.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: Finalmente ho potuto scrivere alcune delle scene di questa fic che mi stanno più a cuore. Spero quindi che mi perdonerete se, visto il mio amore per le cose struggenti ed esageratamente dolci, ho allungato il capitolo con molti dialoghi e dettagli veramente smielati! =)=)=)=)=)

Capitolo 12

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La radura era silenziosa attorno a loro. Persino il vento -persino la sorgente- s’erano chetati, e trattenevano il respiro. A Glorfindel parve, improvvisamente, di svegliarsi da un sogno, e si ritrovò con Erestor tra le braccia. E la cosa strana, la cosa assurda, era che loro due –loro due!- Erestor e Glorfindel, i nemici per definizione, gli amici per sempre, si stavano baciando, con passione, e bocca e labbra e lingue e mani e il movimento dolce delle anche in fiamme.

Fosse stato per lui, non avrebbe smesso mai.

Mai.

Erestor, al contrario, pensò di essere incappato in un sogno. Si sentiva leggero, senza fiato, e caldo, sì, un calore dolce che gli scorreva nelle vene e gli faceva girare la testa. Le labbra di Glorfindel erano, al tempo stesso, dolci ed insistenti. Le mani sul suo corpo si muovevano tenere quanto spudorate. Il suo calore -oh, il suo calore!- era, strano a dirsi, tiepido e rassicurante come un manto in una notte d’inverno, eppure lo bruciava, consumandolo, come il sole d’estate.

“Erestor,” ansimò Glorfindel, muovendo le labbra dalle sue solo per spingerle giù, lungo il collo, verso l’incavo dolce dove palpitava il suo cuore. “Lirimaer. Lirimaer…”

Erestor gli spinse le dita fra i capelli, si premette contro di lui, tutto, tutto, e gemette, gemette, gemette, gettando indietro la testa, serrando gli occhi, schiudendo le labbra – e Glorfindel sentì che doveva baciarle ancora. Semplicemente, doveva. La dolce sensualità di quei gemiti come velluto si perse nella sua bocca quando Glorfindel spinse la lingua tra le labbra di Erestor.

E d’improvviso fu silenzio e fu risa, fu Primavera e fu Estate, tutto assieme. E fu come essere soli al Mondo ed esserne il centro attorno a cui esso ruotava. C’era ogni bella, bellissima cosa che Glorfindel avesse mai amato, e il mare e il sole e la luna e la rugiada e la nebbia e il profumo di fiori, ed era tutto attorno a loro, per loro e, forse, dentro di loro, come un vortice di sensazioni vissute insieme e a lungo dimenticate.

Si sentì rinascere, Glorfindel. Per la prima volta, da quando, millenni prima, erano tornato alla vita capì cosa significasse vivere. Ed era come una droga, per lui, come un vino, una felicità stordente, assurdamente intensa, come un sogno fatto da sveglio, come morire, morire di dolcezza, tra mille sensazioni di gioia.

Erestor gemeva, Erestor sognava, e gemendo e sognando si abbandonò alla tenerezza di Glorfindel, fragile come un fiore appena colto.

 

Giacquero nudi nell’ombra dei salici, stretti, come una cosa sola, pelle contro pelle, calore contro calore, bocca contro bocca. Giacquero toccandosi con la fronte, esplorandosi con le mani, uniti, nell’ombra e nella luce che danzavano su di loro, oro ed ebano che si intrecciavano, belli, bellissimi, un contrasto unico, semplice, assoluto.

E nel cuore più nascosto di quell’arazzo di bellezza, la mano di Erestor salì, lenta, reimparando con dolcezza una strada troppo a lungo dimenticata — carezze che s’inseguono su quella pelle, che è velluto ed è acciaio — dolcezza, pura e semplice — Glorfindel geme, geme il suo nome, “Erestor. Erestor…” come una nenia, come una poesia, una canzone — e le dita si chiudono sopra di lui, un po’ con amore, un po’ con rabbia — e l’alito caldo che gli sfiora l’orecchio e dice, così come aveva fatto allora, un respiro delicato come un battito d’ali di farfalla sulla pelle, mentre le dita si muovono, esplorano, ricordano:

“Prendimi, Glorfindel. Prendimi…

Poteva essere un ricordo, un’illusione, un istinto, oppure tutte e tre le cose insieme, ma Glorfindel sentì quelle parole riverberargli nella mente, le sentì, come se gli venissero ripetute –come se gli fossero state ripetute mille volte da quella voce, in passato, fra i salici, nell’acqua, sotto la luna, nella pioggia, nella luce, nell’ombra.

