.|. Angeli Maledetti .|.

Capitolo 8

~  

Legolas si era svegliato da poco, teneva ancora gli occhi chiusi, cullandosi nelle ultime tracce del sonno. Il rumore degli zoccoli di un cavallo si allontanava velocemente; Estel doveva essere partito per raggiungere Gandalf a Brea, come gli aveva detto la sera precedente. Si girò pigramente verso il balcone, oltre il quale il cielo si stava lentamente tingendo di toni più chiari. Si strinse tra le lenzuola, rabbrividendo all’aria fresca del mattino. Solo un paio di notti prima, dormiva assieme ai gemelli, avvolto nel loro abbraccio, cullato dal calore del loro affetto. E le mattine successive erano iniziate con un calmo risveglio, scandito dai loro respiri caldi e regolari, il lento battito dei loro cuori, la dolcezza dei loro corpi addormentati. Piccoli e preziosi momenti di pace che lo avevano rasserenato ed ora gli mancavano. Sorrise tra sé.

La notte precedente alla loro ultima partenza, si era trattenuto fino a tardi a parlare assieme ad Estel. Il tempo era trascorso senza che quasi se ne rendesse conto, quando era tornato in camera sua, i gemelli si erano già ritirati nella loro stanza, e non aveva voluto disturbarli. Era un periodo molto difficile per loro, e per quanto fossero desiderosi di prendersi cura di lui, avevano bisogno anche di rimanere un po’ da soli, ogni tanto. Anzi, forse era la cosa di cui avevano più bisogno, in quel momento.

Richiuse gli occhi, deciso a riposare ancora un poco.

Il suo pensiero ritornò alla sera precedente. Si era allontanato dagli altri, chiuso nel suo dolore. Inaspettatamente Estel lo aveva raggiunto. Gli si era seduto accanto, gli aveva cinto le spalle con un braccio, e quel dolce calore gli era stato di grande conforto. Lo aveva guardato a lungo, da dietro i suoi occhi grigi, e gli aveva detto di non trattenere le lacrime, perché gli avrebbero fatto ancora più male. Con quei semplici gesti, aveva abbattuto le sue difese. Qualcosa di dolce lo aveva invaso, si era avvicinato al suo cuore. Si era sentito così vulnerabile, in quel momento, ed infinitamente fragile. Aveva permesso al suo sguardo di rapirlo completamente; era rimasto a fissarlo indugiando sui lineamenti del volto, incorniciato dai capelli castano chiaro, le guance ricoperte dalla corta barba. Si era ritrovato a fissare le sue labbra, sottili e rosee, e all’improvviso aveva desiderato sentirne il sapore, sfiorandole appena, temendo di osare qualcosa di troppo. Si era lasciato abbracciare, permettendo alle lacrime di scorrere sul suo viso, e posando la testa sulla sua spalla, avvolto da un senso di sicurezza di cui aveva scoperto di avere tremendamente bisogno.

Sorrise ancora tra sé, ripensando alla dolcezza di quel momento, e lentamente si riaddormentò.

 

Quando si risvegliò il sole era già sorto da un pezzo. Si alzò ed uscì sul balcone stiracchiandosi mentre guardava il cielo azzurrissimo dove non vi era traccia di nuvole. Si chiese come mai Elladan ed Elrohir non si fossero ancora fatti vivi, probabilmente erano entrambi al capezzale della madre. Probabilmente. Eppure in quel momento si sentì turbato da qualcosa. Una sensazione di ansia lo avvolse, accompagnata dalla certezza che stesse accadendo qualcosa di cui era ignaro. Rimase indeciso sul da farsi per qualche minuto, poi si rivestì in fretta ed uscì dalla stanza in cerca dei due fratelli.

 

 

 

***

 

 

 

Elrond scostò lentamente la porta, attento a non causare scricchiolii, ed entrò nella stanza. Si fermò dopo aver fatto pochi passi, commosso da ciò che vedeva. Elladan giaceva immobile, il volto pallidissimo in tenue contrasto con il colore delle lenzuola. Elrohir seduto sul bordo del letto, con il busto appoggiato sul suo, la testa sulla sua spalla. Aveva gli occhi chiusi, e gli teneva una mano. Sembrava addormentato. Arwen era seduta sul pavimento, il volto nascosto nel braccio posato sul letto.

