.|. Asrun Dream .|.

Capitolo 10

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Il Sole filtrava pallido attraverso le finestre della Torre Argento, e Glorfindel e Legolas erano già nel poggio, quando Estel e Erestor vi giunsero con coperte e provviste.

Il Giovane mortale sussultò alla vista del Principe: indossava degli stretti pantaloni a guaina, che gli modellavano le gambe perfette come una seconda pelle. Il petto era fasciato da una morbida tunica sfavillante dalle maniche lunghe, strette fino al gomito, che poi s’allargavano dolcemente in forma di campana. La stoffa era una degli elfi: scintillava grigia sotto il sole del mattino, come le acque di un lago nebbioso. Eppure ecco che, quando Legolas si muoveva, la stoffa diventata argento, o verde come aghi di pino, o azzurra e radiosa come scaglie di pesce. Portava i capelli sciolti lungo le spalle, e trattenuti appena sopra le orecchie da due piccole e pratiche trecce da guerriero.

Era bellissimo.

E sotto quegli abiti, la sua carne nuda lo era sicuramente molto di più.

Estel deglutì a vuoto.

A che serviva torturarsi immaginando? Avrebbe conosciuto presto la realtà. Anche troppo presto.

 

Era un dolce mattino d’estate, ed i quattro indugiarono un poco nel sole, parlando quietamente. Dovevano percorrere più o meno un chilometro per giungere all’ansa nel fiume dove voleva dirigersi Glorfindel, ed il giorno era ancora giovane: decisero quindi che potevano permettersi di camminare affianco ai cavalli, almeno per il primo tratto fuori dagli alberi, pianeggiante e dolcemente erboso.

Ridendo, Glorfindel prese le redini di Asfaloth in una mano, e si apprestò alla testa della piccola Comitiva, quando Erestor senti dardeggiare da Estel un pensiero nascosto quanto furibondo:

Non voglio che Legolas si affidi a lui come aveva fatto con me, no, no, quella sensazione, quella sensazione stupenda, Legolas che mi segue affidandosi completamente a me, vedendo solo me, udendo solo me, come se esistessi solo io, solo io per lui, nella sua testa, nel suo cuore, no, non voglio che quell’attenzione passi a Glorfindel, no, no, no, *no*…

Sembrava gemere, come preda d’un immenso dolore.

Con un sorriso segreto, Erestor fece avanzare Tindómerel, e con voce limpida disse, prima che Glorfindel potesse raggiungere la sua meta:

“Estel, perché non ci guidi tu? Sono certo che conosci un posto delizioso dove potremmo fermarci. Non è così?”

Estel lo guardò, scuotendosi come se fosse stato svegliato da un sogno. I suoi occhi incontrarono quelli di Erestor. Annuì, e lentamente, come se stesse testando le parole, finora sconosciute, disse:

“Si: nella parte est della foresta, lungo il Bruinen.” Fece un gesto vago con la mano verso il sole. “Lì si apre una piccola radura circondata dai salici: è impenetrabile per chi non conosce la strada, tranquilla, e molto bella. Credo sia… magica. O perlomeno, ricolma di qualcosa, qualcosa di elfico, che i mortali chiamerebbero magia.

Legolas ebbe un fremito, e socchiudendo gli occhi disse con voce cantilenante:

“E’ un luogo antico. Molto antico. Ed il suo cuore pulsa di energia verde, sereno e potente. Mi chiama: mi ha chiamato dal primo momento in cui ho messo piede nella Valle.” Chiuse gli occhi. Quando li riaprì erano lucidi e colmi di emozione, come se un velo di nubi si fosse alzato rivelando alla vista un infinito mare blu.

“Oh, Estel! Mi ci porteresti?” La sua voce era trepidante: un sussurro tremulo, come il rumore delle foglie rugiadose smosse dalla brezza. Estel sorrise, e d’impulso gli prese la mano e se la portò alle labbra.

Ogni cosa che vorrai vedere, te la mostrerò,” disse, e si chinò a baciare la mano calda che stringeva nella sua.