Prendimi.

Sangue, calore, pensieri, desiderio, tutto, tutto di lui si concentrò fra le sue gambe. Non aveva mai desiderato qualcuno come desiderava Erestor in quel momento. Non aveva mai sentito bisogno più grande. E non era solo voglia, e non era semplicemente amore. Era Erestor fra le sue braccia, ed era giusto

Glorfindel si arrese, si lasciò travolgere. Conosceva quella dolcezza, quella passione. Conosceva quell’Elfo che si agitava sotto di lui, invocandolo, conosceva i suoi occhi sempre tristi che ora risplendevano come stelle; conosceva quella labbra che formavano il suo nome; le dita che lo facevano fremere di piacere. Lo conosceva.

Ed era suo.

Penetrò dentro di lui, in quel calore ritrovato, e vi perse sé stesso. Iniziò a muoversi, come seguendo una via a lungo conosciuta, conscio solo del piacere che dava, e di quello che provava. Piacere, puro piacere, e non c’erano più fiamme, non c’erano più demoni, solo qualcosa, qualcosa di profondo, qualcosa che conosceva ma che non sapeva chiamare per nome, qualcosa che non si limitava solo a fargli dimenticare il suo tormento: qualcosa che lo guariva, lo faceva guarire dentro, nell’anima, lì dove faceva più male, e scioglieva la sua tristezza, e non si lasciava dietro alcun rimorso.

Pianse; grosse lacrime calde scivolarono sulle sue guance e caddero dolcemente sul viso di Erestor, gli tempestarono i capelli, gli bagnarono le labbra. Ed Erestor gli prese il viso, e muovendosi con lui, attorno a lui, si spinse fino a bere quelle lacrime dalla loro sorgente, le leccò via, mentre col bacino gli mostrava un ritmo nuovo, che era ancora dolce, si, ma di una dolcezza selvaggia.

E così ci furono grida, e ci furono baci, e ci fu passione - e ci fu anche dolore, per Erestor, dopo tutto quel tempo, tutti quei secoli, i millenni, trascorsi nella solitudine di un lutto inconsolabile, nella castità di un dolore in un cui aveva atteso, come un’isola solitaria nel mare, quell’onda, quell’onda, tremenda nel suo splendore, d’oro e incontenibile. E di dolore ce n’era stato anche quella notte, lì, a Gondolin – il dolore dell’ innocenza perduta, diluito e oscurato dalla felicità – felicità, perché quell’innocenza l’aveva presa Glorfindel.

Si muovevano ora, non più in tenero concerto, ma scivolando senza ritmo nella follia, correndo a perdifiato verso un precipizio, un precipizio altissimo, ed ogni spinta di Glorfindel era un grido di Erestor, e ogni spinta di Erestor era una lacrima sul viso di Glorfindel, finché, senza respiro, raggiunsero quel precipizio, quella linea di confine, e la varcarono, la soglia dell’estasi, cadendo, cadendo, uno dentro l’altro, fino a tornare, lentamente, sulla terra ferma, fino a svegliarsi, in quella realtà di sogno.

 

Glorfindel aprì lentamente gli occhi, ansimando negli ultimi fremiti dell’orgasmo, e guardò quel viso splendente. Erestor gli sorrideva, un sorriso degno di un quadro, soave e sentito. Lunghe ciocche di capelli s’intrecciavano sopra il suo volto, incollate alla pelle lucida da un fine velo di traspirazione. Eppure, mentre guardava, Glorfindel vide emergere lentamente dai ricordi il volto un’altro Erestor, giovane, giovanissimo

(Valar, Glorfindel, che creatura innocente hai corrotto in quella vita che credevi perfetta e senza macchia?)

che lo guardava allo stesso modo, splendente nell’attimo che segue la passione, nudo e bagnato dal chiaro di luna. E quella visione lo guardava con occhi larghi e dolci, sbattendo le ciglia in quell’adorabile vezzo che lo caratterizzava, e lo stringeva, quell’ Erestor acerbo e aggraziato, quel giovinetto di fiamma e avorio, e lo chiamava hir nîn, mio Sire, e pen-vain, mio bellissimo, e ind nîn, cuore mio, e pen-valthennen, mio Signore Dorato*. E tutti quei nomi, tutti, erano strofe di una canzone, una musica sublime che gli sussurrava: ti amo, ti amo, ti amo, ti amo…

 

Dopo la tempesta della passione, giunse, inesorabile, la calma, l’abbandono, il sonno. Glorfindel stringeva Erestor mentre lui dormiva, sentendo la sua schiena contro il petto. Gli carezzava i capelli, le lunghe gambe, il ventre piatto, mentre con le labbra cercava il semplice tepore nascosto nel profumo della sua pelle, sul collo, sulle spalle. Lo esplorava, sentendo di tornare infine a toccare un tesoro che ben conosceva, ed intanto pensava.

