.|. Angeli Maledetti .|.

Capitolo 4

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Elladan era tornato a Imladris nella tarda mattinata, dopo una decina di giorni di assenza. Elrohir lo aveva visto arrivare da lontano, lo aspettava sul balcone, scrutando l’orizzonte. Si erano salutati con un abbraccio formale, davanti alla porta del palazzo, ed avevano scambiato solo qualche parola durante il pranzo, scambiandosi occhiate furtive di tanto in tanto. Avevano passato il pomeriggio assieme agli altri guerrieri, discutendo della situazione dei confini, i nuovi problemi che quotidianamente si aggiungevano agli altri, i pericoli sempre in agguato. Solo più tardi, avevano trovato il modo di trascorrere un po’ di tempo da soli.

 

La fonte termale era interamente scavata nella montagna, al suo interno alte pareti di roccia dividevano la vasca maggiore da quelle secondarie, più piccole e nascoste. A notte fonda era quasi sempre deserta. I due fratelli si erano ritirati in una zona appartata, dove la pietra formava una lastra liscia leggermente in salita, sulla quale scorreva lento un mezzo centimetro d’acqua che andava a riversarsi nella grande vasca. Nascosti dall’ombra delle rocce, distesi di fianco sulla pietra levigata, semi immersi nell’acqua tiepida. I corpi abbracciati, le gambe distese, intrecciate tra loro mentre i raggi azzurrati della luna si riflettevano sulla loro pelle bagnata. Stavano in silenzio, gli occhi chiusi, assaporando la tenera sensualità del contatto delle loro labbra, le lingue che si sfioravano appena.

Erano quelli i momenti in cui Elrohir perdeva le sue insicurezze e si lasciava trascinare in quel mare di sensazioni, abbandonandosi completamente, senza pensare a niente altro che la pelle calda di Elladan a contatto con la sua, le sue mani che percorrevano lentamente il suo corpo, l’eccitazione che pian piano si impadroniva di lui. Si sdraiò sulla schiena, spinto dal fratello che si stese su di lui, premendo leggermente il bacino contro il suo. Sentire la sua lingua che risaliva lentamente lungo il collo gli faceva ribollire il sangue nelle vene, mentre il corpo cominciava a cedere a quella dolce insistenza.

“Lo sai quanto ti desidero, vero?” gli sussurrò Elladan sulle labbra tremanti, il respiro leggermente affannato. Poi fece una pausa, le labbra strette, come indecise se parlare.

Elrohir ebbe un leggero tremito, intuendo i suoi pensieri, e cosa volesse chiedergli. Pregò perché quella domanda non arrivasse, non in quel momento, almeno. Elladan sentì il suo disagio, ma lo volle ignorare.

“A volte sei schivo” disse. “Sembra che ti lasci andare, ma poi ti tiri indietro. Eppure l’altra notte, quando ero a Lothlorien, ti ho visto, ti ho… sentito” fece una breve pausa. “Eri davvero tu, vero? Non è stato un mio sogno…”

Elrohir annuì lentamente, il cuore gli batteva così forte. Il ricordo di quella notte, nella quale le loro menti si erano incontrate in un momento di passione, ritornò prepotente e nitido nelle loro teste, facendoli tremare entrambi.

 

Mi vuoi quanto ti voglio io, vero?

 

Si. Lo voleva. In quel momento più che mai. Esitò, cercando di superare le paure e i dubbi che da sempre lo tormentavano. Aprì la bocca per parlare, ma dovette fermarsi, Elladan gli aveva già preso il viso tra le mani, fissandolo negli occhi, con insistenza, leggendogli nella mente la sua risposta. Non riuscì a trattenere un gemito di dolore e rabbia, sentendolo entrare a forza nella sua testa, cercando di impossessarsi di ciò che temeva non volesse dirgli. Chiuse gli occhi per respingere quello sguardo che gli frugava nella mente e si divincolò dall’abbraccio, spingendolo lontano. Si alzò in piedi e corse via.

 

Non riusciva a sopportarlo. Elladan faceva spesso così quando non riceveva una risposta.