Aveva usato un tono lento e carico di significato, che rivelò con certezza cristallina ai due elfi più antichi il segreto di quelle parole: erano una promessa, una promessa che Legolas ed Estel si erano già scambiati e che rinnovavano, lì, in quell’attimo assoluto, sul tappeto d’erba verde, al centro di un improvviso raggio di luce abbacinante.

Ogni cosa che vorrai vedere, te la mostrerò.

Erestor piegò la testa per nascondere l’espressione compiaciuta. Glorfindel sorrise, un sorriso tutto orgoglio e un po’ malizioso. Si sentiva stranamente soddisfatto, sì, questa è la parola: soddisfatto, come un Padre affettuoso che concede la mano del suo piccolo all’Uomo che egli ha a lungo e tormentosamente amato, e lo vede raggiante d’amore e di felicità.

In quell’attimo, però, accadde una cosa strana: Glorfindel ebbe una fugace visione, un lampo di capelli biondi nel vento, risa di bimbo, rumore di scarpe su pavimenti di marmo, e un manto verde che fluttua come una bandiera.

Scosse la testa. Gli parve di vedere, così, impresso sulle palpebre, nella memoria, rapido come un battito di ciglia, come un respiro, un momento breve come un rintocco di campana, un bimbo biondo rifugiarsi ridendo tra le braccia di un alto elfo dai capelli color inchiostro. Poi più nulla. Davanti ai suoi occhi spalancati c’era solo Legolas, con la mano stretta in quella di Estel e gli occhi scintillanti come crepuscolo stellato.

 

I quattro montarono a cavallo, e si diressero al passo giù per il viottolo bianco: era lastricato di piccole pietre scintillanti per parecchi metri fuori dai Cancelli; poi, addentrandosi nel fitto del bosco, si trasformava in una scia esile di terra battuta, candida nella luce del sole. Fecero avanzare i cavalli nella fascia erbosa che costeggiava la strada lastricata, parlando quietamente. Una volta giunti sotto l’ombra dei primi alberi, Estel fece arrestare i cavalli. Il suo viso era contratto in una maschera di concentrazione. Smontò di sella con un balzo, e poggiò i polpastrelli sulla corteccia rugosa di un vecchio albero. Poi si abbassò su un ginocchio, prese un po’ di muschio e lo frantumò fra le dita. Si attardò un attimo ancora ad odorare il vento, quindi balzò in groppa.

“Di qua,” disse, inoltrandosi nel sottobosco non sulla viuzza candida, ma percorrendo un’altro sentiero, non segnato, ma ch’egli vedeva chiaramente nella sua testa.

“Gli alberi si muovono,” sussurrò Legolas a mò di spiegazione. Glorfindel sussultò, ma Erestor si limitò ad annuire col capo.

“Sì, si muovono,” continuò il Principe, “o almeno, questa è l’impressione che vogliono dare. Gli alberi sono fermi, ma le loro immagini, le loro ombre, danzano senza sosta attorno a noi, creando sentieri e poi celandoli, alcuni veri ed altri illusori. Sono uno di essi è quello giusto. Ed è quello che Estel sta seguendo.”

Erestor annuì ancora, e rivolse al suo discepolo un tenue sorriso, colmo di compiacimento. Glorfindel fece un fischio, come per dire che era sorpreso. Improvvisamente si sentì osservato: sentì, con una chiarezza che rese la sensazione quasi fisica, migliaia di piccoli, fosforescenti occhi verdi intenti su di lui. Il suono gli morì sulle labbra. Si schiarì la gola, e senza farsi notare si accostò ad Erestor: se era per proteggerlo o per proteggersi non lo sapeva nemmeno lui. L’elfo nero gli lanciò un’occhiata divertita, e rallentò il passo, permettendogli di accostarsi ancora di più. Glorfindel lo fece senza esitazione.