Come aveva fatto Erestor a disperdere il suo dolore, a spegnere le fiamme che l’assillavano, chetare le urla che echeggiavano senza sosta nella sua mente – come aveva fatto Erestor a restituirlo a sé stesso ed alla sua sanità con un semplice bacio? E perché fare l’amore, fare l’amore con lui, l’aveva riempito di serenità, mentre il tocco di altri era sempre e solo un differente tipo di agonia, un dolore diverso -peccato, senso di colpa- dove annegarsi?

Ed ancora, se così stavano le cose, se Erestor era ciò che era andato cercando da quando era rinato, la sua cura, il suo sostegno, non sarebbe stato giusto amarlo appassionatamente, prenderlo per riprendersi sé stesso, per tutto il resto della sua vita ossessionata?

Glorfindel inspirò a fondo il profumo di vaniglia che sorgeva da quel cuscino di capelli corvini. Ed ammise, in un misto di commozione e orrore e tenerezza, una cosa inaudita, e che pure era vera, lo era da millenni.

“Ti amo, Erestor.”

 

* * * * *

 

Erestor si svegliò che era quasi sera.

Il velo del sonno si alzò dinanzi ai suoi occhi elfici, rivelando lo spettacolo struggente della radura inondata dal crepuscolo, tremolante di ombre azzurrine e luce arancio che danzavano, danzavano, rotte solo dal bianco scintillante della spuma sull’acqua.

Le dita di Erestor, prima ancora che lui si svegliasse del tutto, avevano iniziato a tracciare piccoli cerchi, così, senza fretta, senza scopo, sulle mani intrecciate attorno alla sua vita. Una strana contemplazione estasiata lo cullava, ed Erestor si rammaricò non di quanto era successo, ma che il suo essere Elfo avesse già cancellato ogni traccia di quel dolore sublime, di quella pressione bruciante, lasciandolo di nuovo integro, e freddo dentro.

Sentì il corpo premuto dietro il suo muoversi, ed un piccolo, dolce bacio posare sulla sua spalla.

“Buongiorno,” sussurrò Glorfindel.

“Intendevi buonasera, forse,” sussurrò Erestor in un timido, debole tentativo di riportare le cose com’erano sempre state fra loro: uno scambiarsi di battute, un’amicizia fatta d’infiniti attimi di rabbia.

Glorfindel provò a farlo girare, a costringerlo a fronteggiarsi, ma Erestor resistette all’attenta insistenza delle sue mani, stupendosi quando queste cessarono di tormentarlo e tornarono invece al loro posto, premute debolmente contro il suo ventre.

“Erestor…”

“Non c’è niente da dire, Glorfindel.”

“Ne sei sicuro?”

“… … … … … … … … … Si.”

“Non dovremmo parlare di quanto è successo?” insinuò Glorfindel. Il corpo che stringeva s’irrigidì.

“E perché? Tanto, non accadrà mai più. Glorfindel, il Sire Dorato, Capo delle Guardie di Granburrone, non fa mai del sesso due volte con la stessa persona.”

“No,” ammise Glorfindel. “Ma fare l’amore? Questo, devi ammetterlo, lui non l’aveva mai fatto, prima. Fare l’amore con qualcuno, e non semplicemente fare sesso. E’ una cosa diversa. Fare l’amore, dico. E’ diverso. Ed è qualcosa che questo tale Glorfindel farebbe ancora con un certo Erestor, Primo Consigliere di Elrond - se lui glielo permettesse.”

Erestor parve sciogliersi, poi s’irrigidì di nuovo, e di nuovo si fece debole. Glorfindel c’era riuscito. Era ritornato al suo solito modo di fare, ristabilito quei ponti che il fare l’amore aveva distrutto, e così facendo l’aveva toccato in profondità che mai, prima, Erestor aveva mostrato a qualcuno.

“Non scherzare.”

“Non sto scherzando.”

