.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: *snorts* *giggles* *laughs out loud* Adoro gli Elfi… voi noi? ;)

Capitolo 13

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Inutile dire che, al mattino dopo, metà degli abitanti di Granburrone era alla fervente ricerca di quella ninfa-maschio, di quello Spirito della notte e del chiaro di luna che Glorfindel aveva riportato dal fitto dei Boschi.

Tristemente, il massimo che i prodighi ricercatori riuscirono a trovare fu una manciata di testimonianze e favolesche congetture — e per lo più contrastanti fra loro. Comunque sia, quando gli Elfi si riunirono nel Salone della Colazione nella Casa di Elrond, l’argomento principale di discussione rimase quello strano avvistamento notturno, quella visione uscita da un sogno.

Mille voci la ripeterono, ognuna aggiungendo qualcosa, ognuna togliendo ciò che meno le piaceva, finché, con maestria nota solo al Bel Popolo, quando anche l’ultimo dei commensali si alzò da tavola, una nuova fiaba era stata creata, la leggenda intessuta, e le prime strofe della Ballata di Glorfindel e lo Spirito della Notte già si mormoravano a mezza voce per le vie.

La trama —con le debite differenze a seconda del narratore— era più o meno questa:

 

Glorfindel il Prode Guerriero era uscito, in un mattino grigio e freddo (‘Colmo di neve!’ cinguettavano allora i più. ‘Ma se siamo in Estate!’ rispondevano gli altri con una scossa del capo), e si era addentrato in una parte strana dei Boschi, una parte che ai più era proibita, dove tutto sembrava vivo, e ondeggiava, fluttuava, fremeva — e danzava, perfino! davanti agli occhi di chi era tanto sciocco da entrarvi. Una danza infausta, che faceva confondere l’incauto viaggiatore fino a farlo perdere, inesorabilmente, nel buio della sua mente.

Ma Glorfindel il Prode Guerriero non temeva nulla; né spada, né lancia, né le Fiamme dei Balrog l’avrebbero potuto distogliere dalla sua missione. (‘Che missione?” cinguettavano allora i più. ‘Shhhhhh!’ rispondevano gli altri con una scossa del capo) Così egli avanzò sul suo bianco destriero, e fin troppo presto scomparve sinistramente tra le fronde, lasciandosi dietro frotte di Elfi sgomenti e disperati (certo, come no) che a lungo lo richiamarono dolcemente dai Cancelli della sua Città.

 

…insomma, per farla breve, Glorfindel il Prode Guerriero si era avventurato in caccia dello Spirito bellissimo che si diceva dimorasse nel fitto di quegli alberi. Uno Spirito antico, la cui forza verde pulsava come il battito dolce di un cuore assopito, la cui voce cristallina mormorava in tutti i rivi ed i torrenti della Valle, la cui etera bellezza si rispecchiava nell’alba gelida…

…ed insomma, per farla ancora più breve (gli Elfi, si sa, non scrivono mai canzoni lunghe meno di 1226 pagine, riga più riga meno), Glorfindel era giunto alla radura chiusa nel cuore di quel territorio magico, e aveva iniziato a mormorare al vento delle dolci strofe cantilenanti, forse magiche, ma forse d’amore.

Lo Spirito, ben nascosto tra le fronde, vide l’Elfo rilucere nella sua armatura dorata (‘D’Argento!” cinguettavano allora i più. ‘Ma se non la porta nemmeno nelle parate!’ rispondevano gli altri con una scossa del capo), e lo scambiò per uno Spirito a lui affine, eppur diverso: uno spirito della luce, un raggio di Sole che aveva preso corpo ed anima. (Nessuno aveva niente da aggiungere o da ridire, su questo punto).

Così lo Spirito gli andò incontro, pallido come neve e nero come la notte, etereo sopra la spuma delle acque. E quando i loro occhi si incontrarono, Amore prese possesso dei loro cuori, facendone docili schiavi del Suo volere.