 

 

 

Era successo tutto così in fretta, la notte precedente. Aveva visto Elrohir entrare a cavallo nel giardino del palazzo, fermandosi a pochi metri dalla porta, stringendo tra le braccia la madre. Non avrebbe saputo spiegare cosa aveva provato in quel momento, nel rivedere la sua sposa. Era un miscuglio di gioia e di dolore. Gioia di poterla riabbracciare viva, e dolore nel vederla in quello stato di sofferenza. L’aveva presa tra le braccia per portarla nei locali dei guaritori. La sentiva tremare, mentre si stringeva a lui, nascondendo il viso sulla sua spalla. I guaritori gli avevano chiesto di uscire dalla stanza, assicurandogli che si sarebbero presi cura di lei. Sapeva di essere il migliore dei guaritori di tutto l’Arda, ma si rendeva conto della sua incapacità di essere oggettivo, in quel momento, ed aveva obbedito. Aveva atteso pazientemente fino a che non gli erano state comunicate le sue condizioni. Poi era rimasto ancora con i suoi figli, e mentre Aragorn si allontanava in cerca di Legolas, Glorfindel gli aveva chiesto di guardare una ferita sul braccio di Elladan. E quello era stato un altro colpo per il suo cuore. Era poco più di un graffio, ma l’alone bluastro che si stava formando attorno gli aveva fatto subito capire di cosa si trattava: una ferita inflitta da un’arma intrisa in un qualche veleno di Morgoth, fatto apposta per distruggere la luce dei Valar, per uccidere gli elfi. Il veleno stava facendo il suo effetto velocemente, anche se il giovane non se n’era ancora accorto. Aveva preparato un impacco di erbe, il più velocemente possibile, ma già dopo pochi minuti, Elladan aveva perso conoscenza.

 

Era stato penoso spiegare agli altri due figli cosa stava accadendo. Che loro fratello, che un attimo prima era accanto a loro, ora stava lottando contro un veleno che poteva bruciare completamente la sua luce. Che quel veleno era entrato dentro di lui tramite quello che poteva sembrare solo un graffio, del quale non di era quasi accorto, e che aveva già iniziato a divorarlo mentre cavalcava verso Imladris, mentre era in piedi vicino a loro che aspettava notizie sullo stato della madre, e cingeva le spalle della sorella per confortarla.

Elrohir ed Arwen erano rimasti in silenzio, con l’espressione di chi fatica a capire. E ad accettare.

Lo avevano vegliato per ore, parlandogli sottovoce, chiedendogli di non lasciarsi andare. E lui era stato a guardare sentendosi impotente, perché per quel veleno non esistevano cure. Solo la speranza che la forza vitale di Elladan riuscisse ad avversarlo. Nessuno lo poteva aiutare.

 

Qualche ora dopo Elrohir aveva chiesto di parlargli, lo aveva fissato negli occhi con uno sguardo che non riusciva a decifrare. Vi si leggeva dolore, disperazione, ma forse anche rassegnazione.

“Questo veleno distrugge la luce, e lo sta uccidendo” aveva detto con un filo di voce “Se lui vi rinunciasse, scegliendo di diventare mortale, si salverebbe, vero? Il veleno non fa effetto sui mortali.”

Elrond aveva annuito. Si aspettava quella domanda.

“Lui lo sa?”

Aveva annuito ancora. “Lo sente.”

E in quel momento, oltre alla paura, nei suoi occhi aveva letto la sua decisione. Se il fratello fosse stato costretto a fare quella scelta, Elrohir lo avrebbe seguito. Sapeva che i sentimenti che legavano i due gemelli erano molto più forti di come apparivano. Se n’era accorto da tempo, che il loro amore era molto lontano da quello che abitualmente legava due fratelli. Non avrebbero accettato di separarsi per nessuno motivo al mondo. Se uno di loro avesse incontrato la morte sulla sua strada, essa avrebbe portato via entrambi, in un modo o nell’altro.