“Ma tu…” iniziò, solo per sentire la gola stringersi attorno alle sue parole. Ci volle molto per sciogliere quel grumo di tristezza, ed intanto, per tutto il tempo, le dita di Glorfindel scorsero carezzevoli sulla curva della sua anca.

“Tu non ti ricordi di me,” disse infine. Ed era un soffio, ed era un urlo, ed era dolore ed era dubbio, tutto insieme. Glorfindel non rispose; era attraversato dalla familiarità dei suoi movimenti, del suo calore contro il petto, della sua voce mormorante nell’ombra, del profumo intenso e speziato dell’amore che si mescolava a quello dolce della sua pelle.

“Perché mi desideri, se non mi conosci? Perché mi cercheresti, se già una volta mi hai dimenticato? Non conto nulla per te. Se non fosse così, tu non mi avresti…”

“Non ti ho dimenticato, Erestor.”

“Bugiardo!” urlò l’altro, e svicolandosi a forza da quell’abbraccio molle si rizzò a sedere, fissandolo in volto con gli occhi fiammeggianti.

“Bugiardo! Mai, mai, in tutti i secoli dal tuo ritorno mi hai mostrato un segno, uno solo, che ti ricordassi di me, che t’importasse, che provassi qualcosa nei miei confronti, fosse anche solo pietà, o il dolore che unisce due fuggiaschi! L’hai ammesso tu stesso, poco fa! Tu non ti ricordi affatto di me!”

Glorfindel si alzò su un gomito. Con la mano cercò i capelli di Erestor.

“Ho detto di non ricordarti, ed è vero. Ma non ho ricordo di te così come non ne ho di Gondolin. Non guardarmi in quel modo. Io non la ricordo. La mia vita, la mia casa, le cose per cui sono morto in modo atroce… io non ricordo nulla. Lei, loro… te.

Lo prese per il mento, e fece sì che i loro visi si avvicinassero. I loro occhi si fissavano ora, vicinissimi, abbastanza vicini da baciarsi.

“Ascoltami Erestor. Tu mi conosci, e sai sempre quando dico la verità e quando invece no. Guardami negli occhi adesso; oppure, se preferisci, usa il tuo potere e guardami dentro, nel cuore. Lo vedi? Riesci a vedere che non sto mentendo?”

“Non voglio guardare!”

“Fallo!”

“No!”

Glorfindel lo tirò a sé, e brutalmente gli premette la bocca sulla sua. Un bacio violento, indegno di questo nome, fatto di furia, di sangue, di odio.

Per tutto il tempo i loro occhi restarono aperti, e fissi, pure mentre Erestor si dibatteva ed affondava i denti nelle labbra che violentavano le sue; e mentre Glorfindel lo spingeva a terra, schiacciandolo, premendolo giù con forza, con rancore.

Per tutto il tempo i loro occhi restarono aperti, e fissi.

Poi, improvvisamente, gli occhi dorati di Erestor si fecero grandi, smisero di brillare, non più furiosi ma spaventati quasi, occhi di cervo, e non più di lupo. Sembrò restare per un attimo senza fiato. Glorfindel si staccò da lui, gentilmente, e vide le braccia di Erestor ricadere senza forza sull’erba, le sue labbra violate aprirsi di sorpresa.

Poi, lentamente, Erestor alzò le mani, stirò le dita, e con le punte, solo quelle, gli toccò il viso. Come un cieco le lasciò scivolare su è giù, ridisegnò le palpebre, la linea alta delle sopracciglia, lo zigomo, le labbra. Il suo sguardo era colmo di una trepidante meraviglia.

“Non menti,” disse in un soffio. Glorfindel scosse la testa. Il suo peso sul corpo di Erestor non era più un ostacolo, ma una sensazione confortante.

“Io non ho memoria della mia vita passata. Nulla, se non la consapevolezza delle fiamme che mi avvolgono, mi bruciano. Nulla se non le sensazioni della caduta, la paura, la rabbia, il grande, terribile dolore, lo schianto, la morte. Questo ricordo della mia celebrata vita: la mia morte. E poi le urla, Erestor, ricordo le urla dei morenti come se fossero venuti tutti, in processione, uno dopo l’altro, ad urlarmele nelle orecchie, ed esse si sono trasformate poi in un coro eterno, che non zittisce mai.”

Piangeva di nuovo Erestor, in quel suo modo bellissimo e senza suono. Pioggia che gocciola sul volto di una statua.

