.|. Angeli Maledetti .|.

Capitolo 3

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Un’altra inutile giornata di ricerche era terminata, Thranduil cavalcava in testa al gruppo che rientrava velocemente, seguito a poco dai suoi figli e gli altri guerrieri armati di archi, spade e lance, avvolti nei loro mantelli verde scuro. Correvano il più veloce possibile, cercando di uscire dal bosco prima che il sole scomparisse dietro alle montagne, lasciandoli al buio.

 

Giunti a casa, riportarono i cavalli nelle scuderie. Ad un tratto Legolas vide qualcosa che luccicava sullo zoccolo del cavallo, si accovacciò per guardare meglio di cosa si trattasse. Poche maglie di una sottile catenella erano rimaste impiantate sul lato dello zoccolo dell’animale. Uscendo dal bosco, aveva avuto la sensazione che il cavallo fosse inciampato su qualcosa, ma non aveva visto niente di strano. Le staccò con cura e le osservò: erano sottili ma resistenti, di fattura piuttosto rozza. Il padre e i due fratelli gli si avvicinarono, attirati dal suo viso costernato.

“Cos’è?” chiese Enedhil.

“Qualcosa che era rimasto impigliato nello zoccolo del mio cavallo. Poco prima di scendere per il pendio mi è sembrato di inciampare su qualcosa, forse è successo là”.

Thranduil ed Aldyion osservavano pensierosi quella strana catenella.

“È qualcosa fatto da loro” concluse Legolas con voce concitata “Dobbiamo tornare subito indietro, dobbiamo capire di cosa si tratta…”

“No, ormai è buio ed il bosco è troppo fitto” lo interruppe Thranduil, “non riusciremmo a trovare niente in questo modo. Anzi, rischieremmo di cadere in un’imboscata”.

“Andrò io da solo allora, voglio capire…”

“No, non andrai da nessuna parte”.

“Padre, non è la prima volta che faccio perlustrazioni notturne. Sono in grado…”

“No!” gridò il padre. La sua voce risuonò nelle scuderie, un ordine deciso.  E disperato.

“In questo stato non sei in grado di farlo” disse secco.

Il figlio rimase in silenzio, guardandolo con un’espressione indecifrabile, gli occhi sbarrati.

 

“Legolas, non è una mancanza di fiducia da parte mia.” aggiunse dopo qualche momento, con voce più pacata, posandogli le mani sulle spalle. “Solo… non voglio perdere anche te. Domani all’alba ripartiremo tutti assieme, torneremo in quel luogo e vedremo di cosa si tratta”.

Il giovane annuì, abbassando lo sguardo.

 

“Andiamo a riposare per qualche ora” aggiunse Thranduil e si avviò verso il palazzo.

Mentre saliva le scale assieme ad Aldyion, vide qualcosa muoversi all’ultimo piano. Failariel li guardava dall’alto, attraverso la balaustra dell’ampio ballatoio. Li aveva sentiti tornare, e come sempre, era corsa a vedere se con loro questa volta c’era anche la madre. Indossava una candida veste da notte lunga fino ai piedi, e i capelli dorati erano raccolti in due grosse trecce chiuse da fiocchi bianchi. Li osservava tristemente.

Aveva cercato di essere brava, in quei giorni. Di fare da sola tutto quello che poteva, senza pesare sugli altri, in modo che potessero dedicare più tempo alle ricerche, e riportare presto a casa la mamma. E così tutti avevano finito per trascurarla quasi completamente, lasciandola sempre sola.

“Sei diventata brava a farti le trecce” le disse Aldyion accarezzandole i lunghi capelli. Lei sorrise, felice per quell’attenzione. Il fratello la prese per mano e la accompagnò nella sua camera. Thranduil rimase a guardarli, mentre si allontanavano; quella visione gli riempì il cuore di commozione, e di malinconia.

 

 

 

Enedhil accompagnò Legolas nella sua stanza. Gli stringeva la mano, la sentiva tremare leggermente.

