.|. Asrun Dream .|.

Note dell’ autore: *risata malvagia* quanto accade in questo capitolo, ne sono sicura, NESSUNO se l’aspettava… ehehehe…adoro sorprendere i lettori… ;)

Capitolo 11

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Estel e Legolas continuarono a lasciarsi trasportare dalla corrente, ignari di tutto, quasi fino a valle, rincorrendosi fra gli spruzzi solo per lasciarsi catturare, stringersi, toccarsi, e poi correre via di nuovo, ridendo, per lasciarsi raggiungere ancora.

Era strano, eppure l’acqua gelida non aveva fatto nulla per spegnere le fiamme di quel loro improvviso desiderio. Anzi. Pareva quasi che esse si cibassero non solo di ogni minima carezza, ogni respiro condiviso, ogni bacio; ma che persino lo stare lontani le facesse esplodere, turbinando, annegando i loro pensieri finché uno solo restò, sfaccettato come un diamante di luce.

Amore.

Amarsi.

Legolas.

Estel.

Desiderio.

Voglia.

Piacere.

Piacere.

Piacere…

 

Eppure, in quel silenzio perfetto della mente Estel sentiva una vocina remota strillargli con tutta l’esile forza che aveva di fermarsi, non farlo, non farlo! non rovinare tutto, non voglio, no, non togliermi la cosa più bella della mia vita, non togliermi la mia felicità solo per un attimo di piacere, no, ti prego, ti prego…

E lui non poteva saperlo –Aragorn non poteva saperlo- ma chiunque a Granburrone avesse udito quell’urlo soffocato avrebbe riconosciuto la voce del piccolo Estel, il piccolissimo Estel, un fagottino di quattro o cinque estati appena, solo, senza più nessuno, senza padre, senza i suoi simili, senza amici, abbandonato ed in lacrime, lì, sulle porte di Granburrone, lì, dove faceva freddo e la neve cadeva, lì, da solo.

 

Estel e Legolas raggiunsero senza fiato la riva, una lingua di terra candida stretta tra file di alberi svettanti. Legolas uscì per primo, ridendo, e le acque si aprirono attorno a lui, ricadendo in spruzzi come frammenti di vetro colorato. Estel lo seguì, meno aggraziato, facendo scrosciare l’acqua come un grosso animale in caccia, e quando Legolas si girò verso di lui allora Estel lo prese fra le braccia, lo strinse, lo fece girare, con la delicatezza di chi prende una farfalla con la mano, e subito la sua bocca ritrovò il collo di Legolas, il dolce tepore della sua pelle, e la punta della sua lingua catturò l’acqua che vi scendeva a rivoli e gocce, dalla base fino al lobo dell’orecchio, la linea del mento, e poi di nuovo giù, nell’incavo morbido dove martellava il battito impazzito del suo cuore.

Con una grazia ed una forza impossibili per un mortale Legolas si lasciò cadere dolcemente sull’erba, e trasse Estel con sé, come se fossero una cosa sola. Rise. Ad Estel parve il suono più bello della Terra di Mezzo. Legolas si abbandonò all’indietro, sull’erba, umida lei, umido lui, lei fredda, lui caldo, in fiamme. Eppure, eppure, qualcosa saltò dentro di lui, si ruppe, qualcosa di antico, come una ferita mai rigenerata, e che ogni tanto stillava ancora sangue, stillava ancora veleno.

Questo corpo innaturale, innaturale per gli Elfi, che risveglia gli istinti più bassi ed orrendi, oh, anche tu, anche tu vedi solo questo? Anche tu, Aragorn?

Fissava, Legolas, il cielo, piccolo, piccolissimo sopra di loro, il cielo, uno specchio limpido, azzurro, un lago assurdamente sospeso a testa in giù, inghirlandato di verdi fronde mormoranti. Rimase così, immobile, a fissarlo, per un tempo che gli parve lunghissimo. Eppure la sua mano si muoveva ancora, lenta, sinuosa, sulla schiena nuda del giovane.