“Tutto questo dolore…” sussurrò, sfiorandogli il viso. “Lo sento. Lo sento emanarsi da te come un’onda. Mi sgomenta. E’ tremendo. E’ immenso. E tu l’hai affrontato da solo…”

Glorfindel sorrise sotto le sue dita.

“Il tuo dolore è come il mio, Erestor. E forse è anche peggiore, perché tu ricordi tutto, e hai trascinato avanti questo peso per secoli, per millenni, sempre solo.”

“Perché non hai mai detto nulla?” Erestor appoggiò la guancia contro la mano che indugiò incerta sui suoi capelli.

“E cosa dovevo dire? Che non ricordavo la vita per cui tutti mi celebravano? Che le gesta per cui tutti si congratulavano con me le avevo apprese dai libri? Te lo immagini? No. A loro serviva un eroe. Una sicurezza. ‘Il Guerriero d’Oro di Gondolin inviato dai Valar per aiutare a sconfiggere l’Ombra’. Non avevano alcun bisogno di un Elfo più tormentato e spaventato di loro. A chi potevo dirlo? Con chi potevo parlare, Erestor? Ero solo.”

“Ed io che ti scacciavo…” le lacrime, le lacrime, scivolavano giù silenziose, ed incontravano le labbra di Erestor, e la mano di Glorfindel. “Ero ferito, e non ho mai provato ad avvicinarti, a dirti per primo che… che…”

“Erestor… io ti ho dimenticato, ma non perché per me contassi poco. Anzi. Da quando sono rinato nulla, nulla, è mai stato così importante per me. Nulla mi ha fatto sentire così vivo come stare con te. E non parlo solo di quello che è successo oggi. Tu conti molto per me – più di quanto tu non creda.”

Erestor sentì un impulso irrefrenabile a quelle parole: voleva baciare Glorfindel, baciarlo e stringerlo, cullarlo, accarezzarlo, e prenderlo dentro di sé, la sua carne, il suo desiderio, il suo dolore, tutto, annegando la sua sofferenza nel calore della loro unione.

Voleva farlo. Lo fece.

 

* * * * *

 

La luna splendeva alta nel cielo, quasi piena, eppure non ancora. Spandeva un chiarore bianco come latte nella radura, velata come un’ancella pudica dai lembi strappati di nuvole trasparenti. Le lucciole si alzarono dal sottobosco come timide stelle, e presero ad ondeggiare sul fiume, rapite, chissà, dai loro stessi riflessi cangianti.

Erestor stava in piedi nell’unica pozza d’ombra un po’ più scura delle altre, quella un po’ più nera, dove coi suoi capelli e la sua lunga tunica inchiostro riusciva a perdersi, quasi del tutto inesistente. Stava ritto, abbracciandosi il busto, e penetrava con lo sguardo tra i salici, come in cerca di qualcosa.

Lontano, dietro di lui, dall’altra parte della radura, Glorfindel legava i cavalli di Estel e Legolas al suo, uno dietro l’altro, in uno strano corteo nervoso.

 Tindómerel li fissava fiduciosa da poco più giù. Anche lei, come il suo padrone, s’era mescolata alle ombre, invisibile tranne che per i dolci occhi scuri, che sembravano catturare tutta la luce.

“Ti racconterò di Gondolin.”

Glorfindel sussultò: non seppe trattenersi. Le sue mani erano appena sopra la sella, pronte a posarsi per issarlo su, ma si bloccarono a mezz’aria in quella posizione. Non si girò, non rispose, quasi non respirò. Sapeva che ciò che Erestor aveva da dire doveva dirlo coi suoi tempi, dalle ombre, non visto, come se la sua fosse una voce senza corpo che cadeva per caso nelle orecchie di Glorfindel.

“Ti racconterò di Gondolin,” disse. “Se tu lo vorrai. Ti racconterò di com’era lei, e di com’eri tu. Ma non ti dirò di me. Non posso. E’ giusto che tu conosca il tuo passato, le tue origini, e scelga cosa farne. Ma la mia vita è mia, e non posso, non voglio risvegliare ciò che così faticosamente tento ogni giorno di lasciarmi indietro. Potrai chiedermi ciò che vorrai, e ti risponderò. Ma non ti dirò nulla di me.”

Un silenzio colmo d’aspettativa. Come una marionetta tirata dai fili Glorfindel gli domandò qualcosa, e sapeva che era ciò che Erestor voleva sentirsi chiedere.

“Perché no?”