 

Avanzarono silenziosi per un lungo tratto. A volte Estel smontava da cavallo, si guardava attorno, notava cose visibili solo ai suoi occhi, ed annuendo tornava a guidare la sua piccola compagnia. Quando, verso la fine della mattinata giunsero in un luogo leggermente più luminoso, dove gli alberi si diradavano, lasciando indovinare il cielo alto sopra di loro, Estel si rilassò visibilmente ed affrettò il passo: non ebbe più bisogno di scendere a controllare la via da lì in poi.

Fu allora che, come se sentisse che Estel non aveva più bisogno di concentrazione, ma piuttosto di compagnia, Legolas elevò la sua dolce voce mormorante in un canto strano, antico quanto il mondo, che racchiudeva in sé tutti i suoni della natura - lo stormire delle foglie, il gocciolare della pioggia, il mormorio dell’erba, il cinguettare degli uccelli, lo scrosciare dei fiumi, la risacca del mare. Era un suono luminoso, che tesseva dinanzi ai loro occhi estasiati immagini fresche e riposanti, assai dolci per l’animo, e rincuoranti, in un certo senso.

Glorfindel aspirò a fondo, e sentì qualcosa sciogliersi dentro di lui, come un blocco di ghiaccio nero, e scivolare via. L’immagine assillante di Gondolin sparì dalla sua mente, ed egli respirò liberamente. Estel pareva preda di un sogno, ed avanzava dondolando la testa a quella musica: a volte provava a mormorare alcune parole tronche, ma subito taceva. Erestor rimase taciturno, ed il suo volto vuoto d’espressione; eppure pareva profondamente commosso.

Quando l’ultima, cristallina nota della canzone vibrò nell’aria, il paesaggio attorno a loro sembrò ondulare per un attimo come la superficie di un lago. I quattro giunsero dinanzi ad un muro imponente di salici; le loro fronde sinuose, lunghe fino a terra, s’agitavano come cortine verdi, velando e poi scoprendo, nel loro ondeggiare continuo, una radura illuminata dal sole.

“Eccola!” gridò Estel. “L’abbiamo trovata! La radura dei Peredhil!*” Spronò il cavallo, ma quando entrò nella cerchia di salici lo fece con lentezza reverenziale. Gli altri lo imitarono, muti dallo stupore: uno strano sentimento s’infiltrò dentro di loro quando misero piede nella radura. Era come se fossero entrati in un regno al di fuori dal tempo, distaccato da Imladris, e diverso persino da Lothlórien, dove il tempo ero fermo nello splendore del passato. Un luogo sacro, che in pochi avevano avuto il privilegio di vedere.

Era verde e colmo di luce. Dall’altro lato della radura, giusto di fronte a loro, zampillava una fonte argentea; scivolava giù nell’erba in pigri rivoli scintillanti, che si riunivano in una larga vasca di pietra di forma rettangolare, col bordo scolpito magnificamente in immagini di alti elfi e immensi boschi. Un fiume sgusciava fuori dalla vasca verso Sud e serpeggiava aldifuori del muro di salici: senza dubbio un’affluente del Bruinen. L’aria era fresca e pura, ed un leggero velo di nebbia aleggiava sulle acque, persino in quell’ora calda e luminosa. Formava una cortina ondeggiante e spruzzata di mille scintille come frammenti di fiamme colorate.

Ci fu un’ondeggiare nella cortina di salici, come se essa fosse solo un miraggio. Legolas ebbe un brivido. Abbassò le palpebre fino a velare per metà gli occhi, e con lo sguardo languido e distante disse, rivolto verso Erestor:

“Non disperarti, Figlio delle Acque. Questo posto non è fatto per il dubbio ed il dolore, ma per il riposo e la guarigione. E tu,” aggiunse, voltandosi verso Glorfindel. “Tu, Fiore Dorato, smetti di essere cieco. Smetti di essere sordo. Apri il tuo cuore alla radura, ed essa ti aprirà il suo.”

Infine Legolas si voltò verso Estel, e parve dirgli qualcosa in un linguaggio silenzioso, della mente. I suoi occhi sembravano catturare tutta la luce, pozze infinite di un blu liquido e luminoso. Estel abbassò il capo in segno di deferenza, la mano sul cuore. Legolas sbatté le palpebre, e sembrò svegliarsi da un sogno.