Elrohir era tornato al capezzale di Elladan, si era seduto sul bordo del letto, e gli aveva preso una mano tra le sue. Era rimasto così, in silenzio, a guardarlo, mentre la sorella si avvicinava.

 

 

 

Elrond era stato chiamato dal suo dovere, e si era diretto verso il suo studio, non prima di aver dato un’altra occhiata ai tre figli. Mentre camminava nei lunghi corridori semibui, aveva ripensato ad Elros, suo fratello, che tanti anni prima, aveva scelto una vita mortale. Non aveva mai compreso fino in fondo i motivi della sua scelta, ma l’aveva accettata. Elros aveva potuto scegliere, era stato un suo diritto, come era stato un suo diritto scegliere di essere elfo. Quando era morto, aveva provato grande pena e dolore. Sapeva che era stato contento della sua vita, non si era mai pentito della sua scelta. Ma aveva visto morire un fratello che un tempo aveva sperato di avere accanto per sempre, e del quale avrebbe sentito la mancanza per tutta la vita.

 

Quando era giunto nel suo studio vi aveva trovato Erestor seduto al suo scrittoio davanti ad una pila di fogli di carta. Il consigliere si era alzato ed aveva chinato la testa come d’abitudine, poi gli aveva porto un foglio.

“Firmate qui, signore” gli aveva detto “ il resto posso farlo io, ho quasi finito”.

Elrond era rimasto un attimo immobile, poi aveva sorriso con gratitudine. Erestor era molto di più di un semplice consigliere reale, era un vero amico, una spalla a cui appoggiarsi in ogni situazione difficile. E in quel momento se ne rendeva conto più che mai. Da quando Celebrian era stata rapita, non era più riuscito a concentrarsi nel suo lavoro, ed Erestor aveva fatto il possibile per occuparsi di tutto ciò che poteva, pur di dargli sollievo. Si prendeva cura di lui, in silenzio. E adesso stava continuando a farlo, perché potesse occuparsi di lei e del figlio. E di se stesso.

“Erestor, grazie.” Era riuscito a mormorare solo questo.

Il consigliere aveva sorriso. “Dovere” aveva risposto. “Ora tornate pure da Dama Celebrian ed Elladan, o cercate di riposare”.

 

E così era tornato dalla sua sposa. Era addormentata, sotto l’effetto di potenti sedativi e vegliata continuamente dai guaritori. Il volto così pallido, gli occhi scavati. Si era chinato leggermente su di lei, sfiorandole appena le labbra con un bacio, sforzandosi di trattenere le lacrime che gli bruciavano dentro nel vederla in quelle condizioni.

Poi era tornato nella stanza di Elladan, ed aveva trovato Elrohir ed Arwen addormentati accanto a lui. Ormai era quasi l’alba.

 

 

 

Elrond guardò a lungo Arwen. Si era addormentata seduta sul pavimento, rannicchiata contro il letto, la testa appoggiata su un braccio, le dita intrecciate con quelle dei fratelli. Sulle guance aveva ancora i segni delle lacrime versate. Arwen. Era la prima volta che si trovava di fronte alla morte. Ne aveva sempre parlato con leggerezza, fino ad ora. Aveva sempre vissuto circondata dalle persone che amava, senza mai perdere nessuno. Una volta gli aveva detto di voler scegliere una vita mortale, per sposare Aragorn e rimanere nella Terra di Mezzo assieme a lui. Elrond era rimasto molto turbato da quelle parole, sapeva che i suoi sentimenti erano sinceri, ma temeva non si rendesse davvero conto di cosa stesse dicendo. Non si era mai chiesta davvero cosa fosse la morte, e nemmeno quanta sofferenza avrebbe portato ai familiari la sua scelta. Ora questa realtà le era comparsa davanti in maniera brutale, stava vivendo la paura di perdere prima la madre, poi il fratello. Tutto questo era troppo grande per lei.