“Perché quell’Erestor, quell’Erestor di cui ti parlerei non esiste più. Io non sono più dolce, non sono più ingenuo, né timido, né insicuro. Non sono più l’amante bambino che non sapeva dire no al suo Signore Dorato. Erestor o Gondolin è morto quel giorno, quando è morto Glorfindel o Gondolin**.”

“Io sono qui,” disse Glorfindel. E lo disse ancora senza girarsi, senza muoversi, quasi senza respirare.

“Ma non sei lui. No, affatto. Non gli somigli nemmeno, come io non somiglio a quell’antico Erestor, quell’antico bambino, se non nell’aspetto. Ah, ecco la cosa davvero tremenda: solo quello è sopravissuto in noi, dei due figli della Città Segreta – i loro volti. Loro sono morti. Lasciamoli riposare in pace, assieme alla loro storia.”

 

Glorfindel sentì il fruscio quieto delle sue vesti scivolare sull’erba e capì che, per Erestor, il discorso era finito. Glorfindel salì in sella con un balzo furioso, felino, e partì al galoppo sfrenato. Erestor non fece nemmeno in tempo a voltarsi. Un’ombra scese su di lui, un braccio l’afferrò per la vita, lo issò in alto, e prima ancora di poter proferire parola, Erestor si ritrovò premuto contro il petto di Glorfindel, seduto in equilibrio precario sul cavallo lanciato a velocità pazzesca nelle ombre della foresta.

Fissò Glorfindel con un’espressione per metà confusa e per metà indignata. Glorfindel non lo degnò nemmeno di uno sguardo mentre ringhiava a denti stretti:

“Dì a Tindómerel di seguirci, oppure resterà qui.”

Erestor aprì la bocca per rispondere, quando capì che aveva ragione. Si voltò come poteva tra quelle braccia che lo stringevano come barre d’acciaio, s’isso oltre le spalle del guerriero, premendoci sopra le mani. E proprio mentre era così, pericolosamente in bilico, premuto contro il petto di Glorfindel, le gambe dondolanti nel vuoto scrosciante, la testa sospesa appena sopra la sua spalla, Glorfindel si voltò e gli sibilò, solleticandogli l’orecchio sensibile col calore del respiro:

“D’accordo Erestor. Farò come vuoi tu. Ti ascolterò parlare di Gondolin, se questo significherà passare del tempo insieme. E ti lascerò tenere il tuo maledetto segreto, sebbene io sappia che ciò che mi nasconderai sarà proprio la parte più importante della mia vita.”

Erestor tremò. Se era per la vicinanza dell’altro Elfo, per la silenziosa minaccia delle sua braccia che lo attanagliavano, o per la ruvidezza della sua voce, pericolosa ed eccitante insieme, questo non lo seppe mai.

“Ma non provarti mai,” continuò, “non provarti mai, Erestor, mai, a distanziarti da me. Non ti permetterò di creare delle barriere tra noi: eravamo amici, e qualsiasi cosa ci sia tra di noi adesso, o ci sia stata una vita fa, questo non dovrà cambiare mai. Non permetterò a niente e a nessuno di strapparti da me – già una volta l’hanno fatto i Valar, e non dovrà accadere mai più.

“Ed ora ascoltami bene, perché non lo ripeterò una seconda volta. Ciò che è accaduto oggi non c’entra niente con le persone che eravamo un tempo. L’hai detto tu stesso: loro sono morti. Ciò che facciamo in questa vita interessa solo noi, le persone che siamo ora, qui, adesso. Abbiamo fatto l’amore, Erestor, non nasconderti, perché il nostro era amore, amore, ed era tenero, era appassionato, ed era nostro. Non è qualcosa nato dai ricordi – ed io non permetterò che essi lo distruggano!”

Glorfindel spronò ancora di più Asfaloth, infierendo rabbiosamente sui suoi fianchi coi talloni. Lo stallone si rizzò sulle zampe posteriori, costringendo Erestor ad allacciarsi a Glorfindel, e poi scartò, veloce, come un fulmine bianco nella notte. Passava tumultuoso tra le fronde, senza quasi toccare terra con gli zoccoli, ed un attimo dopo la notte l’aveva inghiottito, e tutto tornava silenzio.

 

* * * * *

 

Era uno strano, piccolo corteo quello che entrò tuonando a Granburrone nel cuore della notte.

Le finestre si aprirono, canti e danze furono interrotte con spavento, e gli Elfi si riversarono in strada preoccupati, sospirando di sollievo nel vedere che si trattava solo di Glorfindel che rientrava a casa.