“E’ davvero un luogo antico e potente,” mormorò, come parlando a sé stesso. “Ha parlato attraverso di me, non è così? Non ricordo le parole che ho pronunciato, ma sento che erano colme di speranza.”

“Per me lo erano,” mormorò Estel. “Colme di speranza, e di dolcezza…” distolse lo sguardo sul fiume cristallino, e non disse altro.

Infine Erestor fece avvicinare lentamente Tindómerel ad uno degli alberi. Scese con la grazia di una piuma nel vento, e la lasciò pascolare. In silenzio, gli altri seguirono il suo esempio, e si sedettero con lui nell’ombra luminosa.

Le coperte furono stese, i cestini aperti, i piatti sistemati e le vivande servite. Tutto nel più perfetto silenzio. Mentre Estel e Legolas frugavano le borse in cerca di frutta, Glorfindel si preoccupò di stappare le fiaschette con le bibite. Senza farsi notare versò - in quella che conteneva la bevanda preferita di Legolas - il contenuto di una boccettina azzurra: un liquido cristallino e dolcemente profumato, che a contatto con il nettare sbocciò in una nuvola rosea, sfrigolò, e lentamente svanì nel nulla. Alzò gli occhi e vide Erestor che lo fissava con un sopracciglio alzato. Glorfindel si poggiò un dito sulle labbra, come a chiedergli silenzio. Erestor si voltò, come se non lo conoscesse, e riprese a fissare le acque. C’era una luce strana nel suo sguardo: come se stesse ricordando cose a lungo sepolte, ma mai veramente dimenticate. E riviverle era al tempo stesso dolce e struggente.

In quel momento, Legolas si portò le mani alla bocca, emettendo una sorta di gridolino. Senza aggiungere una parola corse verso il suo cavallo, si gettò avidamente sul bagaglio e ne estrasse una piccola cesta. Le sorrise compiaciuto, e quindi torno a grandi passi verso i Compagni (che lo guardavano tutti un po’ stralunati). Legolas si passò la lingua sulle labbra imbarazzate, ed abbassò leggermente la testa. Si adagiò nel suo cantuccio assolato accanto ad Estel, e gli porse il cestino, sorridendo come uno scolaretto.

“Cos’è?” disse Estel. Prese in mano il cestino e l’avvicinò al viso: emanava un buonissimo profumo di miele e nocciole. Legolas scrollò le spalle, ma era evidente che fosse imbarazzato.

“Oh, solo… solo dei dolci.”

“Dolci?” fece Estel, mentre apriva il coperchio del cestino per rivelare dei pasticcini dorati e soavemente profumati. Annusò a fondo, e poi scoccò a Legolas un’altra occhiata dubbiosa.

“Non ce n’erano questa mattina, in cucina. E poi,” ammise, guardando di nuovo i dolci, “non li conosco. Credo che nessuno li abbia mai cucinati qui a Granburrone. Dove li hai presi?”

“Li ha fatti lui,” disse Erestor, come fosse la cosa più ovvia della Terra di Mezzo. A quel punto Legolas si stava torturando l’orlo della tunica con le dita.

“Non è molto…” sussurrò, guardando Estel in volto da sotto le lunge ciglia arcuate. “Li ho fatti per te, per… ringraziarti… di… di essere sempre con me, di non… di non lasciarmi mai solo in quella stanza.” Sorrise, ed il suo era un sorriso colmo affetto. “Ma forse non bastano per soddisfare l’appetito di un’Uomo?” Scosse la testa, e per un attimo parve adorabilmente confuso.

“Oh, non preoccuparti,” rispose Estel, forse anche un po’ troppo caldamente, “sono sicuro che sai come soddisfare perfettamente gli appetiti di un Uomo…”

Glorfindel si strangolò col succo che stava bevendo. Erestor lo guardò con gli occhi sgranati, mentre Legolas si faceva rosso come una fragola selvatica. Estel sbatté le palpebre, una volta, due, non del tutto sicuro del perché si ritrovasse improvvisamente al centro di tutta l’attenzione. Poi fu come se una luce s’accendesse nella sua testa. Anche lui si fece di tre toni più rosso. Balbettava.