“Non dovremmo…” sospirò. Sentì Estel sorridere contro la sua pelle.

“No, non dovremmo,” convenne. Gli diede un’altro bacio, proprio lì, sulla base del collo. I fianchi del giovane si muovevano impazziti, ondulando avanti ed indietro come i rintocchi di un pendolo. Presto, ma mai abbastanza per la sua mente infiammata, sentì Legolas rispondere, tentativamente, e muoversi in concerto con lui, incontrarlo, carezzarlo col suo calore, languido, fervido, intenso.

“Oooh…Estel… noi non… non… ” agitò la testa da parte a parte.

“Non m’importa. Non m’importa più di nient’altro che questo: aníron*lle, Legolas. Solo tu. Solo tu…

La sua mano iniziò una lenta e tortuosa discesa giù per i piani scolpiti dell’addome di Legolas, verso quell’ultima, fragile barriera, quel pezzo di stoffa stretto alla sua vita. Lo sfiorò, e quando lo fece, l’ultima barriera, quella vera, quella chiusa nella mente di Legolas, si frantumò in mille pezzi.

“Estel… oh, si…” mugolò l’Elfo. Alzò le gambe ed allacciò le caviglie dietro la schiena del giovane, e puntellandosi sulle spalle si strofinò con più ardore contro di lui, indomito, insistente animale selvaggio. Aveva alzato la schiena da terra, ed Estel poté intrufolare una mano sotto l’orlo dei pantaloni, afferrarlo e, lentamente, tirarlo giù, mentre l’altra mano trovava i capelli di Legolas e vi si perdeva.

“Aragorn…” Sembrava la nota dolce e vibrante di uno strumento a corde d’argento. Le labbra di Legolas sfioravano quasi quelle del giovane. Il suo respiro era caldo. Inebriante. I pantaloni venivano tirati giù, sempre più giù. Rugiada e vento sulla pelle nuda. Nuda.

“Aragorn,” ripeteva. “Aragorn, Aragorn, AragornAragornAragornAragorn... ”

“ARAGORN FIGLIO DI ARATHORN!” Estel si sentì afferrare per la collottola, e alzare di prepotenza da Legolas. Fu scaraventato all’indietro con forza paurosa, e atterrò dolorosamente sulle spalle, qualche metro più in là. La forza dello strattone era stata tale che Estel ruzzolò ancora più giù sulla discesa, e andò a cozzare con la spalla contro un albero. La sferzata di dolore fu tale e talmente accecante da snebbiargli la testa.

“Cosa *diamine* credi di stare facendo, *tu* con *Legolas*?” La voce, solitamente così dolce e roca, era alzata ad un tono stridulo, e l’ultima parola raggiunse un’ottava ignota alle voci umane – qualcosa di più simile all’urlo di un Nazgûl.

Estel alzò la testa, scuotendola come se si aspettasse di sentire all’interno il rumore di qualcosa di rotto che si muove, e si passò una mano sugli occhi, improvvisamente troppo sensibili alla luce. Mugolò.

“Ciao, Arwen.”

La gemma luminosa che Estel portava al collo iniziò a lampeggiare, veloce, e poi sempre più lenta. Infine si spense quietamente. Estel gemette ancora: il gioiello infiammato aveva lasciato sul suo petto una bruciatura terribile, rossa come sangue. Prima non se n’era accorto, tant’era preso da Legolas e dalla sua passione, ma ora la sentiva pulsare di dolore, come un’entità estranea a sé che lo tormentasse con la sua bocca avida, un parassita che viveva succhiandogli energia.

Aprì gli occhi, giusto una fessura, e vide Arwen in tutta la sua furia splendente. Era rossa in viso, gli occhi erano lucidi, la punta del naso arricciata, e pareva talmente arrabbiata che Estel s’immaginò per un attimo di vedere del fumo alzarsi dalle sue belle orecchie a punta –ma no: si muovevano solo, tremule come quelle di un lupo infuriato. Sembrava attendesse qualcosa, lì immobile con le mani sui fianchi.