Ma chi ritrovava il respiro in quel modo lo perdeva di nuovo, sorpreso e confuso. E non tanto perché Asfaloth, l’instancabile destriero, pareva reduce da una guerra, lucido di sudore ed ansante come un mantice. Né perché tre cavalli sprovvisti di cavaliere seguivano lo stallone, anch’essi contusi e tremanti dalla stanchezza. Ciò che li colpiva era la bellissima visione stretta tra le braccia di Glorfindel, il bel corpo luminoso portato in processione da quegli strani personaggi.

Pochi riconobbero quell’Elfo dai capelli lucidi, la pelle liscia e vellutata come pesca, le labbra rosee e turgide come frutta d’estate, e gli occhi limpidi, non più fiammeggianti, non più d’oro.

I più si limitavano ad ammutolire per l’ammirazione: Glorfindel e quella deità notturna formavano una coppia stranamente bella, un perfetto contrasto di ebano e oro, lo Sconosciuto sinuoso, languido, pallido, e Glorfindel, altrettanto bello ma, da buon guerriero, alto, aitante, e baciato dal sole.

Avanzarono nella folla che si chiudeva ad onde su di loro, aprendosi però al centro come la spuma dinanzi alla chiglia della barca. Asfaloth procedeva lentamente ora, e mille e mille sguardi curiosi poterono posarsi sul Bellissimo Sconosciuto.

Erestor non poteva sopportare tutta quell’attenzione. Era stanco, nel corpo e nell’anima, tremante, e confuso. Provava un impulso segreto a fuggire da Glorfindel, via, lontano, in luoghi per lui irraggiungibili; ed intanto s’aggrappava come un naufrago alla promessa che gli aveva fatto di non lasciare più che li separassero.

Emise un debole lamento quando un Elfo allungò una mano per toccarlo, coadiuvato dalle grida silenziose di un qualche suo fratello. Avevano negli occhi, entrambi, una fiamma strana, simile a quella che accendeva la vista di Legolas – si, perché anche Erestor, come Thranduil, come Legolas, nascondeva sotto le vesti informi quel dono che a molti Elfi sembra sacrilego ed impuro: un corpo sensuale, una tentazione invincibile che invitava all’amore e non al canto, alla voluttà e non allo spirito.

Ed in quel suo momento di fragilità, la maschera di ghiaccio era crollata rovinosamente, rivelando la calda fiamma che custodiva aldilà.

Glorfindel vide la mano alzarsi dalla folla, vide lo scintillio insano in quegli occhi, e sentì, quasi stupendosene, Erestor premere il viso contro il suo petto, nascondendosi, abbracciandolo, chiudendogli i pugni nella maglia.

Agì d’impulso. Affondò una mano nei capelli lustri di Erestor, chiudendolo col braccio in una stretta gentile, mentre con l’altra afferrava il polso di quell’insano ammiratore, e torceva. Non arrivò a spezzare l’osso, questo no. Ma aspettò di vedere quel viso aguzzo e tagliente impallidire, ingrigirsi dal dolore, prima di lasciarlo andare e spronare ancora il cavallo.

Si lasciarono indietro la folla di curiosi, la maggior parte dei quali sembrava teneramente commossa da quell’espressione di violenza – perché a loro era sembrata la giusta ira di un’amante protettivo.

 

Quando la processione arrivò alle stalle, Glorfindel berciò al custode di occuparsi dei cavalli, cosa che il poveretto fece immediatamente, esibendosi in mille cerimonie ed inchini, spaventato dal tono furente di quel Sire solitamente così allegro. Asfaloth fu fermato quel tanto che bastava a sciogliere i nodi che legavano gli altri cavalli; quindi continuò a trottare verso la Porta d’Oriente, quella più vicina agli appartamenti di Erestor. Glorfindel tirò le redini appena sotto la grande scalinata di marmo bianco e rosa.

Rimasero lì fermi per un tempo indefinito, soli, nel buio assoluto, perché anche la timida luna si era nascosta dietro una coltre di nubi, portando con sé quasi tutte le sue stelle. Poi Glorfindel posò delicatamente Erestor a terra, quasi fosse di cristallo. Erestor rimase lì, non si mosse. Solo guardava, guardava, l’orizzonte oscuro e lontano.

Glorfindel si voltò per scendere da cavallo, ed in quell’istante Erestor corse su per i gradini, veloce, appena visibile nel buio. Ma Glorfindel fu dietro di lui in un attimo, l’afferrò per il polso, come già aveva fatto prima, un tempo che sembrava infinitamente lontano, lì nella radura, prima che il sentimento dormiente che c’era tra loro sbocciasse di splendida vita.

