.|. Angeli Maledetti .|.

Capitolo 2

~

Il ramingo camminava nel bosco dalle foglie d’oro, avvolto dal silenzio e dal profumo della corteccia degli alberi. Le foglie secche scricchiolavano quasi impercettibilmente sotto i suoi passi leggeri. Si strinse leggermente nel mantello, per ripararsi dal freddo pungente del mattino. Con una mano scostò le ciocche di capelli castano chiaro che gli ricadevano disordinate sul viso; era un bell’uomo, dall’aspetto giovanile, a vederlo non dimostrava più di quarant’anni. Nessuno avrebbe immaginato che in realtà ne aveva più di ottanta. Era un Dùnedain, un discendente della stirpe di Nùmenor, beneficiata di una lunga vita.

 

Era cresciuto ad Imladris, nota agli uomini come Granburrone, allevato da Elrond al quale era stato affidato ancora in fasce. Aveva sempre saputo di non essere elfo, e di non essere davvero suo figlio, ma era cresciuto serenamente, senza che gli mancasse nulla. Elrond lo aveva chiamato Estel, che nella sua lingua significava “speranza”, ed assieme a Celebrian ed i gemelli, gli aveva dato l’affetto di una vera famiglia. Poi un giorno gli aveva rivelato la sua vera identità: il suo nome era Aragorn, figlio di Arathorn II, erede al trono di Gondor. Era stata sua madre a portarlo dagli elfi, per nasconderlo, temendo per la sua vita dopo l’improvvisa morte del padre.

Scoprire la verità era stato un colpo molto duro per lui, aveva vent’anni al tempo. L’unico erede al trono di Gondor. Questo titolo lo aveva riempito di orgoglio, ma si era rivelato anche un fardello pesante da portare. Non era sicuro di essere in grado di svolgere il suo compito.

 

Era stato allora che aveva incontrato Arwen per la prima volta. Una dama di incredibile bellezza, la figlia minore di Elrond. Amava vivere a Lothlorien, dimora di Galadriel e Celeborn, genitori di sua madre, era appena tornata ad Imladris dopo anni di assenza. Si era innamorato di lei a prima vista.

Ma lei era una mezz’elfa, e lui un semplice mortale. La loro unione pareva impossibile, e non soltanto perché Elrond era contrario. Anche per questo motivo Aragorn aveva lasciato Granburrone, ed aveva trascorso lunghi anni vagando ramingo per la Terra di Mezzo, cercando di fare chiarezza nel suo cuore. Diverse volte era tornato ad Imladris e a Lothlorien, e spesso l’aveva incontrata. E sempre il suo amore gli aveva recato tormento.

 

 

Si strinse ancora nel mantello, continuando ad avanzare in mezzo agli alberi. Un leggero fruscio attirò la sua attenzione. Si voltò di scatto. Arwen era là, in piedi a pochi metri da lui. Aprì la bocca, ma non riuscì ad emettere alcun suono, sorpreso com’era, e ammaliato da quell’improvvisa visione.

“Arwen…” riuscì finalmente a dire “Sei davvero tu? Non è un sogno?”

L’elfa sorrise, e mosse qualche passo verso di lui.

“Sono io, non stai sognando. Sono arrivata poche ore fa da Imladris, Elladan mi ha accompagnato”.

Le prese le mani e le strinse tra le sue. E come sempre il suo cuore si perse in un tumulto di sentimenti contrastanti: l’amore che lo spingeva a desiderarla, e la ragione che gli chiedeva di allontanarsi da lei.

“È trascorso così tanto tempo dall’ultima volta che ci siamo incontrati” disse lei. Parlava con voce bassa e calma, quasi in un sussurro. “Mi sei mancato moltissimo.”

“Anche tu” rispose lui.

Arwen gli lesse negli occhi il suo tormento.

“Stai ancora pensando alla diversità delle nostre razze, vero?”

Aragorn annuì lentamente.

“Io sono mezz’elfa, posso scegliere se seguire il destino degli elfi o degli uomini. E preferisco vivere una sola vita con te, come una donna mortale, che affrontare l’eternità da sola.”