Glorfindel allora si inginocchiò davanti al suo nuovo Signore, mentre questi gli carezzava i capelli, e baciava teneramente le sue labbra. Ma il meriggio incombeva su di loro, e Glorfindel, che doveva tornare, chiese al suo Amore di arrendersi a lui e seguirlo fuori dalla foresta, nel mondo di coloro che sono svegli, e lasciare quel sogno. Lo Spirito si fece silente, e fissò a lungo l’orizzonte, prima di acconsentire con un ‘sì’ dolce come pioggia che picchietta su un lago.

 

Generalmente, gli Elfi liquidano quanto accadde dopo con un semplice: “Giacquero nudi nell’ombra dei salici” e saltano direttamente al ritorno a Casa di Glorfindel, col suo Sposo per Sempre seduto dinanzi sulla sella.

Onestamente, si trattava di una storia trita e ri-trita, priva di una qualsiasi originalità, ma agli Elfi piacque molto — tant’è vero che alcuni dei più giovani continuarono a tramandarla anche ai loro figli persino dopo, quando avevano abbandonato la Terra di Mezzo e fatto di Valinor la loro Casa.

 

Sfortunatamente (o fortunatamente) né Erestor né Glorfindel furono presenti a quella colazione galeotta, e non poterono quindi fermare il diramarsi di quella fiaba assurda per tutta la Valle.

Glorfindel, infatti, si trovava sin dalle prime luci dell’alba nel Padiglione della Fresca Luce; e poco prima di colazione alcuni dei suoi soldati più giovani l’avevano raggiunto, assieme ad Elladan ed Elrohir, per allenarsi nella frescura. Non era stato un allenamento come gli altri, no: Glorfindel era teso, nervoso, distratto da pensieri cupi che si rispecchiavano sul suo viso solitamente cordiale. Si vedeva bene che non aveva dormito: era esausto e sfiancato, e cupe strisce di nero gli cerchiavano gli occhi. Così, senza che lui li notasse, i suoi allievi ed amici si limitarono a posizionarsi in file ordinate dietro di lui, copiando con attenzione le sue mosse, stranamente complicate, stranamente aliene, per loro, che non avevano mai visto lo stile di combattimento dei Gondothlim*.

Stoccata. Parata ad un braccio. Ruotare sul piede sinistro. Fendente. Schivata in basso. Ruotare sul piede destro. Finta in basso. Stoccata col pugnale di sinistra. Salto. Colpo a lame incrociate. Schivata all’indietro. Torsione del busto. Riportarsi in posizione di attacco. E quindi, di nuovo: stoccata. Parata ad un braccio. Ruotare sul piede sinistro…

Glorfindel si muoveva come in trance, gli occhi fissi e vuoti, le membra elastiche, assurdamente, come se il corpo avesse preso il sopravvento sulla mente nell’eseguire quella danza mortale. Era madido di sudore e ansava: cose strane in quell’ambiente ombroso, e che potevano significare solo due cose; la prima, era che si stesse allenando da ore, ben prima del sorgere del sole. L’altra, la più preoccupante eppur meno probabile, era che qualcosa l’angustiava, un dolore fisico, una febbre — della mente come del corpo.

Glorfindel continuò a muoversi, a danzare quella danza che il suo corpo conosceva nonostante la morte. Danzava, Glorfindel, nudo fino alla cintola e lucido di sudore come un campione cosparso di oli, scalzo, e coi capelli incollati in lunghe ciocche ribelli sul collo e le spalle possenti. Danzava, Glorfindel, ed intanto, pensava.

Non aveva dormito, quella notte. E mentre una parte di lui gli diceva che era per la preoccupazione, per le rivelazioni incredibili della giornata e tutte le confuse emozioni che l’attanagliavano, un’altra parte di lui —forse, il cuore— gli diceva che non aveva dormito perché non c’era stato Erestor al suo fianco.

Ridicolo! Si rimproverò. Alzò in pugnali in un arco luccicante e mortalmente preciso e poi li affondò, nell’aria. Erestor probabilmente è già tornato ad essere come al solito. Cinico e inarrivabile e freddo…

“GLORFINDEL!!!!”

…o forse no.