“Erestor, aspetta!” disse il guerriero – no, ‘disse’ non descrive il tono della sua voce. Piuttosto pregò, si disperò, supplicò e pianse. Tutto in un soffio.

Erano fermi, al centro delle scale, emotivamente troppo esausti per combattere ancora.

“Erestor, ti prego. Dimmi una cosa, una cosa sola.” Esalò rumorosamente. “Quello che è successo oggi… Erestor, guardandoti, guardandoti in quel momento io ho ricordato qualcosa. O almeno, credo che sia un ricordo. Un ricordo di Gondolin, e vorrei… Erestor, devo sapere se è follia, o se è veramente un frammento della mia memoria perduta!”

Erestor annuì. Uno scatto secco della testa. Ma non si voltò. Glorfindel continuò.

“Io… molto, molto tempo fa, in un’altra radura contornata dai salici, sulla riva di un fiume mormorante… io… io e te abbiamo fatto l’amore. Era notte, e c’erano le stelle, e la luna brillava sopra di noi, e la sua luce ti faceva splendere, faceva splendere la tua pelle come argento, e si rifletteva nei tuoi occhi, immensa, bellissima, mentre dicevi il mio nome… hir nîn… e pen-valthennen…” Il polso che stringeva tra le mani tremò. Glorfindel allentò un po’ la presa, e prese a tracciare col pollice figure incerte sulla pelle di Erestor, come per confortarlo.

“Non c’erano nuvole, e non c’era vento. La nebbia ondeggiava sulle acque, e c’era come un tepore attorno a noi. Tu… vestivi di blu. La veste lunga che ti avevo regalato io, e che… che giaceva ora in terra, mescolata ai miei abiti da caccia, abbandonati assieme sotto un albero. Era… era un giorno speciale. Non so perché. Ed in quel giorno noi… noi ci amammo per la prima volta.”

Annuì ancora, Erestor. Secco. Eppure tremava, tremava…

“Erestor… non era solo quello… non era solo la prima volta che giacevamo insieme. Eri così bello, Erestor, e così giovane… così giovane… tu… tu non l’avevi mai fatto, prima. E’ così? Io… io sono stato il tuo primo ellon***? Il primo melethron****?

Erestor si girò, ed era bello, oh così bello, nell’improvviso raggio di luna che l’avvolse. Era pallido, ed i suoi occhi bruciavano, per la prima volta, di una luce soffice, e non sovrannaturale.

“Tu… sei stato il mio unico,” disse, e divincolandosi corse via, sparito alla vista prima che Glorfindel potesse parlare, potesse respirare, anche solo battere ciglio.

Le porte si chiusero dietro di lui.

Boom.

Le serrature scattarono.

Clank.*****

 

Glorfindel si accasciò a terra.

Valar, Valar, quanto male aveva fatto a quella creatura? Quanto male gli avevano costretto a fargli? L’aveva dimenticato, l’aveva trattato da estraneo, mentre, nei millenni, Erestor l’aveva aspettato, lui, proprio lui, solo lui, ed era rimasto fedele alla sua memoria, millenni di solitudine, millenni di dolore, millenni a pensarlo, a piangerlo, e quando si erano rivisti non era stato affatto come una favola, non c’era stato nessun bacio, nessun’abbraccio, nessuna parola d’amore, c’era stato solo un Elfo biondo che ne canzonava un altro, pallido e oscuro, per i suoi silenzi, il suo distacco, il suo orrido cuore di ghiaccio, un cuore insensibile, che mai nessuno avrebbe avuto, né voluto…

ERESTOR!” Gridò Glorfindel. E chi lo sentì tremò di sgomento, e si commosse per il dolore che echeggiava, tremulo, in quell’urlo disperato.

 

 

 

 

 

 

Come avevo detto: un capitolo esagerato :P Proprio non le conosco le mezze misure, io… ;)

-TBC (?)

 

 

 

 

 

*tutte le traduzioni dall’Elfico qui citate non sono letterali, ma abbastanza approssimative: questo per renderle più “poetiche”.

** o Gondolin = espressione elfica per dire “di Gondolin”

*** ellon = Elfo maschio. Quindi Glorfindel gli ha chiesto l’equivalente di: “Sono stato il tuo primo uomo?”

**** Melethron = amante (maschio)

***** Pezzo ispirato paurosamente all’ultimo capitolo de “Le Due Torri”.