“Vuoi che rimanga un po’ con te?” gli chiese.

Il fratello minore annuì. Si tolsero il mantello e gli stivali, e si stesero entrambi sul letto, rimanendo vestiti. Dopo qualche ora di riposo sarebbero ripartiti di nuovo.

Legolas si girò su un fianco, guardando verso di lui.

“Mi sento impazzire a rimanere qui fino a domattina” disse sottovoce.

“Anch’io, ma nostro padre ha ragione. Questa notte non riusciremmo a scoprire niente, sarebbe un rischio inutile”.

 

“Non… si fida più di me” Legolas aveva parlato quasi in un sussurro. La voce spezzata dalla frustrazione.

“No, non è vero. Non devi dire una cosa simile. È solo preoccupato per te, e per noi”.

Gli accarezzò i capelli. Vide qualcosa brillargli sul petto, tra i lacci aperti della tunica azzurra.

“Lo porti ancora…” disse.

Il fratello annuì, accennando un sorriso.

 

Era un pendente della madre. Glielo aveva dato lei, un giorno, tanti anni prima.

 

 

Legolas era giovanissimo al tempo, era stato inviato dal padre assieme ad un gruppo di guerrieri sulle tracce di due esploratori che non erano tornati da una ricognizione. La sua missione non era difficile, ma vi era stato un imprevisto. La zona era vicina al bosco proibito, i cui alberi erano divenuti neri per la presenza delle creature del male, ed uno dei terribili ragni giganti che vi si erano annidati, era uscito. Se lo era trovato davanti all’improvviso. Era spuntato da dietro le rocce, enorme, minaccioso, orribile. Si muoveva sulle sue grosse zampe spigolose, osservandolo con le sue centinaia di occhi neri ammucchiati sul viso. Il giovane era rimasto quasi pietrificato da un misto di terrore e ribrezzo. Poi si era ripreso, aveva impugnato il suo arco ed aveva tirato una freccia, colpendolo in mezzo agli occhi, ed in risposta l’animale gli era saltato addosso, spalancando le sue fauci orrende.

Si era buttato per terra, o forse era caduto, schivandolo per pura fortuna, e solo per la stessa fortuna era riuscito a colpirlo, piantandogli i suoi lunghi pugnali nel ventre, l’unico punto vulnerabile, mentre il suo pungiglione si fermava a pochi centimetri da lui. Il ragno si era irrigidito per un attimo, poi era indietreggiato cadendo a terra, contorcendosi tra le sue lunghe zampe, emettendo un suono stridulo ed assordante. Legolas era sgattaiolato via, inciampando e cadendo ai piedi di un albero, mentre i suoi compagni, da lontano, finivano il mostro con una raffica di frecce.

“Va tutto bene, sto bene” li aveva rassicurati, cercando di nascondere il suo terrore. Aveva appena visto la morte in faccia, la più orribile che potesse immaginare, ma cercava di dimostrarsi forte, voleva essere all’altezza dell’incarico che gli era stato affidato.

Poco vicino, in una grotta, avevano trovato i resti dei due elfi scomparsi, divorati dal ragno.

 

Quando era tornato a casa, si era presentato davanti al padre, che era già stato informato dell’accaduto. Aveva cercato di farsi vedere forte, cercando di rassicurarlo sul suo stato d’animo. Ma lui sapeva leggere nei suoi occhi, ed aveva visto il suo spavento

“Non c’è niente di male nell’aver paura, figlio mio” gli aveva detto. “Quella che ti è capitata non è una cosa da poco”.

“Lo so, ma le paure vanno affrontate, sei stato tu ad insegnarmelo” aveva risposto lui. “Non credo ci siano altri ragni nella zona, ma se fosse così sarebbe meglio saperlo quanto prima. Domani voglio continuare la perlustrazione”.

 

Era fatto così, Legolas. Odiava mostrare quelle che riteneva essere le sue debolezze.  Solo a volte, lo faceva con Enedhil. Forse perché lo sentiva più vicino degli altri; avevano pochi anni di differenza ed erano cresciuti assieme, dividendo ogni cosa.