“Io, no, non volevo dire… ciò che intendevo era i miei appetiti--NO! cioè, il mio appetito, si appetito, avete presente? Cibo… intendevo appetito di cibo! Si, e i dolci… i dolci… sono sicuro che andranno più che bene.” E per dimostrare il suo punto se ne spinse in bocca uno intero (e quasi si strozzò).

Legolas pareva insicuro se essere imbarazzato, divertito, o… profondamente compiaciuto. Optò per una distrazione: afferrò il suo bicchiere (che, stranamente, era colmo della sua bevanda preferita) e prese a sorseggiare lentamente, nascondendosi effettivamente il volto dietro la mano.

Questo riportò le cose ad una parvenza di normalità, e tutti presero a mangiare lentamente. Cosa strana, ogni qualvolta Legolas svuotava il bicchiere, Glorfindel era lì a riempirlo di nuovo ed a spronarlo a vuotarlo tutto d’un fiato. Erestor lo fulminò parecchie volte da sopra l’orlo del suo bicchiere (che si era riempito categoricamente da solo), ma Glorfindel non ci fece nemmeno caso. Legolas, che non sapeva resistere alla tentazione (quella bevanda era, d’altronde, la sua preferita, fatta con frutta che non si poteva trovare nella sua terra natia, nemmeno in Primavera), e ben presto aveva vuotato l’intera fiaschetta.

Glorfindel provò la stessa tattica su Estel, ma dopo avergli fatto bere tre bicchieri della sua pozion-ehm, di “succo”, non riuscì a fare altro. Si ritenne soddisfatto, e appoggiandosi con la schiena contro un albero, tornò candidamente al suo piatto, sorridendo da un orecchio all’altro.

Fu allora che notò che Erestor non aveva mangiato, no, non si era nemmeno mosso, ed il suo bicchiere colmo di limpida acqua non era stato mai svuotato veramente. Solo, continuava a fissare il fiume, come cieco. Con un sospiro Glorfindel raccolse un po’ del cibo che aveva nel piatto, e portò silenziosamente il cucchiaio alle labbra di Erestor. Estel e Legolas lo fissarono in muto rapimento.

Erestor scattò, come la corda tesa di un arco, e guardò il cucchiaio che gli aveva sfiorato la bocca come se contenesse veleno.

“Avanti, Erestor,” tubò Glorfindel, nemmeno parlasse ad un bimbo piccolo. “Apri la boccuccia.” Erestor lo guardò torvo e serrò ostinato le labbra. Guardò Glorfindel come a sfidarlo di provarci ancora.

Glorfindel, come sappiamo, è un guerriero, e come tale accetta sempre ogni sfida. Si avvicinò quindi ad Erestor, sedendosi sul suo grembo con le ginocchia strette attorno alle sue cosce. Erestor fumava. Letteralmente, fumava d’indignazione. Non aprì bocca.

“Non fare il difficile,” ammonì Glorfindel. “Devi mangiare. Non è quello che ripeti sempre a Legolas? Devi mangiare, mangiare serve alla sopravvivenza del corpo. E poi veniva una parte su come i libri siano il cibo della mente, ma quella non l’ho mai veramente ascoltata. Da bravo, su.”

Premette il cucchiaio leggermente sulla sua bocca, e iniziò a mormorare in un modo che sperava essere invitante.

“Fa il bravo,” ripeteva. “Su! Apri la boccuccia e manda giù questa bella cucchiaiata!” Erestor aprì la bocca per replicare, ed evitò per un soffio che Glorfindel vi infilasse a forza il cucchiaio.

“Smettila di tentare di infilare quella cosa nella mia bocca!”

