatura così,” aggiunsero dietro le sue spalle, echi di quieti ruscelli mormoranti nelle ombre, “puoi davvero dubitare?”

“In cuor tuo, puoi dubitare di un simile Amore, e non provare vergogna?”

“Abbandona la gelosia, Estel, ed abbandona il dubbio.”

“Se sei stato scelto da una simile creatura-”

“-scelto per sempre-”

“-vuol dire che ne sei degno.

Ancora con voce soffice. Ancora in coro.

Estel rise —ogni dolore svanito, ogni sofferenza eclissata. Che pazzi, pazzi, pazzi e meravigliosi fratelli aveva, che se l’avevano ferito era stato solo per curarlo, usando nessun’altra arma se non quelle che Estel già usava contro di sé!

Corse avanti, e con un tonfo s’abbandonò vicino ad Arwen e Legolas, ombra fra due luci, anello di una catena, congiunzione, e non —non più— ostacolo, diverso, infelice incompreso che s’isolava.

“Scusatemi,” disse loro. “Sono stato… trattenuto.”

 

* * * * *

 

Parlarono a lungo, tutti e cinque assieme, e risero, come una vera famiglia. C’era pace, e c’era allegria e c’era complicità — tutto ciò che Estel aveva sempre cercato, nella sua giovane vita vagabonda.

Una famiglia.

Si trovava ancora tra Arwen e Legolas, che si stringevano le punte delle dita dietro la sua schiena. Elladan ed Elrohir si erano seduti di fronte a loro, completando il cerchio, abbandonati con languore l’uno nell’abbraccio dell’altro.

Una famiglia.

Estel pensò, così, come un brivido, senza volere, senza capire, senza potersi fermare, in profondità, pensò:

Chissà se il matrimonio distruggerà tutto questo. Chissà se lo cambierà.

E pensandolo, guardò Legolas, i gemelli, Arwen, e poi, completando il cerchio, ancora Legolas, che lo fissava a sua volta, ora, con le labbra schiuse attorno ad una risata cristallina.

Estel sentì una fitta al cuore.

Non cambiare, pregò, anche se non era sicuro a chi si rivolgesse. Non cambiare, oh, tipregotipregotipregotipregotiprego, non cambiare…

“Estel?” Arwen gli fece ondeggiare una mano davanti agli occhi. “Estel!

Lui si scosse.

“Hm?”

Arwen scoppiò a ridere. Per essere precisi, lo fecero tutti gli Elfi che gli sedevano attorno. Lui li guardò confuso.

“Uh?”

Arwen si piegò verso di lui con un ghigno per metà furbesco e per metà accattivante.

“Avanti, Estel, rispondi… non essere timido… puoi rispondere in tutta sincerità, sai, e nessuno te ne vorrà, qualsiasi cosa tu dirai…” Sbatté gli occhioni blu. Per un attimo, tutto ciò che lui vide fu un frullare civettuolo di ciglia ed un sorriso abbacinante.

“A proposito di cosa?!”

Legolas, che ora si trovava direttamente dietro di lui, si premette contro la sua schiena, e gli alitò soavemente nell’orecchio:

“A proposito di chi trovi più bello…” gli sfiorò (in)avvertitamente il lobo con le labbra soffici. Lo cinse dolcemente con le braccia. “Me…

“Oppure me…” incalzò Arwen, alzando il viso angelico verso di lui. Estel avvertì la pressione dei suoi seni sul braccio. Quattro mani vagavano sinuose sul suo petto. Sentì le loro dita solleticargli collo e capezzoli, i palmi carezzargli ventre e fianchi. I suoi occhi si allargarono a tal punto che parvero rotolargli fuori dalle orbite. Farfugliò qualcosa d’incomprensibile. Poi perse la voce, sentendo i respiri accelerati che gli sfioravano i due lati del collo, caldi e umidi, farsi più vicini, più disperati.

Elrohir, avendo pietà di lui, intimò ad Arwen e Legolas di lasciarlo andare, se proprio ci tenevano ad una risposta coerente. I due si scambiarono un ghigno, strinsero Estel un’ultima volta (neanche fosse un orsetto di pezza per la notte), quindi si ritirarono quieti ai loro posti, le gambe piegate elegantemente sotto il corpo e le mani strette in grembo. Estel, rosso in viso e sudato, sembrava sul punto di svenire. Loro erano pallidi e sereni come statue, naturalmente.

Eppure i loro occhi, larghi e senza fondo, posati su Estel, erano tutti aspettativa e incitamento.

Estel si schiarì la voce. Si ravvivò i capelli. Poi i vestiti. Si stiracchiò le braccia, come se si fossero addormentate. Quindi si schiarì ancora la voce.

“Ecco…” iniziò, guardando Arwen. “Io…” guardò Legolas.

Perse la voce, ma i suoi occhi urlavano più di mille cori il suo pensiero: come non notare il modo in cui saltavano alternativamente dall’una all’altro? Come non notare la qualità distratta, veloce, delle occhiate che scoccava a lei, e quella calda e ammirata di quelle, lunghe e sensuali come carezze, che lasciava scivolare sul corpo di lui?

Estel si ritrovò a sorridere suo malgrado. Stava guardando Legolas, mentre successe.