“Ciao Arwen? Ciao Arwen?! E’ questo tutto ciò che hai da dire?!” ruggì la Dama. Ad Estel sfuggì un’altro, patetico lamento. Le sue orecchie si erano fatte improvvisamente sensibilissime, e la testa gli pulsava, come se si fosse svegliato in quel momento dopo una sbronza tremenda.

“Non così forte…

“Non così FORTE?! Tu… tu… tu… TU!” Arwen gonfiò le guance, come fanno certi animali per sembrare pericolosi, si tese verso di lui, coprendolo con la sua ombra, stranamente lunga e fredda per quell’ora del giorno, e strinse i pugni. Più che altro sembrava una bambina a cui hanno rubato il suo giocattolo preferito.

“Ed io che sono venuta fin qui da Lothlórien solo per te, più in fretta che ho potuto, contro il volere della Dama del Bosco d’Oro, di mio Nonno, di mio Padre, ed ho dovuto fuggire da intere bande di Orchetti, e combatterne alcuni per giunta! senza un attimo di tregua, senza un attimo di respiro, e tutto per essere qui in tempo, essere qui entro il plenilunio!” Estel digrignò i denti, ma era più che altro una reazione al dolore che gli echeggiava nella testa. Arwen incrociò le braccia.

“Ma mi pare di capire che non hai più bisogno di me. Benissimo.” Si voltò e si allontanò pestando i piedi.

“Il rito è stato rovinato, e le promesse infrante, vero? Hai fatto l’amore con lui, ed ora non ci sarà alcun matrimonio, mai più, perché i Valar non regalano una seconda occasione a chi fallisce. Me ne vado, Aragorn. Me ne vado. E ricordati che se il sogno è stato distrutto, la colpa è solo tua.” Si fermò di scatto. Pareva avesse visto qualcosa: qualcosa che la sgomentava.

“NO!” Estel balzò in piedi, perse l’equilibrio, barcollò, roteando le braccia, poi si riprese, avanzò di un passo, un po’ incerto sulle gambe, e s’avvicinò a lei, che lo guardava, ora, da sopra la spalla, con una gelida furia nello sguardo.

“Arwen, ti prego! Non fare così! Non è successo niente, non abbiamo… io e Legolas non abbiamo---” gli mancò la voce. Rimase a guardarla da sotto le ciglia, un po’ come un bimbo sperduto. “Non te ne  andare. Il Plenilunio è così vicino…”

Arwen stillava ancora di un bianco furore, simile, troppo simile, a quello che spesso animava Erestor, eppure così strano per lei, così strano. Era in piedi accanto al corpo steso Legolas, immobile come una giovane betulla, candida e solenne nella luce del giorno.

“Dovrai darmi molte spiegazioni, Aragorn,” sibilò, e quel nome parve una maledizione sulle sue labbra. “Prima tra tutte, cosa hai fatto a Legolas!” gridò ancora, ma stavolta pareva spaventata, la sua voce s’incrinò e si spezzò, e lei si gettò al fianco dell’Elfo d’oro, gli liberò la fronte madida dai capelli arruffati, e prendendogli delicatamente la testa tra le mani se la posò in grembo. Continuò a carezzargli teneramente il viso in fiamme, gli occhi chiusi, le labbra ansimanti mentre lo chiamava:

“Legolas. Legolas, rispondimi. Legolas, ti prego, otornassë… **

Legolas mugolò. Respirava appena, in piccoli, veloci rantoli sibilanti. Il suo viso era rosso, innaturalmente caldo, e quando, infine, lentamente, con uno sforzo immane, Legolas lasciò scivolare insù le palpebre, Arwen singhiozzò nel vedere gli occhi lucidi, febbricitanti, colmi di ombra.

“Arwen,” mormorò Legolas in un soffio. “Osellë…***” La sua voce era appena udibile, e graffiante anche, come se la sua gola si fosse stretta attorno alle parole, soffocandole. Sorrise, vedendola. Sorrise beatificamene, come chi ha avuto una visione dal cielo.