 

Scosse la testa, davanti a tutto quel dolore. Si affacciò alla finestra ed alzò lo sguardo verso l’alto, dove le ultime stelle brillavano ancora nel cielo che stava lentamente cambiando colore. Pregò perché si salvasse la sua sposa, perché non gli fosse chiesto di dover vivere senza di lei. Pregò perché Arwen riflettesse ancora, prima di prendere la decisione che l’avrebbe resa mortale, allontanandosi da lui per sempre. E pregò perché Elladan riuscisse a vincere nella lotta contro il veleno, senza essere costretto a prendere quella stessa decisione, trascinando con se anche Elrohir. Tre desideri, di valore immenso. Sapeva fin troppo bene di non poter sperare di vederli realizzati tutti e tre, a nessuno poteva essere concessa una grazia simile. Si sentiva in bilico, sull’orlo di un baratro nel quale avrebbe potuto perdere tutto ciò che aveva.

 

 

 

***

 

 

 

Sarebbe stato così facile lasciarsi andare, permettere a quel buio intenso di assorbirlo. Sarebbe bastato poco, per cedere a ciò che cercava di spegnerlo. Avrebbe avuto freddo. Sarebbe stato solo. Ma sarebbe stato più facile.

Qualcuno lo chiamava, cercando di strapparlo da quel mare scuro e freddo che lo avvolgeva.

Elladan cercò di muoversi. Il braccio gli faceva male, come se decine di dita gelide lo stringessero penetrando nella carne. Solo sulla mano era rimasta un po’ di sensibilità e qualcosa di caldo la stringeva. La voce di Elrohir lo chiamava, pregandolo per qualcosa. Pareva così lontano…

Ormai aveva perso completamente la concezione del tempo e dello spazio.

Con un grande sforzo aprì gli occhi, Elrohir era chino su di lui, il viso vicinissimo al suo, gli occhi velati dalle lacrime. Cercò ancora di muoversi per toccarlo, stringersi a lui, cercando rifugio da quello a cui cercava di fuggire, ma riuscì solo a spostare leggermente le mani. Lo sforzo lo fece impallidire.

 

Fratello mio. Amore mio.

 

“Finalmente ti sei svegliato” sussurrò Elrohir.

 

Non ho ancora vinto.

 

Elladan gli lasciava leggere nei suoi occhi, poiché non aveva forza di parlare.

 

“Ma puoi farcela, lo so.” Rispose il fratello “Tu sei forte, puoi vincere quel veleno.”  Esitò, mentre gli accarezzava dolcemente il viso. “Se non riesci a salvare la tua luce vi puoi rinunciare, perderesti la tua immortalità, ma il veleno non potrebbe farti più niente. Lo sai, vero?”

 

Significherebbe comunque morire.

 

“Si. Ma ti sarebbero concessi ancora molti anni di vita. E io ti seguirò, non ci separeremo mai. Invecchieremo assieme.”

 

Non voglio. Tu devi vivere per sempre.

 

“Non posso vivere senza di te, non lasciarmi solo.” Non poté impedire alle lacrime di scendergli sulle guance, mentre lo abbracciava.

 

Elladan chiuse gli occhi, cullandosi in quelle parole. Non voleva lasciarsi andare. Sentì le labbra del fratello posarsi delicatamente sulle sue. Il sapore salato delle sue lacrime. Doveva reagire e sconfiggere quel veleno a tutti i costi. Per se stesso, e per Elrohir che ora lo stringeva tra le braccia supplicandolo di non lasciarlo solo. Nel calore del suo abbraccio sentiva tutta la sua disperazione, il suo amore, la sua paura. Cercava di incoraggiarlo, sussurrandogli di farsi forza, ma non era in grado di nascondergli il suo stato d’animo.

 

Non piangere, ti prego.

 

Cercò di parlare, avrebbe voluto dirgli cosa provava, ripetergli quanto lo amava, ma il solo tenere gli occhi aperti aveva esaurito le sue forze, si sentì di nuovo mancare. Fu colto da una strana sensazione, come cadesse verso il basso, molto lentamente, ma senza mai fermarsi. Cercò disperatamente un appiglio nella voce del fratello che lo chiamava, come avesse potuto aggrapparsi ad essa, per non cadere ancora. La voce divenne una luce lontana appena visibile oltre una coltre di nebbia, e attorno a lui si chiuse un velo molto simile a quello del sonno, ma più profondo e freddo.

Era di nuovo solo, sospeso tra la vita e la morte.