“Io penso,” disse con inaspettata calma, “che sia impossibile scegliere. La vostra bellezza è troppo diversa! Tu Arwen-” la guardò “-scura ed eterea come la notte, sfolgorante come una regina, stella di ghiaccio inarrivabile nel cielo!” Arwen inclinò la testa come per accettare il complimento.

“E poi tu, Legolas-” Estel lasciò vagare lo sguardo su di lui — e viso e petto e gambe e mani e spalle e labbra e occhi. “Tu, sfavillante come il sole, oasi fresca nel deserto, astro nascente che scaccia le tenebre, così caldo, così vivo! Come può un mortale scegliere tra il giorno e la notte? Come può, anzi, una qualsiasi creatura che si dica savia, scegliere? Notte e Giorno, Luna e Sole, Ombra e Fiamma… non sono entrambi belli? Entrambi essenziali? Non sono forse, come voi siete, troppo diversi per essere paragonati?

“Lasciatemi dire: io non sceglierò! Non c’è vincitore in una simile contesa. La vostra bellezza non solo è pari, ma lo è proprio perché contraria.”

Arwen piegò ancora la testa graziosamente, come a dire che era soddisfatta (e sorpresa!) da un simile esempio di leggiadra poesia. Ma Legolas… oh, Legolas era tutta un’altra storia! Le sue guance erano in fiamme –felicità, non imbarazzo— i suoi occhi splendevano, e le mani strette al petto parlavano di un’emozione fortissima, indescrivibile, che lo colmava fino a traboccarne. Qualcosa di molto, forse troppo, simile alla completezza. All’estasi.

Elrohir scoppiò a ridere.

“Fratellino, mi sorprendi! Quanta abilità!” accentuò l’ultima parola, come a sottolineare che non era all’abilità poetica che alludeva, ma a quella di cavarsi da un simile impaccio. Elladan annuì. Aveva un’espressione seria e ridondante, come se stessero discutendo le sorti delle Terra di Mezzo.

“Un’abilità degna di un premio,” disse. “Non pensate?”

Arwen, cogliendo il suo sguardo, si chinò su di Estel e gli stampò un bacio sulla guancia destra. Legolas si avvicinò al giovane dal lato opposto, gli prese il viso tra le mani, e dolcemente gli baciò la fronte, come una benedizione.

“Oh, Aragorn,” sospirò, “mi paragoni davvero alla Dama Undomiel, Bella tra le Belle, Stella fra tutte le Stelle? Pensi davvero che io sia bello quanto lei?”

“Oh, si,” disse Estel, annuendo. Ma i suoi occhi dicevano:

No. Tu non sei affatto bello come lei. Tu lo sei mille volte di più.

Legolas sorrise, e lo baciò ancora, stavolta sulla guancia calda d’emozione. Estel fermò la sua ritirata poggiandogli una mano sulla nuca. Avvicinò i loro volti per un altro bacio, ma era evidente che il suo istinto non mirava ad un bacio dolce sulla guancia.

Le loro bocche già quasi si sfioravano, i loro respiri si fondevano, quando Arwen, rapida come una lepre, insinuò le braccia tra di loro, e premendo con fermezza sui loro petti li allontanò l’uno dall’altro.

“Sì, sì, è stato molto carino da parte sua.” Fulminò Estel con lo sguardo, prima di sorridere caldamente a Legolas.

“Ma tu, otornassë perché dubiti della tua bellezza? Io potrò essere la Stella del Vespro del nostro popolo, ma tu! Tu sei la nostra Stella del Mattino. Il nostro Sole d’Estate.” Baciò anche lui sulla guancia. Come i fratelli, Arwen aveva la tendenza ad esprimere i suoi sentimenti col corpo, più che con la poesia. Probabilmente, si diceva, era un’abitudine causata dal loro retaggio umano: ma era una cosa detta in segreto, come se ricordare il loro sangue misto alla luce del sole significasse offenderli.

Quando si sedette nuovamente sui talloni, Arwen rivolse anche ad Estel un timido sorriso.

“Devo scusarmi con te,” disse. “Gandalf mi ha spiegato cos’è successo. E’ stato così ignobile da parte mia accusarti in quel modo!” Scosse la testa, mordendosi il labbro. “Spero che potrai perdonarmi, ed attribuire il mio orribile comportamento alla stanchezza e i pericoli del viaggio. Sei un Uomo onesto e nobile, e so che mai romperesti le tue promesse, piccole o grandi che siano. Come mio Padre ripete spesso, tu hai troppo onore, Estel, troppa saggezza nel tuo animo, per farti guidare fuori dalla via da una qualsiasi tentazione. Invoco il tuo perdono, se solo vorrai concedermelo.” Concluse, tracciando cerchi sul dorso della mano di Legolas.

Estel annuì, come aveva fatto lei prima, un movimento distratto che serviva solo ad accettare il complimento che gli era stato rivolto. Il suo sorriso era una maschera rigida sul viso. La guardava, annuiva sorridendo, ed intanto pensava che, si, aveva resistito alla tentazione e forse avrebbe continuato a farlo, eppure, Valar, voleva così tanto cederle! Così tanto…

 

 

 

 

 

 

 

-TBC (?)

 

 

 

 

 

* gwador = fratello