Tutti i presenti si girarono, ammutoliti, perché sulla porta stava Erestor, furente come una belva da caccia. Pallido come tenera neve, i suoi occhi brillavano come stelle fiammanti sopra le uniche due chiazze di colore nella sua figura nera: le guance tinte di un rosso furioso. Le belle labbra, turgide e di una sfumatura di rosa pallido, pallidissimo, erano schiuse a rivelare il lampo candido dei denti serrati. Il nasino perfetto, piccolo, esoticamente all’insù, era arricciato felinamente. Le sopracciglia seriche erano unite al centro sopra alle pozze di fuoco degli occhi, indicibilmente belli, di una bellezza paurosa, eppure erotica.

Questo, naturalmente, era ciò che pensò Glorfindel nel vederlo. Gli altri Elfi si limitarono a pensare ad una via di fuga, ad un nascondiglio, ad un sotterfugio per sottrarsi alla morte lenta e dolorosa che quegli occhi promettevano silenziosamente.

Glorfindel sembrò accorgersi solo in quel momento degli altri presenti. Sorrise indulgentemente del loro (ben giustificato) terrore, come a dire che sapeva che non erano loro i bersagli di quella furia. Fece un gesto arioso delle mani verso l’entrata.

“D’accordo, potete andare. Ci alleneremo ancora domani, ma continuate comunque a perfezionare le mosse da soli nel pomeriggio, va bene?” Glorfindel si ritrovò sommerso da decine sguardi riconoscenti, prima che la stanza si svuotasse quasi per intero. Solo Elladan ed Elrohir, con qualche altro loro coetaneo, rimasero indietro – giusto in caso servisse urgentemente dell’aiuto medico per qualcuno.

Lirimaer!” cinguettò Glorfindel amabilmente. “A cosa devo l’onore della tua visita?”

Erestor, che un attimo prima era lì, sulla porta, ora si trovava davanti a Glorfindel, nella stessa mattonella, naso contro naso, e poi, prima ancora di capire come, Glorfindel si ritrovò steso sulla schiena con la testa dolorante. Gli ci volle un attimo per comprendere che il bruciore che sentiva in viso stava a significare che Erestor l’aveva colpito. Curvò una mano sopra il naso, e fu sinceramente sorpreso di non trovarlo rotto. Si puntellò sul gomito e si alzò quel tanto che bastava per incrociare lo sguardo furioso dell’altro Elfo.

“Beh, buongiorno anche a te!” si massaggiò un altro po’ il naso, rifiutandosi categoricamente di spostare la mano ed esporlo così al pericolo di un’altro incontro ravvicinato con la mano di Erestor. Dopo un rapido calcolo optò per restare steso in terra — da dove continuò a squadrare Erestor risentito, così, ad una distanza di sicurezza.

“Scusa se te lo faccio notare, lirimaer, ma dopo quanto è successo ieri mi aspettavo un saluto ben diverso.”

“Dopo quanto è successo ieri? Dopo quanto è successo ieri?! Ed osi anche ricordarmelo?! Tu, tu, tu… TU!” gli gridò qualcosa d’incomprensibile, che alle delicate orecchie degli altri Elfi sembrò idioma Orchese.

“Oh, andiamo. Questo non è stato per niente carino,” rispose Glorfindel, ancora intento a massaggiarsi il naso, ma con un broncio petulante sul viso. “Lo sai bene che mio padre non era affatto un Orco, e tantomeno era innamorato del suo cavallo.” Un breve attimo di panico. “O si?!”

“Questo almeno spiegherebbe da dove è uscito un simile… mostro!” Erestor chiuse le belle, delicate, lunghe, flessuose e calde mani a pugno. (Ovviamente, tutti gli aggettivi usati sono stati suggeriti dalla mente infatuata di Glorfindel).

“Ma non ti vergogni di quello che hai fatto?! Con che coraggio stai qui a… a… a… a giocare con le tue spade, maledizione, invece che correre di filata a scusarti?!”

“Scusarmi?! Aspetta un attimo! Guarda che tu hai partecipato alla cosa quanto me!”

“Partecipato?! Partecipato?! Io?! Tu lo sapevi che non ero d’accordo, sapevi che era un’idea stupida, ma nooooo, il Signor Ammazza-Balrog aveva voglia di farlo e l’ha fatto!  Mostro!