Potevano dividere tra loro i pensieri, anche i sentimenti e le sensazioni, a volte. Era un legame forte e meraviglioso, ma si basava su un delicato equilibrio molto difficile da mantenere, sulla sottile linea che segnava dove finiva l’uno ed iniziava l’altro. Forse era proprio quello che lo spaventava di più del loro rapporto. Elladan era sempre stato possessivo verso di lui, lo voleva completamente per lui: il suo corpo, la sua anima, ogni pensiero nascosto, ogni più piccolo segreto. Quante volte non gli erano bastate le sue parole, ed aveva voluto guardare dentro di lui, cercando le sfumature che non gli aveva rivelato a voce. Elrohir non riusciva a non sentirla come una violenza, una prevaricazione nei suoi confronti. Una mancanza di rispetto che lo metteva a disagio, e che non voleva tollerare.

 

Elladan era rimasto a guardarlo, immobile, mentre si allontanava in fretta, a grandi passi nell’acqua.

Aveva sbagliato. Un’altra volta.

Si morse le labbra, battendo un pugno sulla superficie rocciosa, preso da un impeto di rabbia. Lo aveva fatto ancora. Il fratello aveva esitato prima di dargli una risposta e lui non aveva aspettato, aveva cercato di leggergli la verità nella mente, e questo Elrohir non lo sopportava. E lui lo sapeva, ma non era riuscito a farne a meno. Aveva avuto paura, un’altra volta. Paura che dietro alla sua esitazione ci fosse qualcosa da nascondere, qualcosa che non gli volesse dire. Esitò per un momento, poi si alzò in piedi: non poteva lasciarlo andare via, non ora che aveva cominciato a parlargli.

 

Si alzò e lo rincorse. Quando entrò nel locale che fungeva da spogliatoio lo trovò deserto. Si asciugò alla buona e si rivestì in fretta. Corse lungo i sentieri del giardino, i capelli ancora bagnati sciolti sulle spalle. Lo raggiunse solo davanti all’entrata del palazzo.

“Aspetta!”

“Lasciami stare!”

“Ti prego, aspetta…” lo prese per un braccio, senza preoccuparsi degli elfi che passeggiavano nel giardino, poco lontano.

Elrohir si volse verso di lui, cercando di divincolarsi, e guardandolo con rabbia.

“Ti ho detto di lasciarmi stare!” gridò.

 

Si guardarono negli occhi per un lungo momento, come se il mondo si fosse fermato attorno a loro, con troppe cose da dirsi e non sapendo da dove iniziare.

Ad un tratto qualcosa li riportò alla realtà. Si accorsero che un cavallo si stava avvicinando lentamente. Era sellato, ma senza cavaliere e con le briglie sciolte. Riconobbero il cavallo di Celebrian, la loro madre. Rimasero qualche istante in silenzio, disorientati, chiedendosi cosa potesse significare. Era partita quello stesso pomeriggio, con la sua scorta, per raggiungere Arwen a Lothlorien. Non l’avevano potuta accompagnare, ma con lei c’erano guerrieri valorosi ed abili. Perché il suo cavallo era tornato adesso, da solo? Si guardarono smarriti, dimenticando la loro discussione. Un pensiero, si formò nelle loro menti. Improvviso e lacerante come un urlo.

 

L’hanno portata via…

 

Senza attendere un attimo corsero nelle scuderie a prendere i loro cavalli, Elrond era appena uscito in giardino, richiamato dal vociare delle persone, e fece appena in tempo a vedere il cavallo della sua sposa, a capire cosa fosse successo. Poi li vide cavalcare via, da soli.

“Aspettate!” gridò loro, inutilmente.

Scosse la testa, maledicendo l’impulsività dei giovani. Si stavano precipitando all’inseguimento degli assalitori, da soli, senza avere idea di dove e quanti fossero. Senza rendersi conto che quello era il modo migliore per farsi uccidere.

 

“Ti prego, riportali indietro” disse rivolto a Glorfindel, che si stava avvicinando in quel momento. Rimase a guardarlo mentre radunava i suoi guerrieri e partiva, prese le briglie del cavallo e le strinse tra le mani tremanti, non riuscì a fare altro.