“Non ho mai tentato di infilare quella cosa nella tua bocca, Erestor caro. Questo è solo un cucchiaio. E molto, molto più picc--”

Glorfindel quasi perse l’equilibrio quando Erestor afferrò violentemente il cucchiaio. Non riuscì comunque a spingerlo via: per strano che possa sembrare, i due, lo scriba ed il soldato, il Consigliere ed il Guerriero, avevano una forza equivalente.

“Smettila di fare lo sciocco!”

“Ma se ti piaccio di più quando lo faccio!”

“Tu non mi piaci! Non mi piaci affatto!”

“Aww, così mi ferisci. Perché non mangi un po’, così, per dimostrarmi che sei pentito delle cose cattive che mi hai detto?”

“Tu… tu sei la persona più irritante che conosca!

“Lo sapevo che in fondo in fondo mi volevi bene!”

“Scendi immediatamente e sparisci!”

“Scendere da dove?” Glorfindel ondeggiò suggestivamente i fianchi. Erestor emise un ringhio furioso, che persino un lupo famelico gli avrebbe invidiato.

“GLORFINDEL!”

Legolas non riuscì a trattenersi un minuto di più. Scoppiò in una risata, ed il suono si diffuse tintinnate per la radura, rimbalzando su acqua e tronchi in mille echi complessi.

“Glorfindel! Ma non hai un minimo di pudore!” ansimò tra una risata e l’altra. Glorfindel scrollò le spalle.

“No.”

Legolas ridacchiò ancora, poi, sforzandosi di mostrare un po’ di autocontrollo si morse il labbro. Scosse la testa.

“Il fatto,” disse in tono cospiratorio, “è che non hai tecnica. E’ tutto sbagliato! Guarda, ti faccio vedere io.” Prese da una scodella lì accanto una ciliegia, tonda come una biglia, rossa e perfettamente matura. La teneva fra due dita. Se la portò vicina alla bocca, quasi toccandola con le labbra. Poi, lentamente, si girò.

Avanzò a quattro zampe verso Estel, e lentamente passò il piccolo frutto rosso sulle labbra del Giovane, lasciandosi dietro una piccola scia umida e luccicante. Lo fece ancora. E ancora. Estel si sentì attraversare da un fremito.

“Su, Estel,” sussurrò Legolas, e la sua voce era come velluto, calda, morbida, avvolgente. “Apri la bocca.”

Estel non se lo fece ripetere due volte. Sotto lo sguardo allibito di Erestor e Glorfindel, Estel schiuse le labbra, e vi accolse il piccolo frutto. Sfiorò con la lingua la punta delle dita di Legolas, per poi attirarle lentamente nel cerchio delle sue labbra. Legolas respirava in piccoli, veloci rantoli eccitati. Il suo corpo era caldo. Gli occhi scuri come mare in una notte d’Inverno. Dopo un attimo lungo come un sogno, Estel lo lasciò andare.

“Ora tu,” propose, e la sua voce era altrettanto calda, altrettanto eccitante, altrettanto eccitata. Fece ondeggiare dinanzi al volto arrossato un’altra ciliegia. Legolas chiuse gli occhi e si spinse verso di lui, le testa tirata all’indietro, il viso perfetto offerto al suo sguardo affamato, le labbra aperte e leggermente umide, il petto ansante. Estel si piegò su di lui, come un falco che cala sulla preda. Gli poggiò una mano dietro la nuca, intrecciando le dita nella cascata di capelli d’oro, e per un attimo sembrò respirare dalla bocca dell’Elfo, un respiro per un respiro, un battito del cuore per un battito del cuore, una vita per una vita.

Poi, lentamente, fece scivolare la ciliegia nella bocca provocante. Legolas aprì gli occhi con uno scatto, e sembrarono saette azzurre nella penombra. Accolse le dita di Estel tra le labbra tumide, vi fece scivolare attorno la lingua, ancora, ancora, bagnandole, e le succhiò un poco, lento, suggestivo, lasciandole scivolare dentro e fuori dalla bocca con ritmo impossibile da fraintendere, prima di lasciarle andare. Estel gemette. La sua mano brancolò cieca verso la scodella di frutta.