“Si. Sono qui.”

“Arwen,” ripeté. “Fa caldo. Arwen. Brucio. Non respiro. Non riesco.”

“Si, invece. Fallo assieme a me. Così. Aprì la bocca, lascia entrare l’aria… piano! piano, otornassë. Con me. Ora lasciala uscire. Si, bravo. Bravo.” Respirarono assieme, per un po’, sotto lo sguardo allibito di Estel, respirarono in concerto, ed Estel pensò, chissà, che forse anche i loro cuori battevano insieme, i cuori di quelle due creature, così diverse, opposte, unite solo dall’immensità della loro bellezza.

“Vieni,” disse Arwen. “Vieni…” Fece alzare Legolas, delicatamente, come se lui fosse una statuina di vetro soffiato, e lo sostenne, alzandosi con lui. Prese il suo braccio senza vita e se l’appoggiò con cura sulle spalle. Il braccio di lei girò attorno alla sua vita. Se lo strinse contro il fianco.

“Devi riposare, otornassë. Stai male. Vieni.”

“Aragorn…”

“Aragorn non verrà,” rispose Arwen. “Devi stare solo. Devi dormire. Non pensare ad altro. Passerà presto, vedrai. Passerà.”

Quando passarono accanto a lui, Estel provò a parlare: aprì la bocca, ma Arwen lo spintonò, come se non lo vedesse, come se lui non esistesse, e continuò dritta per la sua strada. Al limitare degli alberi Legolas si voltò, un attimo, un attimo solo, a guardare Estel. Mormorò qualcosa, il suo nome forse, e poi si lasciò portare via.

Quando sparirono tra le fronde, ed anche il suono attutito delle loro voci si era perso nell’aria immobile, Estel sentì nuovamente, quasi l’avesse scordato, il dolore alle tempie, la vertigine, e la spalla che pulsava. Si era slogata, forse. Chissà.

Stava ponderando se seguirli o no, quando una mano l’afferrò per le spalle. Costretto a girarsi, Estel sobbalzò, trovandosi a fissare il volto cupo di Gandalf. Le folte sopracciglia dello stregone erano aggrottate; gli occhi, stretti e duri. Lo stava fissando intensamente, come chi cerca parole nascoste, scritte con inchiostro invisibile, nelle pagine di un libro che pensava di conoscere. Estel si sentì girare la testa, come in un incantesimo. Gli chiese in un soffio cosa ci facesse lì. Gandalf continuò a fissarlo, a fissarlo dentro, nella testa, nel cuore, e mormorò a mezza voce:

“Sono arrivato assieme a Damigella Arwen dal Lórien, giusto qualche minuto fa.”

Era arrivato, gli disse senza parlare, perché era stato chiamato.

Estel distolse lo sguardo: sapeva chi l’aveva chiamato. L’aveva chiamato lui. Sarebbe stato proprio Gandalf

(o è meglio dire “sarebbe dovuto essere”, dopo quello che era successo?)

a celebrare le nozze.

“Aragorn, cos’è successo?”

Il giovane fuggì il suo sguardo. Scrollò le spalle.

“Non so. Era come se… come se non fossi padrone di me. Non so cosa fosse.”

“Non fraintendere volutamente le mie parole, Erede di Isildur!” gridò lo Stregone. Estel ebbe uno spasmo. Sentirsi ricordare, proprio in quel momento, la sua parentela con quell’Uomo, quell’Uomo che era stato così debole, fu come ricevere una stilettata al cuore – o all’orgoglio.

“Aragorn,” chiese ancora lo stregone. “Che hai fatto? Il matrimonio è ancora possibile, oppure la tua speranza è persa irrimediabilmente? Fin dove sei arrivato? Dimmi! Se non per altro, almeno per alleviare il tuo tormento: io posso dirti se il rito è stato rovinato, o se sei ancora degno.”

“Io non…!” guaì il giovane. Nascose il viso nel palmo, e respirò a fondo. “Non l’ho… preso, se è questo che volevi sapere.”

“L’hai baciato?”