 

 

 

***

 

 

 

Apri gli occhi, ti prego.

 

Quante volte glielo aveva ripetuto? E lei era rimasta immobile, nel suo letto.

Gli era morta tra le braccia, aveva visto i suoi occhi chiudersi lentamente, sentito fermarsi il suo respiro. Ma Thranduil non era riuscito ad accettarlo subito. L’aveva portata nella sua stanza, e l’aveva stesa sul letto. Aveva preso una bacinella d’acqua e le aveva pulito il viso dalla polvere e dal sangue. I figli erano rimasti a guardarlo in silenzio, mentre con le mani che tremavano le passava un panno bagnato sul volto e sui capelli, restituendole i suoi riflessi argentati. Poi si era seduto vicino a lei ed era rimasto a guardarla. Quando Aldyion si era avvicinato, gli aveva chiesto di andarsene, di lasciarlo solo. Aveva parlato con calma, senza nessun risentimento nella voce, ma il suo tono era deciso ed i quattro figli avevano obbedito, uscendo dalla stanza.

Era rimasto così fino al mattino dopo, seduto sul letto, stringendole una mano, senza smettere di guardarla, anche quando la vista ormai offuscata dalle lacrime gli permetteva di distinguere soltanto il suo contorno, mentre un terribile gelo avvolgeva il suo cuore in una morsa dolorosa.

 

Apri gli occhi, ti prego. Non lasciarmi solo.

 

Si conoscevano da sempre, fin da quando erano bambini. Si erano sposati giovanissimi, ed erano sempre stati felici, vivendo l’uno per l’altra. Era tutta la sua vita. Come poteva andare avanti senza di lei?

I giorni successivi erano trascorsi velocemente, senza che se ne rendesse conto, chiuso nella sua stanza, disinteressandosi dei suoi doveri, degli affari del regno, della sua famiglia. Passava le giornate seduto sul pavimento del balcone, lo sguardo perso nel vuoto. Rifiutava di vedere chiunque. Cercava nei suoi ricordi i giorni trascorsi con lei, come se così avesse potuto riviverli ancora. La sua voce sommessa, la pelle candida e liscia, gli occhi blu. Il suo ultimo sorriso. Immagini nelle quali tentava di rifugiarsi, ma che svanivano immediatamente, lasciandolo annegare in un mare di solitudine e gelido dolore.

 

Era stato mentre era così, che aveva sentito qualcosa accarezzargli i capelli. Aveva alzato lentamente gli occhi. Failariel, stava davanti a lui osservandolo da dietro i suoi occhi lucidi. La sua piccolina. Era rimasto a guardarla per un momento, con lo sguardo smarrito. Failariel. Era nata pochi anni prima, per desiderio della sua sposa. “Vorrei avere un altro figlio” gli aveva detto una sera, mentre passeggiavano nel roseto. “E vorrei tanto che fosse una bambina”. Poteva ancora vederla, sorridente, in mezzo ai fiori bianchi che più amava, mentre con le mani scostava i capelli argentati che le ricadevano sciolti sulle spalle. Failariel era nata meno di un anno dopo, portando gioia e meraviglia nel regno, dove da troppi anni non nascevano più bambini, e tutti pensavano solo alla probabile guerra imminente. Era stata accolta come un simbolo di speranza, e lui aveva giurato di amarla e proteggerla da ogni possibile male.

Ma la bambina che ora gli stava davanti, era disperata. Solo in quel momento si era reso conto di ciò che stava facendo. Chiuso nel suo dolore, si stava allontanando da tutti. L’aveva abbandonata proprio nel momento in cui più aveva bisogno di lui. E così aveva fatto anche con gli altri suoi figli. La circondò con le braccia e la strinse a sé, senza riuscire a trattenere le lacrime che scesero libere lungo le guance, mescolandosi alle sue.

I suoi figli. Erano il più prezioso dono che la sua sposa gli aveva lasciato, ed avevano bisogno di lui come lui di loro. Non poteva lasciarsi andare. Doveva vivere, per loro. Per lei.