Quando si era trovato solo con lui, più tardi, si era lasciato andare, raccontandogli l’accaduto, la sua paura. E aveva pianto, cercando il calore delle sue braccia. Anche Enedhil aveva pianto, rendendosi conto che aveva rischiato davvero di perderlo. Quella notte avevano dormito assieme, abbracciati, per la prima volta dopo tanto tempo, come facevano a volte quando Legolas era bambino, e aveva paura dei temporali.

 

“Non devi andare se non te la senti” gli aveva detto la madre il mattino seguente, spaventata all’idea di poter perdere uno dei suoi figli.

“Sono un guerriero, il mio compito è proteggervi” aveva risposto lui, con un sorriso apparentemente sereno. Ma anche lei sapeva leggere nel suo cuore e vedere ciò che lui non voleva mostrare. Era stato allora che gli aveva allacciato al collo il suo pendente, come portafortuna. “Così ti sarò sempre vicino” gli aveva detto baciandogli la fronte.

Da quel giorno Legolas non se ne era mai separato.

 

 

 

Enedhil prese il pendente tra le dita, accarezzandolo, perso nei ricordi di quei giorni così lontani. Guardò il fratello. Il suo respiro era diventato regolare: si era addormentato, steso su un fianco, i lunghi capelli biondi ancora intrecciati. Gli accarezzò una guancia con la punta delle dita, attento a non svegliarlo. Rimase a contemplare il suo volto, disegnato dalla debole luce del cielo notturno che entrava dal balcone. La sua delicata bellezza, le ciglia nere lunghissime, le labbra sottili leggermente dischiuse. Il suo caro fratello, che amava più di ogni altra persona al mondo.

Legolas non si era mai innamorato, di nessuno. Ma quando un giorno aveva scoperto il piacere, lo aveva cercato tra le braccia di un altro, un elfo di Lothlorien, uno dei guardiani del Bosco dalle Foglie D’oro. Non glielo aveva mai rivelato apertamente, ma gli aveva lasciato intendere qualcosa, quasi cercando una confidenza anche su ciò che voleva tenere segreto. Enedhil aveva capito, e ne aveva sofferto. L’aveva scoperto per gelosia, di quale natura fosse il suo amore, e si era reso conto che non sarebbe mai stato ricambiato. Legolas lo amava immensamente, glielo ripeteva ogni giorno con il suo sguardo dolce. Ma lo amava solo come un fratello poteva fare, e pur con grande dolore, Enedhil lo aveva accettato. Così come aveva deciso di non rivelargli il suo stato d’animo, temendo di rovinare il loro rapporto.

 

Si avvicinò lentamente al suo viso, sfiorandogli con le labbra una guancia, vicino all’angolo della bocca, poi si addormentò accanto a lui.

  

***

 

Ormai era pomeriggio inoltrato, gli elfi stavano perdendo ogni speranza. Erano tornati nel luogo dove Legolas aveva sentito inciampare il cavallo, avevano ripercorso tutti i sentieri decine di volte, a cavallo e a piedi, avevano guardato dietro ad ogni albero, ogni pietra, ogni cespuglio.

 

Stavano per rinunciare quando Legolas notò qualcosa che luccicava nell’erba. Si avvicinò, era una catenella come quella che aveva trovato la sera precedente, spuntava da una strana fessura nel terreno. All’improvviso vide la grande botola, il suo profilo si delineò chiaramente davanti a lui, tra l’erba. Pareva quasi impossibile non averla vista fino ad ora. Gli altri scesero dai cavalli e si avvicinarono prudentemente. Era una grande lastra, probabilmente fatta solo con assi di legno, sopra vi era sistemato uno strato di terra sufficiente a far crescere l’erba; anche osservando attentamente non si notava la differenza. La botola si apriva dall’esterno usando delle sottili catene come maniglie, dopo l’uso venivano nascoste sotto le assi di legno, ma questa volta un pezzettino era scivolato fuori.