Estel scosse la testa.

“Non sulla bocca.”

“E l’hai toccato?”

“Ho… carezzato i suoi capelli, si, la sua pelle, le sue labbra. Ma non l’ho… non l’ho toccato… non lì, maledizione! Non l’ho spogliato, non l’ho toccato, l’ho solo stretto, l’ho stretto a me, ed ho coperto il suo corpo di baci, e così i suoi capelli, ed ho sentito il suo calore, e volevo unirlo al mio, ed il suo desiderio, ma non l’ho--! Non l’ho--!!”

“Basta così, Aragorn,” disse lo Stregone con voce improvvisamente soffice. Estel sentì una presenza allontanarsi dalla sua mente, come se le lunghe dita d’ombra si ritirassero dopo aver sondato i suoi ricordi. Si rese conto di aver urlato.

“Basta così.”

Estel annuì mestamente. Gandalf trasse un sospiro.

“Sei un Uomo passionale, Aragorn. Ma anche molto, molto fortunato. Si, hai capito bene: il rito non è stato compromesso – per poco, ma non è successo. Sarebbe bastato che tu baciassi le sue labbra, o che le tua dita fossero scese quel poco più giù, quanto bastava a sentire il suo desiderio con la pelle, ed avresti fallito la tua prova.”

“Sono… sono perdonato? Posso… possiamo… voglio dire… la notte del plenilunio…?” Scosse la testa, intontito. “Ma come può essere? Dopo quanto stavo per fare? Non sono riuscito a dominarmi, il desiderio in me era più forte di ogni buon senso! Sono un vile, un debole, un--”

“--un Uomo a cui è stato somministrato un potente afrodisiaco.” Estel ammutolì. Chiuse la bocca con uno scatto.

“E Legolas ne ha in corpo una quantità persino maggiore: non hai visto come lo affliggeva? Gli hanno somministrato così tanta di quella pozione che il suo corpo vi ha reagito come un veleno. Ma non angustiarti: la tua testa si snebbierà entro stasera, e per domattina anche Legolas starà bene. La sua sorellina gli farà da guardia e guaritrice, e non permetterà che gli accada alcunché,” rise bonariamente, come per far calare la tensione.

“Non lo ha mai permesso, no, nemmeno quando lei era alta la metà di lui e l’unica parola che sapeva pronunciare era una strana, singhiozzante versione del nome del Principe. No: Damigella Arwen giocava a fargli da mamma allora e continuerà sempre, temo.”

Gandalf tolse la mano dalla spalla di Estel, sorridendo, e sebbene la sentì guarita, la mente del giovane era troppo presa dalle sue parole, per prestare attenzione alla magia.

“Cosa dici Gandalf? Chi mai potrebbe…?”

“Non lo so, ragazzo. Non lo so. Ma il suo pensiero è chiaro, e carico di magia. Lo avverto nell’Aria. Lo sento nella Terra. Qualcuno qui ha intenzione di impedire il tuo matrimonio.”

 

* * * *

Erestor guardò i due giovani allontanarsi ridendo lungo la corrente del fiume, giocando, come bambini, mezzi vestiti e mezzi nudi, lasciandosi e poi ritrovandosi più avanti per soffiarsi segreti su una guancia in fiamme, per posare baci rubati su una spalla abbronzata, o un collo leggiadro e bianco.

Erestor si portò il bicchiere alla bocca, e, stranamente, stavolta bevve, tutto d’un fiato, e quello che gli scese giù per la gola era liquore, e non limpida acqua.

Afrodisiaco, Glorfindel?” chiese, con una punta acida nella voce. Glorfindel fece spallucce.

“Era un piano come un’altro. D’altronde, non siamo riusciti a fare molto, ed ormai il Plenilunio è così vicino.”

Tu non avrai fatto molto! Lo sai quanto mi è costato inviare quelle visioni alla mente di Estel? Lo sai? Oh, no, tu te ne stato buono buono in un angolo ad aspettare, ed ora hai tirato fuori il tuo “asso nella manica”, uno dei tuoi soliti “piani” sconclusionati!” Ansimò.