 

***

 

Era successo ancora. Gli era stato riferito dai guerrieri che lo avevano accompagnato nella ricognizione di quella mattina. Legolas aveva scorto degli orchi nel bosco e li aveva inseguiti, erano un gruppo ben nutrito e scappavano addentrandosi dove gli alberi crescevano più fitti, e scuri. Si era immerso nella fitta boscaglia per seguirli, preso da un impeto di rabbia, un’assurda volontà di ucciderli tutti, senza preoccuparsi di mettere in pericolo la propria vita.

Quando se ne era reso conto, era già nella parte più buia del bosco, solo. Gli orchi che aveva inseguito erano scomparsi, forse si erano nascosti lì vicino. Era stato in quel momento che si era reso conto del suo errore, se fosse stato attaccato in quel momento sarebbe stato ucciso facilmente. Allora era scappato, gridando dalla rabbia, e si era riunito ai compagni che lo stavano cercando.

Non era la prima volta che accadeva e Thranduil era preoccupato.

 

Legolas non aveva più versato una lacrima dopo la morte della madre. Non aveva più sorriso, e quasi non parlava più. Trascorreva molte ore da solo, rifiutando anche la compagnia di Enedhil, al quale era sempre stato molto legato.  Anche come guerriero era cambiato. Sembrava aver perso del tutto la sua freddezza, e forse anche la ragione; impazziva appena vedeva quei mostri che gli avevano portato via la madre, e reagiva con rabbia, con odio. Senza pensare. Ma non era solo un desiderio di vendetta represso che lo muoveva. Stava combattendo contro il suo senso di colpa, che non riusciva a superare. Continuava a sentirsi responsabile della morte della madre, anche se non lo era.

Lo aveva fatto chiamare nella sua stanza, gli voleva assolutamente parlare, anche se era incerto su cosa dirgli. Non poteva permettere che andasse avanti in quella maniera. Sospirò, la sua sposa avrebbe sicuramente saputo cosa consigliargli.

 

Legolas bussò alla porta in quel momento, ed entrò appena ricevuta la risposta. Avanzava piano, guardandolo serio, quasi timoroso. Sapeva perché era stato chiamato. Thranduil si soffermò sul suo sguardo, triste e sofferente. Gli tornò alla mente il giorno del rapimento, nel quale lo aveva visto più morto che vivo, steso sul letto. Solo qualche giorno dopo si era svegliato, mormorando qualcosa, sofferente. Non aveva la forza di parlare, ma lo aveva guardato, per un momento, e lui aveva potuto leggergli negli occhi il suo stato d’animo, la paura, il dolore. E il timore nei suoi confronti.

 

Potrai mai perdonarmi?

 

Quello sguardo gli aveva stretto ancora di più il cuore, sapeva che quel senso di colpa non lo avrebbe abbandonato facilmente. Ora stava di fronte a lui, in piedi e lo guardava allo stesso modo, da dietro i suoi occhi blu, identici a quelli della madre.

 

“Sei in collera con me per quello che ho fatto l’altro giorno?” chiese Legolas, distogliendolo dai suoi pensieri.

“Non sono in collera, sono spaventato. Cose come queste potrebbero costarti la vita. Lo sai, vero?”

Lo guardò ancora, in silenzio, cercando di scorgere nei suoi occhi una risposta.

“Cosa ti sta succedendo, Legolas?” continuò poco dopo “Non ti riconosco più”.

Il figlio abbassò lo sguardo, mordendosi il labbro inferiore con un gesto quasi impercettibile. Quando finalmente incominciò a parlare, lo fece con voce bassa, insicura.

“Non riesco a sopportare di guardarmi attorno. Vedere tutto questo senza di lei. Odio quelle creature, per quello che sono, e per quello che le hanno fatto. Quando attraverso questi boschi, e penso a quello che è accaduto, al fatto che io ero là e…”

 

“Non è stata colpa tua” lo interruppe il padre, avvicinandosi e posandogli le mani sulle spalle.

 

“Se ci fossi stato tu con lei, o uno qualsiasi di voi…”

“No, non dirlo. Mai. Nessuno di noi avrebbe potuto fare nulla, figlio mio. E io posso solo ringraziare i Valar di non avermi portato via anche te. E poi non dimenticare che è solo grazie a te che l’abbiamo liberata, siamo arrivati tardi per salvarla, ma almeno è morta con noi, nel suo giardino. Almeno negli ultimi attimi della sua vita, ha potuto avere questo conforto”.