“Ma tu eri consenziente!”

“E non usare parole che non capisci!” La voce di Erestor tremò, per un attimo, acquistando un tono supplicante, ferito, colmo di una sofferenza scintillante.

“Ti rendi conto di che cosa hai fatto?! Tu e quella tua stupida pozione?! L’hai quasi ucciso, lo sai? L’hai quasi ucciso, ed io non ero qui ad aiutarlo, non ero qui per lui, ed ora osi anche dire che io ero d’accordo! Sei tu che hai avuto quella malsana idea della pozione, tu, tu, solo tu! Io non volevo! Io non vorrei mai fargli del male, non lo capisci?! Sei sempre tu, è sempre colpa tua! Non ti è bastato ucciderlo una volta? Dovevi proprio provarci ancora?!

Agendo d’impulso, Glorfindel s’avventò sull’Elfo ormai isterico, lo spinse a terra e dopo una breve lotta lo bloccò, braccia e gambe, spingendogli le mani sopra la testa e premendosi con tutto il peso del corpo sopra di lui.

Elladan ed Elrohir si scambiarono un’occhiata. E così erano loro, Erestor e Glorfindel, i loro nemici: quelli che volevano impedire il matrimonio di Estel. Una triste scoperta, ma almeno una scoperta utile. Ora restava solo da scoprire perché. Tornarono a fissarli, celando i loro veri pensieri dietro delle maschere divertite.

Lirimaer? Di cosa stai parlando?” stava chiedendo Glorfindel.

“Lasciami! Lasciami andare! Mostro! Mostro!!” Erestor si agitava sotto di lui, ondulando il corpo, tutto, agitando la testa da parte a parte facendo volare a destra e a sinistra i bei capelli neri. Se solo la sua mente non fosse stata così occupata dal panico, il corpo di Glorfindel avrebbe reagito a quei movimenti istantaneamente — rendendo il tutto ancora più pericoloso, per lui.

Lirimaer, devi calmarti. Ho bisogno che tu ti calmi e mi spieghi per benino di cosa parli. Non costringermi a fare cose per cui poi ti arrabbieresti ancora di più.”

“Lasciami!”

“Starai buono e zitto?!”

“Ti ho detto lasciarmi!!”

“Erestor…”

“Lasciamiiiiiiiii!”

“Guarda che io ti ho avvertito…”

“Mostro!”

Glorfindel sospirò.

“E va bene. L’hai voluto tu. Poi non venirti a lamentare della tua ‘reputazione’ con me.”

E, detto questo, Glorfindel scattò, rapido come il falco sulla preda, e s’avventò su di Erestor, sulla sua bocca, e la prese, ne prese possesso, la chiuse, con un bacio infiammato, inebriante, fatto di bocche aperte, respiri strangolati, e la lingua di Glorfindel che si spingeva a forza in quel calore stupito, e creava vortici di piacere.

Gli Elfi presenti alla scena, da bravi Elfi, decisero che lo spettacolo era interessante, e si spinsero avanti con espressione divertita —ci fu addirittura chi si accosciò lì vicino con il mento sulle mani—ad aspettare il momento —l’inevitabile momento— in cui Erestor avrebbe afferrato Glorfindel per la collottola e l’avrebbe scaraventato contro una colonna, un muro, il pavimento a cinquanta metri lui, qualcosa, possibilmente dopo avergli strappato via la lingua a morsi.

E’ per questo che, quando Erestor riuscì a liberare le mani dalla stretta di Glorfindel, tutti annasparono di sgomento nel vederle immergersi estasiate nei capelli di Glorfindel, mentre Erestor rispondeva al bacio con una passione inaspettata, ondulandosi ancora sotto il corpo di Glorfindel, sì, ma con ben altri intenti e ben altri risultati…

La stanza si svuotò in un secondo.

 

Quando una parvenza di coerenza tornò alle loro menti Erestor e Glorfindel si allontanarono — ma dolcemente. Separarono solo le bocche, non i corpi, non le mani, con languida lentezza, ritraendo prima le lingue, poi chiudendo le bocche, lasciando che le loro labbra si carezzassero ancora un attimo, e un attimo ancora, prima di separarsi, non più di un millimetro, non più di un respiro, lentamente. Si guardarono negli occhi, toccandosi dolcemente con la fronte.