Aragorn sentì il cuore traboccare di gioia, nell’udire quelle parole uscire dalla bocca della sua amata. Ma allo stesso tempo, non se la sentiva di accettare un sacrificio del genere, gli pareva troppo grande, anche in nome dell’amore.

“Al posto mio, non faresti lo stesso?” chiese lei.

“Si. Lo farei” rispose lui poco dopo, abbassando lo sguardo. Ci aveva pensato diverse volte. Se si fosse trovato al suo posto, avrebbe fatto la stessa scelta, per non dover vivere in eterno senza di lei. Sospirò. Avrebbe fatto la sua stessa scelta, ma questo non significava che fosse quella giusta.

 

“Ripartirai di nuovo?” chiese lei posando la fronte sulla sua spalla.

“Si, devo. Gandalf mi aspetta, abbiamo una questione da risolvere”.

“Il male si sta muovendo verso di noi. E mi fa paura” sussurrò l’elfa stringendosi a lui “Ma il giorno in cui riprenderai in mano le redini del tuo regno non è lontano. Allora guiderai il tuo ed il mio popolo e lo sconfiggerai, lo sento”.

Il ramingo sospirò e ricambiò il suo abbraccio, nascondendo il viso tra i suoi capelli. Sarebbe stato davvero in grado di affrontare il suo destino?

 

***

 

Elladan uscì dalla vasca e si infilò la sua vestaglia da camera. Un bagno caldo nell’acqua profumata dai fiori sembrava avergli tolto del tutto la stanchezza del viaggio. Entrò nella sua stanza semibuia, illuminata soltanto dai raggi di luna che entravano dalla finestra. Da sempre, quando veniva in visita a Lothlorien, la sua stanza era stata quella. Sulle mensole c’erano ancora gli animaletti che Celeborn aveva intagliato per lui nel legno, quando era bambino.

Uscì sul balcone, ammirando il manto stellato che lo sovrastava. La notte era limpidissima. Quando rientrò nella stanza, si accorse che la spada che aveva appoggiato al letto era caduta sul pavimento, si inginocchiò e la prese tra le mani. La estrasse dal fodero, la lama lucidissima gli restituì l’immagine dei suoi occhi grigi. Ogni volta che vedeva il suo volto riflesso da qualche parte, non poteva fare a meno di pensare al fratello, apparentemente così uguale a lui, eppure così diverso. Rinfoderò la spada e la riappoggiò al letto.

 

Rimase a fissare per qualche attimo il pavimento di legno della stanza, chiedendosi cosa stesse facendo Elrohir in quel momento. Forse stava già dormendo. O forse era ancora sveglio, e guardava le stelle come facevano spesso assieme. Gli mancava così tanto.

Strinse le braccia attorno a sé, pensando al bacio che si erano scambiati sulla porta della sua stanza, qualche sera prima. La pressione delle labbra sulle sue, il suo sapore, il suo abbandonarsi e poi tirarsi indietro. Chiuse gli occhi, cercando di visualizzare la sua immagine. I suoi occhi tristi, quando lo aveva salutato alla sua partenza, il mattino successivo. Cosa stava facendo adesso? Forse anche a lui mancava…

 

Un’immagine si formò nella sua mente, dapprima sfuocata, poi sempre più nitida, fino a diventare reale.

 

Lo vide, mentre tornava nella sua camera, dopo aver trascorso un po’ di tempo alla fonte termale, rilassandosi nelle acque tiepide assieme agli altri guerrieri. I capelli ancora umidi, la pelle morbida dall’acqua del bagno. Rimaneva a lungo a guardare fuori dal balcone, lo sguardo perso tra le stelle. I lineamenti del viso uguali ai suoi, l’espressione infinitamente più dolce. Poi rientrava nella stanza, lasciava cadere le vesti sul pavimento accanto al letto e si infilava tra le lenzuola. Poteva sentire la sensazione piacevole della stoffa fresca e liscia sul suo corpo, come se si fosse steso al suo fianco, tra le stesse lenzuola.

 

Strinse le dita della mano, vagamente conscio di toccare la stoffa della vestaglia.