 

Legolas annuì lentamente. Rimasero stretti l’uno all’altro per un lungo momento.

Thranduil gli accarezzava distrattamente i lunghi capelli dorati, lo sentiva tremare, come volesse chiedergli qualcosa e non ne avesse il coraggio. Ma ormai aveva capito di cosa aveva bisogno.

“Vuoi… allontanarti da qui, per qualche tempo?” chiese.

“Si. Ti prego” la risposta era arrivata quasi immediatamente, quasi con sollievo.

Il padre sospirò leggermente. Sì, probabilmente quella era la soluzione migliore. Stare lontano da quei luoghi per qualche giorno, forse gli avrebbe dato la possibilità di riflettere sull’accaduto in modo più sereno.

“Ho bisogno che qualcuno vada a Lothlorien, a portare una missiva a Celeborn. Dobbiamo terminare gli accordi per i pattugliamenti dei nuovi confini. Vuoi andare tu?”

 

Lothlorien.

 

“Si, andrò volentieri” rispose Legolas dopo un attimo di silenzio.

 

In quel momento un servitore bussò alla porta, portando una lettera. “È giunto un messaggero da Imladris” disse consegnando una lettera al re.

Thranduil lo ringraziò, e la aprì. Legolas lo osservava, mentre leggeva, cercando di decifrare l’espressione del suo volto. Lo vide impallidire.

“Cosa è successo?” chiese.

“Dama Celebrian… è stata rapita dagli orchi” Rispose il padre con un filo di voce. “Elladan ed Elrohir la stanno cercando. Elrond è molto preoccupato.”

 

Legolas conosceva bene Dama Celebrian, era sempre stata molto dolce con lui, nei periodi trascorsi ad Imladris. Strinse i pugni in un impeto di rabbia. No, non poteva permettere che morisse anche lei. E non voleva che Arwen e i gemelli passassero quello che stava passando lui, in quel momento.

 

“Padre, voglio andare da loro”

 

“Legolas…”

 

“Forse li posso aiutare nelle ricerche. Se le loro tane fossero simili a quelle di questi luoghi? Padre ti prego… Andrò a Lothlorien a portare la tua missiva a Celeborn. Poi mi recherò da loro. Non devi stare in pena. Sarò prudente. Non ripeterò gli errori che ho fatto qui.”

Aveva parlato tutto d’un fiato, il tono di voce deciso, leggermente alto.

Thranduil gli accarezzò una guancia. Conosceva bene il suo carattere, ormai aveva deciso, non c’era modo di impedirgli di andare, sarebbe partito anche contro il suo volere. Aveva piena fiducia in lui, ma aveva paura a lasciarlo andare. Aveva promesso di comportarsi prudentemente, e lo avrebbe fatto davvero. Forse. Ma quanto tempo sarebbe stato lontano? Forse, una volta ritrovata la sua serenità non sarebbe comunque più tornato. Questa prospettiva lo addolorava molto, ma se era davvero quello di cui Legolas sentiva il bisogno, non si sentiva di negarglielo.

 

“Va bene” sospirò abbracciandolo ancora una volta. In fondo al suo cuore, in qualche modo, sentiva che lo avrebbe perduto.

 

***

 

Lothlorien distava sei giorni a cavallo dal Reame Boscoso, se si percorrevano i sentieri segreti noti solo agli elfi. Legolas ormai si era lasciato alle spalle i boschi del suo regno e correva sulla pianura attraversata dal grande fiume. In lontananza, poteva già vedere il profilo del Bosco d’Oro che si arrampicava sulle montagne.