Ora sei calmo?”

Erestor annuì. Glorfindel ridacchiò.

“Meglio così, anche se non saprei se sentirmi compiaciuto o molto, molto offeso. Un mio bacio non dovrebbe calmarti, no, no. Al contrario, dovrebbe fartela perdere, la testa…” Lo baciò ancora, giusto un sfiorarsi delle labbra.

“Ora saresti così gentile da spiegarmi di cosa stavi parlando?”

Erestor sospirò.

“Temo di aver perso la calma…”

Un sopracciglio alzato.

Temi?

Un sospiro.

“D’accordo. Ho perso la calma. E mi dispiace. Un po’. Te lo meritavi quel pugno. Ti fa male?” aggiunse con voce stranamente soffice, sfiorando appena il volto di Glorfindel, quasi timoroso.

“Un po’. Hai un destro ammirevole, lirimaer. Com’è che non sei tra i miei soldati scelti?”

Erestor sghignazzò, ma era un suono dolce, pulito.

“Perché senza di me a dirigere tutto, Imladris si disferebbe come un castello di carte al primo alito di vento.” I suoi occhi scintillavano di malizia. Glorfindel scosse la testa, fingendosi esasperato.

“Oh, che stolto che sono! Come ho potuto non considerare un dettaglio così importante, proprio non lo capisco.”

Risero assieme, come ai vecchi tempi. Ma sentivano, sapevano, entrambi, che niente era più come allora: continuavano a stringersi, a sfiorarsi, a carezzarsi, un po’ incerti e un po’ inebriati, come se toccarsi fosse un imperativo importante quanto respirare, ed altrettanto involontario. Glorfindel si fece serio.

“Di cosa parlavi? Che ha fatto la mia pozione a Legolas?”

“Era… troppa. O forse ha reagito in qualche modo con i succhi a cui l’avevi mescolata, non lo so… non sono rimasto a sentire tutta la spiegazione del curatore. Ma ha avuto un effetto su di lui simile a quello di un veleno… ed io… io… ero preoccupato per lui…e… non… non mi lasciavano entrare a vederlo… e ho temuto… il peggio… ed ho pensato… ho pensato che era colpa tua… e… ho ripensato ad allora… così… mi sono lasciato andare… e…”

Glorfindel pose fine a quel flusso ininterrotto di frasi mozze posandogli un dito gentile sulle labbra.

“E’ stato male?” chiese.

“Si.”

“Molto?”

Erestor si rilassò sotto il suo sguardo, riacquistando colore.

“No.”

“Era in pericolo?”

“No.”

“Ora sta bene?”

“Si.”

“Ci saranno degli effetti collaterali, degli effetti visibili?”

“No.”

“Perché hai detto che l’ho già ucciso una volta?”

“Perché quando la Città fu attaccata, tu gli permettesti di seguirti, ed i Balrog--” Erestor chiuse la bocca con uno scatto secco. Fissò Glorfindel con espressione contrita, così animosa che avrebbe potuto incendiarlo. Glorfindel rispose con uno sguardo di pura meraviglia, un po’ confuso, un po’ sgomento.

“Era lì anche lui?” sussurrò, quasi che parlare gli facesse male. “A Gondolin? Ed è… morto?

Vide Erestor sorridergli, un sorriso strano, soffuso di tenerezza e di pietà. Non capì perché sorridesse a quel modo, finché Erestor non alzò un dito e catturò dolcemente una delle sue lacrime. Glorfindel la fissò, incerto di quando avesse iniziato a piangere e perché. Erestor portò il dito ed il suo carico luccicante fra i loro visi, e fissandolo mormorò:

“Ho sempre, irrazionalmente, dato a te la colpa della sua morte. Tu eri il suo eroe, il suo modello. E quando si è trattato di scegliere tra seguire Idril alla via di fuga e seguire te tra le fiamme… lui ha scelto te.” Si portò la lacrima alle labbra e, come baciandola, la bevve.