“Ma che razza di idea è la tua, Glorfindel? Estel e Legolas sono destinati, destinati, il loro amore, la loro unione, sarà ciò che salverà la Terra di Mezzo dalla Tenebra, e tu vuoi che nasca così, per errore, per colpa di una pozione, vuoi che il loro futuro, la loro storia, si basi su questo, Glorfindel, solo su questo, la voglia, il desiderio, la libidine?”

Glorfindel gettò via rabbiosamente il bicchiere che stringeva. Non erano stati così folli da portare con loro dei pesanti boccali di metallo, né avevano scelto dei fragili calici di vetro. Ma la sua forza era tale che il bicchiere di legno si scheggiò, sbattendo contro un masso. Frammenti impazziti prillarono via, lontani, e quando ricadde a terra, una lunga crepa rigava il bicchiere dal bordo fino alla base.

“Non mi pare che tu abbia fatto niente per fermarmi!” Glorfindel si stupiva di quella furia immotivata, ma quella radura… quelle acque… gli ricordavano qualcosa, avevano preso possesso del suo cuore, e non lo lasciavano pensare.

“Perciò non venirti a lamentare, ora,” aggiunse in tono più sedato. Erestor si chiuse in sé stesso, le ginocchia alzate, le belle mani strette come artigli sulle braccia.

“No, non posso.” Sospirò. “Mi dispiace di essermela presa. Non condivido il tuo piano d’azione, no, ma hai ragione almeno su una cosa: il Plenilunio si avvicina. E far si che Estel e Legolas… far si che si conoscano intimamente potrebbe essere la soluzione a tutti i nostri problemi.”

“Pensi che il senso di colpa basterebbe a fargli disdire il matrimonio?”

“Disdire? No, probabilmente il senso di colpa, la confusione, servirebbero solo a rimandare la cerimonia. Di qualche anno, magari, ma non sarebbe comunque una sicurezza, per noi. No, il fatto è che se Estel e Legolas si conosceranno carnalmente prima del Plenilunio, allora il matrimonio che Estel sogna non potrà mai più essere celebrato.”

“Mai più?”

“Estel si prepara a sposare Arwen con un rito particolare, molto antico, e che solo in pochi ricordano. Ed è per questo che sta seguendo un periodo di… astinenza. Hai notato che mangia solo frutta, non beve, e si ritira spesso a meditare in solitudine? Se ora fallisse questa prova, se cedesse alla tentazione e… prendesse Legolas, allora proverebbe ai Valar che, per lui, il richiamo della carne è più forte di quello del cuore. E questa è una prova per cui, una volta fallita, non ci sono seconde occasioni. Dovrebbe dimenticarsi di Arwen, perché i Valar li separerebbero, per sempre, vietando loro di amarsi, di unirsi, di sposarsi, e questo forse basterebbe a gettarlo tra le braccia di Legolas.”

Glorfindel aprì la bocca. Stava per emettere uno dei suoi soliti fischi d’approvazione, stava per dire una battutina sardonica. Ed invece, sentì, con sua somma sorpresa, la sua bocca muoversi da sola, e la lingua seguire un corso tutto suo, intessendo suoni in parole e parole in frasi, usando la sua voce per dire qualcosa che Glorfindel non aveva mai nemmeno pensato.

“Come fai a conoscere questa cerimonia, sconosciuta ai più? Forse anche tu ti sei preparato, un tempo, ti sei sottoposto al rito, per unirti a qualcuno – qualcuno che amavi?”

Erestor sussultò. La mano sinistra penetrò come un artiglio nella carne tenera del braccio. La destra si strinse, convulsa, attorno a qualcosa di cui Glorfindel non sospettava nemmeno l’esistenza, qualcosa che Erestor portava attorno al collo, celato attentamente sotto la veste.

“Non chiedermelo,” disse Erestor.

Semplicemente.

Non chiederglielo, Glorfindel.