 

 

 

“Non lasciarti andare…” Elrohir credeva di aver gridato, ma la voce gli si era spezzata in gola. Elladan aveva richiuso gli occhi, tornando nel suo sonno profondo e lontano, dove non poteva raggiungerlo, per quanto si sforzasse. E questo lo terrorizzava.

Una mano sulla spalla lo fece sussultare. Si girò di scatto. Non si era accorto che Glorfindel, seguito da quattro guaritori era entrato nella stanza.

Il cavaliere lo prese per mano aiutandolo ad alzarsi, con un gesto dolce ma deciso.

“Vieni, i guaritori lo devono visitare” gli disse quasi sottovoce. Non gli diede il tempo di replicare. “Hanno bisogno di lavorare senza nessuno attorno, e tu hai bisogno di prendere un poco di sole. Dopo torniamo subito qui.” Elrohir si lasciò trascinare fino in giardino. Passando sotto la finestra della stanza del fratello, guardò in alto, quasi sperando di vederlo affacciato.

 

“Elladan è forte, ce la farà sicuramente” Glorfindel lo guardava con un sorriso incoraggiante. Era visibilmente preoccupato, ma si sforzava di sembrare sereno. Continuando a tenerlo per mano lo condusse per i sentieri del giardino, fermandosi in un luogo tranquillo e appartato, all’ombra degli alberi.

 

Sapeva essere dolce Glorfindel, quando voleva. Elrohir era abituato a vederlo nelle vesti del Comandante dell’esercito, e capo delle sentinelle della valle: duro e distaccato mentre impartiva ordini ai soldati, esigente durante le esercitazioni, impietoso nella correzione degli errori. Eppure in momenti come quelli sembrava un’altra persona.

Lui ed Erestor erano i due elfi più vicini ad Elrond, non erano legati solo dai loro ruoli e doveri nel regno, ma anche da una grande amicizia. Fin da quando lui ed Elladan erano bambini, si erano sempre presi cura di loro, come potevano. Erano cresciuti avendoli sempre accanto, due presenze rassicuranti sulle quali avevano sempre potuto contare.

 

“Si, anche io credo che ce la possa fare” rispose il giovane. “Ma non riesco ad essere razionale. Ho paura. Ho paura di perderlo.” Si sedette su una panchina di legno, aspettò che anche l’altro lo facesse e poi continuò.

“Lo sai… quel veleno distrugge la luce degli elfi uccidendoli. Se rinunciasse a quella luce, il veleno non avrebbe nulla su cui fare effetto. Diventerebbe mortale, ma per ora si salverebbe. Poi…”

 

Fece una pausa. Glorfindel non era un mezz’elfo come loro, temeva che non avrebbe capito.

 

“Io sono nato in questa terra, e ho conosciuto molti elfi e molti uomini. Nostro padre ama questa terra come me, ma da un certo punto di vista se ne è stancato. Il tempo degli elfi sta finendo, e lui vorrebbe partire per l’Ovest, verso le Terre Immortali. Io mio sono chiesto più di una volta cosa voglio fare, ma non mi sono ancora dato una risposta. A volte penso che vorrei partire anch’io, a volte che invece mi piacerebbe rimanere qui, invecchiare e morire come gli uomini che abitano in queste terre.”

 

Guardò negli occhi l’elfo davanti a lui, ed arrossì un poco. “Adesso come adesso però, la mia scelta sarebbe legata a quella di Elladan. Se decidesse di diventare mortale, lo seguirei. Anche se facendo così darei un grosso dolore a nostro padre che è già preoccupato per Arwen”.

 

“Vostro padre vi ama. Si preoccupa solo della vostra felicità” disse Glorfindel.

 

Il giovane annuì. “Anche noi dovremmo preoccuparci della sua” rispose. “Credo che questi pensieri sulla mortalità sembrino strani ad uno che non è solo mezzo elfo” aggiunse sorridendo, cercando di alleggerire il discorso.

 

L’elfo biondo ricambiò il sorriso.

“Beh… per me sono discorsi un po’ strani, in effetti. Io non ho questa possibilità di scelta, anzi, l’unica volta che sono morto mi hanno rispedito qui di nuovo” rispose.