Era partito cinque giorni prima, all’alba. Enedhil aveva insistito per accompagnarlo, non voleva lasciarlo solo. Legolas non aveva voluto. Sapeva che gli sarebbe mancato tantissimo, ma sentiva di dover andare da solo. Fino ad allora il fratello gli era sempre stato accanto, aiutandolo in ogni situazione. Ma ormai non era più un bambino, e doveva affrontare la vita da solo. Enedhil aveva capito e lo aveva lasciato partire, seppure a malincuore. “Addio” gli aveva detto baciandogli la fronte, e lui lo aveva abbracciato stretto, chiudendo gli occhi per un momento, come avesse voluto portarsi via il calore di quell’abbraccio, lungo il suo viaggio.

La cosa più difficile era stata salutare Failariel, alla quale non era in grado di spiegare i motivi della sua partenza. La piccola lo aveva guardato con gli occhi lucidi, ed il viso imbronciato. Aveva sofferto così tanto per la morte della madre, ed ora le si chiedeva di separarsi anche da uno dei fratelli. Lo aveva accompagnato fino al cancello del palazzo, ed era rimasta là, a guardarlo mentre si allontanava a cavallo. Era stata lei l’ultima immagine della sua casa. Prima di uscire dalla valle, si era guardato indietro un’ultima volta. Aveva guardato verso il suo palazzo e l’aveva vista, ancora in piedi accanto al cancello, l’abitino bianco mosso dal vento, i capelli raccolti in lunghe trecce. Immobile, come avesse voluto aspettarlo così per sempre.

 

 

Ormai era pomeriggio inoltrato quando Legolas aveva raggiunto i primi alberi del bosco d’oro; rallentò l’andatura fino quasi a fermarsi. Qualcosa si mosse lentamente tra i cespugli, era uno dei guardiani, perfettamente mimetizzato con le foglie attorno a lui. Lo riconobbe e gli fece cenno di passare.

Legolas si recava spesso in quel luogo. Thranduil e Celeborn erano amici ed alleati da sempre ed i loro eserciti avevano spesso dovuto combattere assieme contro gli stessi nemici. E tutt’ora si aiutavano nel difendere i confini.

Era stato così che tanti anni prima, aveva conosciuto Haldir, uno dei guerrieri assieme ai quali aveva trascorso mesi e mesi, pattugliando i confini comuni ai loro regni, infestati da orchi e altre creature maligne.

 

Aveva una bellezza particolare Haldir, selvaggia e misteriosa come il bosco di cui era guardiano. Ed altrettanto delicata, sensuale. Aveva gli occhi verde chiaro, trasparenti come l’acqua, e lunghi capelli biondo grigio, dai riflessi argentati. Gli era piaciuto subito, dal primo momento in cui lo aveva visto, in piedi vicino a re Celeborn, a dargli il benvenuto in una delle sue prime visite a Lothlorien. Si era inchinato a salutarlo, guardandolo con i suoi occhi chiari e freddi, nei quali non si riusciva a leggere nulla. Lo aveva trattato con gentilezza, i suoi modi erano piuttosto distaccati. Ma in sé, aveva qualcosa di accattivante. Lo aveva affascinato con il suo modo di fare, di essere. Il suo viso attento, mentre si muoveva tra le ombre grigio azzurre degli alberi, attento ad ogni minimo movimento tra le colline e le pianure lontane, osservando qualsiasi cosa si avvicinasse. Gli occhi quasi socchiusi, i bei lineamenti del viso tesi, il labbro morso per la concentrazione, le dita strette attorno all’impugnatura dell’arco.

C’erano stati giorni molto duri, prima che riuscissero a liberare anche la parte più esterna del bosco. Trascorrevano ore di guardia con una tensione quasi insopportabile, che li portava allo stremo. E poi scoppiavano improvvise battaglie, brevi e feroci che trascinavano con sé alcuni di loro. La fatica, il caldo del sole sulla pelle, frecce scoccate all’improvviso, le creature malvagie che infestavano i boschi, la tensione. La paura. Il dolore per i compagni persi. Giorni terribili che erano finalmente finiti. Per il momento. Aveva spesso temuto di non farcela, di non reggere alla tensione. Eppure ci era riuscito, e la vicinanza di Haldir lo aveva aiutato. Erano molto simili, per certi versi. Entrambi molto fragili sotto la maschera di spavalderia che portavano sul volto. Entrambi alla ricerca di qualcosa che sentivano mancare.