 

Glorfindel, invece di lasciarlo stare, come avrebbe dovuto, come Erestor si aspettava, come sarebbe stato normale, si alzò e andò da lui. Si sentiva la testa leggera, come se avesse bevuto. Ma non era così. Era la radura. Lo stava possedendo, come aveva posseduto Legolas.

“Allora lascia che ti chieda questo, invece. Conoscevi Gondolin?”

Erestor s’irrigidì. Un movimento impercettibile, un istinto subito domato. Ma Glorfindel vide. Vide la bocca stringersi, gli occhi chiudersi per un attimo, il colore svanire dalle guance già così pallide.

“Certo. Ogni Elfo la conosce: la si studia sui libri.”

“No, Erestor. Non è questo che voglio sapere. Conoscevi Gondolin, quand’era ancora una città colma di vita, di voci, di allegria? Conoscevi Gondolin, al tempo in cui la conoscevo io? Eri lì, quando c’ero io?”

Erestor lo guardò, o meglio: lo pugnalò con lo sguardo, lo trapassò, come se il suo sguardo fosse una lama, che sfavillava di una fiamma d’oro.

“A che razza di gioco stai giocando, Glorfindel? Che domanda è questa?”

“Semplicemente quella che mi sta divorando l’anima. Perciò rispondimi, Erestor, rispondimi, per favore. Tu vivevi a Gondolin?”

Erestor respirava affannosamente. Sembrava, in tutta semplicità, un’animale braccato, un povero cervo stretto dai cacciatori in un cerchio di fuoco. Scosse la testa. I suoi capelli si alzarono come ala di corvo.

“Tu… tu sei pazzo. Io… me ne vado.”

Scattò in piedi, simile anche in questo ad un cervo: agile, snello, sinuoso; cercò rifugio verso i salici, verso il punto in cui Tindómerel ancora pascolava, tranquilla, ignara del tormento del suo padrone. Ma non vi arrivò mai. Glorfindel lo afferrò per un polso, lo fece girare, e lo trasse a sé. Erestor si ritrovò, con suo sommo terrore, chiuso tra le braccia del guerriero, mentre le dita attorno al suo polso si chiudevano, sempre più strette, dentro la carne, come una tagliola.

“Rispondimi! Vivevi a Gondolin?”

Erestor si dibatteva nella sua trappola, ma presto gli sfuggì un singhiozzo. Il polso gli faceva male, molto male. Credeva, assurdamente, che la stretta di Glorfindel si sarebbe chiusa ancora, e come una lama, l’avrebbe trapassato, privandolo della mano.

Glorfindel avvertì il suo dolore e allentò la presa; ma né approfittò per stringerlo di più a sé, immobilizzandogli le braccia come se l’avesse legato. Lo guardò negli occhi: erano pallidi, liquidi, come l’alba che si stempera in un lago.

“Rispondimi.”

Erestor sapeva, sapeva bene cosa doveva rispondere. Doveva ripetergli ancora che era pazzo, che lo doveva lasciare andare e che, se non lo avesse fatto, allora avrebbe urlato. Ma sentiva, dentro la testa, il mormorio costante delle acque, una voce calda, gentile, che gli ricordava il tempo in cui, ancora giovane, le fontane e i rivi del suo paese gli parlavano, come amici, e lui li capiva.

E fu così che un altro pensiero eclissò il suo; un’altra frase sgorgò dalle sue labbra.

“Rispondimi tu, piuttosto. Io vivevo a Gondolin? Ti ricordi di me, forse? No. Allora non c’ero. Io… non esistevo.”

Le sue spalle sussultavano ora, e lui tremava, ma senza suono. Piangeva. Piangeva Erestor, in modo bellissimo, senza suono, senza espressione; solo, dai suoi occhi sgorgavano gocce come da un fessura apertasi in una diga, e scendevano a rivoli giù per il suo volto. Come pioggia che riga il volto immobile e perfetto di una statua.

Lo sguardo di Glorfindel si fece più soffice; passò sul suo volto come una carezza.