Elrohir rise. Lo adorava. Riusciva sempre a farlo sorridere, anche nei momenti più bui. Poi lo sentì continuare con un tono di voce più basso, come parlasse a sé stesso.

“E anche se volessi, non potrei comunque lasciarmi morire…”

Il giovane corrugò la fronte. “Che significa?”

Glorfindel esitò un momento quasi pentito di quello che aveva detto. Doveva essere qualcosa che non aveva l’abitudine di raccontare. Come gran parte di ciò che lo riguardava, dopotutto.

 

“Quando i Valar decisero di concedermi un’altra vita, mi dissero che avrei dovuto viverla fino in fondo, amando ed onorando il dono che avevo ricevuto. Mi dissero che se vi avessi rinunciato, togliendomela da solo, o mi fossi lasciato morire per qualche motivo, mi sarei dissolto, e alla mia anima non sarebbe stata data la possibilità di raggiungere l’aldilà.”

 

Elrohir rimase in silenzio, meditando su quelle parole, cercando di capirne a fondo il significato.

 

“Non fare quella faccia, principe” esclamò Glorfindel ridendo “Non ho motivo di rinunciare alla vita.” Poi gli posò le mani sulle spalle, sorridendogli dolcemente. “Qui ad Imladris ho trovato una casa, e voi siete come una famiglia per me. Non ho motivo di pensare alla morte, e neppure tu. Devi essere ottimista. Elladan sente cosa provi, quando sei vicino a lui. In questo momento ha bisogno di sentirti forte, per appoggiarsi a te. Solo così potrà guarire.”

Il giovane annuì e sorrise ancora. E in quel momento capì qual’era la condanna di Glorfindel.

Non era raro che un elfo si lasciasse morire per seguire nell’aldilà il compagno defunto. Non tutti erano in grado di continuare a vivere con il cuore spezzato.

E se Elladan fosse morto, si sarebbe lasciato morire anche lui, certamente. Non sarebbe stato in grado di affrontare la vita senza averlo accanto, piuttosto lo avrebbe raggiunto nell’aldilà.

Ma a Glorfindel questo non era concesso. Se si fosse trovato in quella situazione, non avrebbe potuto seguire il suo compagno, avrebbe dovuto per forza continuare a vivere sopportando la sofferenza, aspettando che la morte lo venisse a cercare.

Era morto cercando di salvare il suo popolo, e gli era stata concessa un’altra vita perché continuasse a combattere contro le forze oscure. Era rinato per proteggere, ma non per vivere per sé stesso. Almeno non del tutto.

 

 

 

***

 

 

 

Legolas sgranò gli occhi. Appena imboccato il corridoio aveva incontrato Arwen, che lo aveva messo al corrente dell’accaduto: Elladan stava lottando contro un veleno mortale, a causa di una ferita della quale non si era quasi neppure accorto.

“Perché non mi avete avvisato?” chiese d’impulso, stringendo le mani sulle sue braccia, quasi alzando la voce.

Lei lo guardò con aria confusa, iniziando a tremare.

“Scusa” gli disse “Eravamo così spaventati”

“Scusami tu” rispose rendendosi conto di cosa aveva fatto “Sono sconvolto. Non volevo alzare la voce. Volevo solo dire… io dormivo tranquillo mentre stava accadendo tutto questo… Scusami. ”

Scosse la testa, cercando di calmarsi.

Arwen sorrise, con la sua dolcezza abituale. “So che anche tu sei molto legato a mio fratello” disse.

In quel momento vennero raggiunti da Elrohir che rientrava dal giardino. Il giovane passò un braccio attorno alla vita della sorella e le posò un bacio sulla guancia, poi tese l’altro braccio verso Legolas e lo attirò verso di loro. Rimasero così per qualche momento, tutti e tre stretti in un dolce abbraccio, poi Elrohir si staccò un poco e raccontò che il fratello si era svegliato per qualche minuto, prima di ripiombare in un sonno profondo. I guaritori avevano detto che era un buon segno, per sconfiggere il veleno aveva bisogno di dormire e riposare il più possibile. Ma non vi erano certezze.

Potevano solo aspettare. E pregare.