“Era sempre così, con te. Tutti ti amavano, fino alla follia, fino alla morte. Eri il loro Signore Dorato, e ti avrebbero seguito ovunque. Molti dei rifugiati che scamparono alla morte si salvarono solo perché tu gli ordinasti di fuggire, cacciandoli dal tuo fianco, che non volevano lasciare… ti amavano così tanto, Glorfindel, così tanto…” Scosse la testa.

“Ma Legolas era solo un fanciullo allora, che non aveva nemmeno raggiunto la maggiore età. Era la creatura più bella di Gondolin, così dolce, così etereo, così tremendamente sensuale…e quando morì…” sospirò, “quando morì io diedi la colpa a te. E anche se lo so, razionalmente lo so, che non è stata colpa tua, sentire che potevamo averlo perduto ancora…” lasciò morire la frase. Scosse ancora la testa e tacque, guardando lontano, aldilà del balcone, nell’aria tersa di nuvole.

“Lo amavi?” chiese Glorfindel con un groppo in gola che sapeva stranamente di paura, tristezza e gelosia.

“Si, ma non come temi tu. Non…”

“…non?”

Un attimo. Un battito del cuore.

“Non come amavo… lui. Glorfindel o Gondolin.”

“Che rapporto c’era tra te e Legolas? Chi era lui? Perché…”

Perché lo piango? pensò, ma non lo disse.

Erestor scosse la testa.

“Dirtelo significherebbe parlarti di me, e non voglio. Non posso. Ma posso dirti questo: l’ho, anzi, l’avevamo visto crescere, e gli ero molto… molto affezionato. Lo eravamo entrambi, io e te. E vederlo morire fu come morire un po’ io stesso.”

Silenzio. Silenzio cangiante di luci e di ombre. Silenzio di respiri e carezze.

“Mi dispiace…”

“Non è stata colpa tua. L’ho capito da tanto tempo, forse da prima che lui rinascesse, e mi cercasse, e mi dicesse tutto. Si, perché lui ricorda, Glorfindel, ricorda tutto. Sin da quando era piccolo, nella sua mente, nella sua anima, lui è stato Legolas o Gondolin**, e lo sapeva. Il Legolas che conosci tu è solo il corpo in cui l’hanno fatto rinascere, identico a com’era. Il suo spirito invece… è, ed eternamente sarà, quello di quel fanciullo tremendamente bello…”

“Lui si ricorda… mi ricorda…” sussurrò Glorfindel, ma Erestor lo ignorò.

“Saperlo in pericolo mi ha… scosso. E non sono riuscito a fare niente di meglio che venirti ad aggredire con la mia paura. Sono io che dovrei scusarmi, non tu.” Guardò Glorfindel in un’adorabile miscuglio di insicurezza, pentimento e bellezza.

Era finta, certamente, tutta quell’innocenza. Quegli occhioni che sbattevano le lunghe ciglia scure erano troppo languidi per essere sinceri, quel broncio sulle sue labbra era troppo pronunciato — chiamava troppo al bacio— per non essere simulato.

Ovviamente, Glorfindel ci cascò come un allocco.

E reagì in modo del tutto inaspettato — almeno per Erestor.

Complice un po’ quello sguardo, un po’ le capriole che il cuore gli fece nel petto, un po’ la mancanza di sonno, Glorfindel si chinò a baciarlo ancora. Un semplice sfiorarsi leggero delle labbra, veloce, pulito. Seguito da un altro. E un altro. Una danza lieve, come ali di farfalla, sfiorare appena e ritirasi, sfiorare ancora e fuggire.

“Glorfindel…”

Un altro bacio. E un altro poi. Dolci. Dolci…

“Hm?”

Ancora un bacio. E ancora uno. E ancora. Lievi. Lievi…

“Che stai facendo?”

Baci, come pioggia. E poi sentire, su quelle labbra che premono sulle sue, la nascita di un sorriso.

“Se non l’hai capito, significa che non lo sto facendo nel modo giusto. Ecco, fammici riprovare…” e stavolta la dolcezza veniva eclissata dalla passione, labbra si schiusero e due lingue s’incontrarono, danzando, danzando…

Oh, come capire quanto durò quell’estatica follia, quella leggerezza euforica? Arrivato ad un certo punto, Glorfindel pensò di sentire le campane echeggiargli nella mente. Poi Erestor spinse una mano dolcemente sulla bocca di Glorfindel.