Thranduil, aiutato da Aldyion aprì lentamente la botola, mentre i due figli minori e gli altri guerrieri stavano pronti, con l’arco teso, le frecce puntate verso l’apertura.

Nulla si mosse. Non un rumore. Probabilmente l’entrata non era sorvegliata. Gli elfi si guardarono negli occhi, era inutile parlare, entrare in quella botola era l’unico modo per sapere dove portasse.

Il padre scese per primo, seguito dagli altri. Due guerrieri vennero lasciati fuori, di guardia.

Si addentrarono per lo stretto cunicolo, che scendeva con una leggera pendenza inoltrandosi lentamente nel ventre della terra.

Era troppo buio, anche per la vista acuta degli elfi, per avanzare furono costretti ad accendere delle torce. Il tunnel procedeva leggermente in discesa, senza diramazioni. Dopo una decina di minuti, si aprì in una grande sala sotterranea illuminata da torce appese ai muri, nella quale convergevano altri cunicoli uguali. Alcuni risalivano, altri scendevano ancora più in profondità. L’aria era pesante, quasi irrespirabile, carica di umidità e di sofferenza. Lontano si udivano strani rumori che gli elfi non riuscivano a riconoscere.

 

Dei passi si avvicinarono veloci. Gli elfi si nascosero nel tunnel dal quale erano venuti. Da un cunicolo laterale sbucarono degli orchetti che si dirigevano verso di loro. Non fecero a tempo ad accorgersi della loro presenza che vennero trafitti da una pioggia di frecce. Gli elfi si avventurarono per quel cunicolo. Avanzavano lentamente, aiutati dalla luce delle torce, cercando di capire la sistemazione dei locali di quel luogo. Dopo una piccola discussione, si trovarono d’accordo nella strada da seguire. I cunicoli si fecero più stretti, e finalmente trovarono le celle dei prigionieri.

Lo sapevano. Sapevano il motivo per il quale gli orchetti catturavano elfi. Li tenevano rinchiusi sotto terra, e li torturavano per puro divertimento. Dopo anni di tormenti e mutilazioni alcuni di loro perdevano completamente la ragione, la memoria di quello che erano stati, e divenivano esseri violenti, in grado solo di odiare, nuovi strumenti del male. Altri, la maggior parte, morivano sotto le torture e spesso i loro corpi venivano lasciati assieme agli altri prigionieri.

 

Camminando nel corridoio, guardavano dentro alle celle. Quelli che vedevano erano esseri deformi, mutilati, senza forza, spesso senza vita. I loro lineamenti non erano più riconoscibili, erano davvero stati elfi un tempo? Thranduil si voltò di scatto, rimase un attimo immobile, tendendo le orecchie, come per ascoltare qualcosa. Poi si mosse con decisione imboccando un cunicolo laterale, più stretto degli altri. Lo videro sfondare con una spallata la porta di una cella ed entrare. L’aveva trovata.

Legolas si affacciò all’entrata della cella, gli occhi pieni di speranza. Sua madre era là, distesa su un rozzo giaciglio, i polsi legati, i lunghi capelli biondo argentato sparsi sugli abiti strappati. Sentì gli occhi riempirsi di lacrime di rabbia e frustrazione. Il re elfo la strinse tra le braccia, chiamandola con un filo di voce. Era ancora viva.

 

Dei passi affrettati si stavano avvicinando. Qualcuno, richiamato dal rumore, stava arrivando. Si trovarono subito addosso un gruppo di orchetti, ma riuscirono a sconfiggerli quasi immediatamente. Thranduil avvolse la sua sposa nel suo mantello e la prese in braccio, iniziando a correre verso l’uscita, i figli e gli altri guerrieri lo seguirono.