 

Una notte, tornando al palazzo, Haldir lo aveva portato nella sua stanza. Lo aveva guardato a lungo negli occhi, mentre gli accarezzava il viso. Aveva iniziato a sciogliergli lentamente i capelli, prima di spogliarlo, baciando ogni parte del corpo che scopriva.

Un brivido lo attraversò, mentre ricordava la sensazione delle sue labbra calde che inseguivano la stoffa che scivolava via.

Adorava sentirlo posare le labbra sulla sua pelle, e dischiuderle leggermente. Quel tocco dolce e delicato che percorreva leggero il suo corpo, seguito dalla scia dei morbidi capelli che gli ricadevano in avanti. Il calore del corpo steso sopra il suo. Il suo respiro, dolce ed affannato mentre si muoveva dentro di lui.

Le abitazioni di Lothlorien erano in gran parte architetture leggere, costruite quasi un tutt’uno con gli alberi, le pareti di legno, lo stesso colore grigio della corteccia. Anche la casa di Haldir era così. La sua camera era arredata in maniera sobria, e non era molto grande. Era luminosa, e fresca. Legolas l’aveva sempre considerata un rifugio dal resto del mondo, un angolo di quiete lontano da tutto, dove nascondersi dal male e dalla sofferenza, assieme a lui.

 

“Lo so. Non sono io quello che cerchi. Anche se a volte credo che mi piacerebbe esserlo”. Gli aveva detto una volta il guardiano, dopo una delle tante notti trascorse assieme. Era disteso accanto a lui, con un braccio attorno ai suoi fianchi, la fronte posata sulla sua.

“Non so cosa sto cercando” gli aveva risposto lui, leggermente confuso da quell’affermazione.

“Lo saprai quando lo avrai trovato. Ora resta con me” e gli si era stretto addosso.

Legolas aveva chiuso gli occhi, assaporando il calore del suo abbraccio, il profumo delle lenzuola di seta grezza che li ricoprivano, mentre le prime luci dell’alba entravano dalle finestre.

 

 

Ancora perso in questi ricordi, Legolas scese da cavallo, il sentiero si era fatto più stretto, mentre si arrampicava nel bosco. Avanzò camminando in salita per quasi un’ora, accompagnato dal canto sommesso del ruscello, che giocava tra i sassi delle sponde e i riflessi del sole.

 

Lo vide all’improvviso, quando ormai era a pochi passi da lui. Gli abiti azzurro e grigio come la corteccia degli alberi, i suoi occhi chiari come l’acqua del ruscello. Lo fissava tra i giochi di luci e di ombre disegnati sul volto dai raggi del sole che filtravano tra i rami, la schiena appoggiata al tronco di una quercia, le braccia conserte.

“Haldir” il suo nome gli affiorò sulle labbra senza che quasi se ne accorgesse.

“Bentornato” gli disse il guardiano, con la sua voce dolce dal tono un po’ spavaldo.

Lo guardò dritto negli occhi, ma con discrezione, come sempre. Non avrebbe mai letto qualcosa senza gli fosse chiaramente permesso. Legolas non gli aveva mai nascosto niente, e anche ora gli lasciò leggere il suo stato d’animo, il suo dolore, il suo smarrimento. Si strinse a lui nascondendo il volto tra i suoi capelli, lasciandosi accogliere dal calore delle sue braccia che lo circondavano. Chiuse gli occhi, sentendosi di nuovo al sicuro.

 

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Note

 

Ok, si sa che ci stiamo inventando di tutto… ma abbiamo anche storpiato alla grande qualche avvenimento tratto dal libro.

- In realtà Lady Celebrian viene rapita nel 2509, questa storia inizia nel 3018 (anno in cui comincia tutto il casino della compagnia dell’anello). Per motivi tecnici abbiamo spostato di circa 500 anni le vicende di Lady Celebrian e famiglia ^_^;;

- Nel 3025 Celeborn era andato in aiuto a Thranduil per difendersi dall’invasione, e dopo la guerra si erano divisi i territori liberati, non abbiamo idea se facessero davvero queste cose anche prima.. noi abbiamo deciso di sì. ^_-