Glorfindel si alzò senza suono dal grembo di Erestor. S’inginocchiò vicino ai due. Sussurrando, li esortò ad andare a fare un bagno: fa così caldo, e l'acqua è chiara ed invitante. Perché non fare un tuffo? Non sentite già la sue carezze dolci sulla pelle? Non sentite com’è piacevole abbandonarsi alla corrente, completamente, nudi come neonati? Immaginatela avvolgervi, calda e fresca allo stesso tempo, scivolare sul vostro corpo col suo tocco innocente e voluttuoso, toccarvi ovunque, cingervi, dolcemente, inebriandovi di sensazioni, di piacere?

Estel e Legolas annuirono, come in preda ad un incantesimo. Gli occhi dell'uno erano fissi in quelli dell'altro, scuri, carichi, sognanti.

Senza parlare, si presero per mano, le loro dita s’intrecciarono, chiare e scure, morbide e callose, ed i loro passi li portarono fino alla riva.

E’ dolce spogliarsi sotto il sole. E’ triste lasciarsi andare le mani. Ma dolce, dolcissimo, è iniziare a spogliarsi l’un l’altro, le dita di Estel che scorrono sul corpo di Legolas, agili, sciogliendo lacci e bottoni come se non esistessero, mentre le mani di Legolas si premono su quei muscoli forti, li sentono guizzare, li carezzano, e lentamente li liberano della maglia che li cela, la fanno scivolare su, sempre più su, a scoprire i capezzoli scuri, il collo, il collo cinto da una stella che pulsa come impazzita, irradiando luci di mille colori, e che brucia, brucia come fiamma sulla pelle, e poi la maglia che cade a terra, i riccioli scuri di Estel che si muovono alla brezza, il petto nudo che tocca quello di Legolas, glabro, fresco, ma egualmente nudo, perfetto, si, assolutamente perfetto, i due corpi che si toccano, calore che incontra calore, calore che risveglia altro calore, giù, in basso, dove è proibito andare.

Legolas getta indietro la testa. Il sole brilla abbacinate sul profilo candido del suo collo. Estel - non sa come, non sa perché - si rende improvvisamente conto che la sua bocca si muove su quella luce, su quella pelle, e la sua lingua cattura sapori che sono miele e sole e rugiada, ma anche molto, molto di più. Nella sua mente si fa strada un pensiero strano, assurdo, posto lì con la magia, sicuramente, con la magia, perché non può essere suo, no, mai.

Fermati, dice quel pensiero. Non farlo.

Ma Estel lo ignora.

Spinge le mani giù, lungo la schiena nuda, incontra l’orlo dei pantaloni, stretti, oh, così stretti, e loro s’intrufolano, fra pelle e stoffa, e sgusciano giù, si, giù, fino a chiudersi sulla curva perfetta delle natiche, fino a spingere Legolas in avanti, fino a spingere quel calore pulsante contro di sé, forte, forte.

 

Legolas gemette. La sua mente sembrò snebbiarsi, anche se solo per un attimo.

“In acqua,” mugolò. Estel gli morse il collo, leggermente, non abbastanza per fare male, no, ma abbastanza per lasciare un segno, leggero, un marchio: lui è mio.

“In acqua…” ripeté, tirando i capelli di Estel, tirando, tirando. Eppure, intanto, si spingeva contro di lui, si strofinava, come un gatto, e gemeva, e mugolava, e respirava ansando. Estel incespicò in avanti, strinse le braccia attorno alla vita di Legolas e poi, improvvisa, la sentì: la caduta, l’acqua attorno a loro, fredda, pungente, e poi di nuovo l’aria, calda adesso, carezzevole, e la risata di Legolas, che gli buttava le braccia al collo.

“Dobbiamo lasciarli soli…” sussurrò, e poi le sue labbra si chiusero, tenere, selvagge, sulla spalla del Giovane, le sue unghie gli tracciano sentieri brucianti sulla schiena.

“Via,” ansimò Estel. “Lontano.”

Soli…

 

 

-TBC (?)

                                    

 

*Peredhil = Mezzielfi