Un altro gruppo di orchetti spuntò in fondo ad uno dei corridoi, ma gli elfi erano più veloci nella corsa e li distanziarono subito, correvano disperatamente, seguendo a ritroso gli intricati e bui corridoi, verso l’uscita, verso la luce. I richiami degli orchetti echeggiavano nei sotterranei, rimbalzando sulle pareti, erano urla stridule e battiti di tamburi, avvisando i compagni della presenza degli intrusi. Quando sbucarono nella grande sala, li trovarono pronti ad affrontarli. Si scagliarono su di loro senza pietà, uccidendoli non appena si avvicinavano, mozzando teste e braccia, gridando dalla rabbia e dalla disperazione. Finalmente giunsero all’uscita, la luce del tardo pomeriggio li investì in pieno, abbagliandoli. Gli orchi non li seguirono all’esterno.

 

Gli elfi salirono sui loro cavalli e partirono al galoppo, cercando di allontanarsi il più possibile da quel luogo maledetto. Thranduil stringeva tra le braccia la sua sposa, spronando il cavallo a correre più veloce. Sentiva la sua vita scivolare via piano piano, mentre lei si abbandonava tra le sue braccia.

 

 

 

Erano arrivati a casa, ormai. Thranduil rallentò l’andatura del cavallo, e la guardò. Stava rannicchiata contro il suo petto, con gli occhi chiusi, lo abbracciava, ma non aveva nelle braccia la forza per stringerlo. La vide aprire lentamente gli occhi, cercando i suoi. Si sentì gelare, leggendo il suo stato d’animo, la paura, il tormento che aveva provato nella sua prigionia. Ormai la sua vita era giunta alla fine. La corsa verso casa, sperando nell’aiuto dei guaritori, era stata inutile. Lesse il suo ultimo desiderio, e la portò nel giardino del palazzo. Sceso da cavallo, la fece sedere nel roseto, in mezzo ai fiori candidi che più amava, tenendola tra le braccia, per sostenerla. Si sentiva tremare, non poteva sopportare l’idea di perderla. Lei si abbandonò, con una tempia appoggiata alla sua spalla, poi con un grande sforzo si volse verso i tre figli che si erano avvicinati, e inginocchiati vicino a lei. E sorrise.

 

Failariel arrivò in quel momento. Li stava aspettando sul balcone della sua stanza, li aveva visti arrivare da lontano. Appena li aveva visti fermarsi, era corsa da loro. Per un momento aveva sperato che la madre fosse tornata sana e salva. Aveva corso più veloce che poteva, sollevando con le mani la lunga gonna del suo vestito. Rallentò a poca distanza da loro, a percorse lentamente gli ultimi metri e si fermò in piedi, accanto ai fratelli. La madre si voltò verso di lei e le tese una mano. La bambina si sedette sull’erba, stringendosi a lei, senza riuscire a trattenere i singhiozzi. La sentiva tremare, mentre con una mano le accarezzava affettuosamente i capelli.

“Sapevo che sareste venuti a prendermi” disse. Parlava a fatica, le parole uscivano dalla sua bocca come un soffio di vento. “Non sapete quanto mi è di conforto potervi riabbracciare. Grazie di avermi permesso di vedere ancora una volta il sole, di sentire il profumo dei miei fiori”.

“Non parlare così. Non lasciarci” singhiozzò Failariel, stringendosi forte a lei, come se così avesse potuto impedirle di andarsene.

“La mia vita è giunta alla fine. Ma sarò sempre con voi” e con l’ultima forza che le era rimasta le baciò la fronte. Sorrise ai suoi figli, e poi al suo sposo. Thranduil le accarezzò una guancia, guardandola nei suoi occhi blu, nel suo sguardo leggeva il dolore di doverli lasciare, ma anche il sollievo di poter morire con loro, lontana dall’orrore della prigionia. Quel sorriso entrò dentro di lui, annidandosi nel suo cuore, dove sarebbe rimasto per l’eternità.

 

L’elfa chinò leggermente la testa.

“Vi voglio bene” disse in un sussurro. E poi chiuse gli occhi per sempre.