“Non possiamo,” sussurrò.

Glorfindel si sentì colpire, al petto, al cuore, e di nuovo, una seconda volta, morire.

“Perché? Perché no? Ho fatto qualcosa? Ti ho fatto male? Ti ho offeso? Ti prego, ti prego, ti chiedo mille volte scusa, ma Erestor, non scacciarmi, no, non farlo, io non volevo--” di nuovo quelle dita gentili sulle labbra. Erestor sorrise sotto di lui, poi ridacchiò, quindi gettò indietro la testa in una risata cristallina.

“Oh, Glorfindel! Se solo potessi vederti! Sembri un bambino. Un bambino privato della caramella che scodinzola per riaverla!” Scosse la testa. Gli rivolse un sorriso ampio e bianco, ed affatto timido. “Sta suonando la campana del pranzo, testone! Dobbiamo andare, oppure verranno a cercarci. Abbiamo già saltato la colazione… non pensi a cosa direbbero se ci scoprissero in questa posizione?”

“Ah, fosse per me mi farei scoprire in questa posizione con te in ogni attimo della giornata… dobbiamo proprio andare?”

“Hm-hm.”

Glorfindel sospirò.

“Che pena.”

Erestor lo spinse dolcemente ma con fermezza lontano da sé, e con la testa gli indicò la porta.

“Ora vai. Io vi raggiungerò fra poco. E’ meglio che non ci vedano arrivare assieme…”

Glorfindel annuì, un po’ ebbro, e indossati in fretta tunica e scarpe si avviò verso la porta. Erestor rimase indietro, al centro perfetto della stanza, illuminato da miriadi di luci, ad abbracciarsi in silenzio.

Si guardò attorno: non era mai entrato nel Padiglione della Fresca Luce, prima. L’aveva sempre considerato un posto troppo pericoloso per lui, il regno segreto ed assoluto di Glorfindel, dove c’era tutto di lui, tutto ciò che lo caratterizzava, l’Elfo eternamente allegro e bonario, bambino e pasticcione. Ed al tempo stesso era un Mausoleo che racchiudeva in seno le prove che l’altro Glorfindel, quello che lui aveva amato così tanto, quello serio ed elegante, autoritario e severo, non esisteva più…

Lasciò vagare lo sguardo intorno, sentendo la malinconia riempirlo alla vista degli stendardi della sua Città. Poi la malinconia si fece dubbio, quindi stupore. Si guardò intorno ancora, e poi ancora. Si avvicinò agli stendardi, toccandoli uno ad uno, esplorando ogni angolo, e quindi si ritrasse, confuso, e scosse la testa.

“Ci sono tutti gli stendardi delle Case di Gondolin,” disse fra sé. “Tutti, tranne quello di mio padre…”

Scosse ancora la testa, un po’ smarrito. Si toccò la tempia, come per scacciarne un dolore fastidioso. Si voltò ed in un fruscio di velluto nero lasciò la stanza, con tutti i suoi arazzi e le sue spade. Tutti gli arazzi e le spade di Gondolin.

Tutti, tranne quello del Popolo della Fonte.

 

 

 

 

 

 

-TBC (?)

 

 

 

 

 

*Gondothlim = “Abitanti della Pietra”. Il popolo di Gondolin.

**Personaggio presente negli scritti del Maestro Tolkien. Figurante nella prima stesura de “La Caduta di Gondolin”, è poi scomparso dagli scritti successivi, non si sa se per scelta o per esigenze di brevità. Quel Legolas, comunque, era caratterizzato da una vista acutissima, la stessa che caratterizzò poi il Legolas che fece parte della Compagnia dell’Anello. Alcuni suggeriscono che il personaggio sia, effettivamente, lo stesso, che il Professore ha tolto da una storia per aggiungerlo all’altra. Salendo di un’ulteriore gradino, la qui presente Nemesi ha identificato i due personaggi, come già fatto con i due Glorfindel, di Gondolin e di Imladris.