“Erestor, Erestor… come vorrei dirti che ti ricordo! Che ricordo il tuo viso tra la folla, la tua voce chiamare il mio nome, magari, per lasciarlo echeggiare tra le sale di marmo, oppure che ricordo il tuo corpo muoversi come un’ombra sinuosa per le vie affollate. Ma non posso. Io non posso.

“Allora, Glorfindel, io non esistevo.”

Una seconda ondata di lacrime colpì gli occhi di Erestor e si riversò fuori.

“Non piangere, lirimaer****. Non piangere, lómelindë*****”

Erestor scosse la testa, ma piano, come se fosse un bimbo che non capisce qualcosa troppo grande per lui. Conosceva quelle parole. Gli erano state dette tanto, tanto tempo fa, a Gondolin, si, proprio a Gondolin, dove lui era nato e cresciuto e quasi morto. Provò a rispondere in modo neutrale, provò a non rispondere come aveva fatto quella notte – ma lo fece.

“Non sto piangendo.”

“No?” Glorfindel si chinò su di lui, e con la bocca catturò le sue lacrime. Quindi si scostò, e gli sorrise.

“Si invece: stai piangendo, e le tue lacrime sono scintillanti come gemme, e dolci come nettare.”

 Di nuovo. Di nuovo aveva ripetuto parole pronunciate quella notte. Quella notte…

“No,” ripeté Erestor, debolmente, come aveva fatto allora. “Non sto piangendo. Voi vi sbagliate, hir nîn******. Vi state sbagliando. Io non piango.”

“Mio Signore? Buffo che proprio tu mi chiami così. Tu che da sempre mi ami.”

“Amarvi, Signore? Come posso io amarvi? Che dite? Io non sono niente per voi. Perché amarvi, dunque, quando non c’è speranza?”

Glorfindel si strinse di più a lui. Piano, cautamente, lo fece indietreggiare, fino a ché con la schiena non toccò il tronco di un salice. Poi abbassò il viso, e lo nascose tra i capelli neri di quell’usignolo. Respirò a fondo. Vaniglia. Dolce vaniglia. Quale nostalgia…

Glorfindel non era più sé stesso, no. Lo spirito della radura l’aveva gettato, anima e corpo, dentro qualcosa di potente, qualcosa di antico, che forse era un sogno e forse era un ricordo, e che lo faceva muoversi e parlare come fosse un’altra persona, una persona diversa, si, ma affatto sconosciuta: il vecchio Glorfindel.

Glorfindel di Gondolin.

Erestor tremò. Tutto il suo corpo, tutto, premeva contro quello del guerriero, e quel fremito delizioso si trasmise da un corpo all’altro, come una febbre.

“Non ti amo, dici? E come potrei non amarti, tu che sei così bello, tu che mi ami così tanto?”

“Glorfindel…” mormorò Erestor, tentando come poteva di sottrarsi all’incantesimo dei ricordi. “Non farlo, ti prego. Non lasciarti andare a questa magia. Per favore… per favore… lascia che il passato resti morto. Non svegliarlo. Non svegliarlo…

Ma Glorfindel non l’ascoltò.

Anzi

si chinò

ancora di più

su di lui

e,

così,

come in un sogno,

dolcemente

 

Lo baciò.

 

 

 

 

 

 

-TBC (?)

 

 

 

*Aníron lle, Legolas = Ti desidero, Legolas

** Otornassë = significa fratello (fratello per scelta, e non per legame di sangue). Non ho trovato niente che suonasse meglio; se per caso conoscete un vocabolo migliore… contattatemi! Pu-lease??? =)

***Osellë… = sorella. Anche qui, se conoscete un vocabolo migliore fatemelo sapere! ^_^

**** Lirimaer = tradotto in Inglese significa “lovely one”, quindi in italiano sarebbe una cosa del tipo “adorabile”.

***** Lómelindë = Usignolo.

****** E VAI CON LA SAGA DEGLI ASTERISCHI!!! Ehm, per tornare in tema, hir nîn vuol dire “Mio Sire”, o “Mio Signore.”