 

Ora aveva chiuso gli occhi, steso supino. Vide le sue mani muoversi sul petto, sfiorando la pelle liscia, scendendo lentamente fino al ventre, poi risalire fino al collo, incrociandosi tra loro. Strinse le labbra, inumidendole con la lingua. Poi le mani scesero di nuovo fino al ventre, e poi sempre più in basso, mentre dalle sue labbra, come in un sussurro, usciva il suo nome.

 

Elladan spalancò improvvisamente gli occhi, sorpreso ed allo stesso tempo eccitato da quella visione. Era stata la sua immaginazione? Oppure quello che aveva visto stava succedendo davvero? A volte, quando pensavano alle stesse cose, le loro menti da lontano si incontravano, si univano, trasmettendo all’uno le sensazioni dell’altro. Era questo che stava accadendo?

Richiuse gli occhi, cercando disperatamente di riafferrare quell’immagine. Lo vide di nuovo. Un brivido di eccitazione lo attraversò. Aprì la vestaglia, lasciandola cadere a terra, scoprendo il suo corpo nudo.

 

Aveva sollevato il lenzuolo, lasciandolo cadere dal letto, mostrandosi alla luna affacciata alla finestra, lasciando che i raggi azzurrati accarezzassero dolcemente il suo corpo. La guardò per un momento fissando i suoi grandi occhi candidi, quasi con aria di sfida. Poi richiuse gli occhi, cominciò ad accarezzarsi lentamente, sotto il suo sguardo geloso.

 

Avrebbe voluto toccarlo, posare le mani sul suo corpo candido, dargli quel piacere che stava cercando da solo. Lasciò scivolare le mani lungo il petto, la pelle liscia scorreva sotto le sue dita. Si chiese se anche quella del fratello fosse così. Quante volte gli aveva involontariamente sfiorato il petto o la schiena, quando erano alla fonte. Avrebbe voluto poterli toccare, baciare, mordere. 

 

Elrohir era là, come fosse davanti a lui. Steso sul letto, che si toccava lentamente, pensando a lui, sussurrando il suo nome. Le guance leggermente arrossate, gli occhi chiusi, i lunghi capelli scuri sparsi sulle lenzuola. Poteva sentire il suo respiro come fosse stato accanto a lui.

 

Quella visione lo fece avvampare, si sentì investito da un’ondata di calore, che partiva dal basso ventre e si impadroniva di tutto il suo corpo, della sua anima. Lasciò scendere le mani, raggiungendo la pelle liscia dell’inguine e delle cosce, strinse il pugno attorno al suo sesso muovendolo prima lentamente, poi con più vigore. Si morse le labbra, assaporando le sensazioni di piacere che cominciavano a farlo tremare; avrebbe voluto poterle dividere con lui. Quel desiderio rimase a bruciargli dentro, come qualcosa di incompiuto, e necessario.

Chinò leggermente la testa in avanti. I lunghissimi capelli castani scivolarono sul petto come cercassero di nasconderlo alla luce della luna. Si appoggiò al letto con l’altra mano, la spada cadde verso di lui, battendo contro la sua spalla. La guardò con lo sguardo confuso, poi senza quasi rendersene conto passò la lingua sugli intarsi dell’elsa.

La sentì cadere a terra, il rumore metallico contro il pavimento di legno, ma era qualcosa di così lontano, adesso.

 

Ora esisteva solo lui, disteso sul suo letto. Il suo respiro affannato.

 

Aumentò l’intensità dei movimenti della sua mano, trattenendo i gemiti di piacere; stava raggiungendo velocemente il limite.

 

Anche Elrohir muoveva la mano più velocemente, ora. Per un attimo spalancò gli occhi, come sorpreso dall’intensità dei suoi stessi movimenti. Si lasciò andare, tra le ondate di piacere che lo investivano quasi violentemente, soffocando a stento i gemiti, inarcando la schiena, mentre con una mano stringeva il lenzuolo candido, accanto a lui.

 

Raggiunse il culmine del piacere gettando la testa indietro, di scatto, i lunghi capelli ricaddero sulla schiena. Strinse i denti per soffocare un grido di piacere che saliva prepotente dalla gola, gli occhi chiusi. Si lasciò cadere addosso al letto, ansimante.

 

Quando il respiro si fu un po’ calmato, aprì gli occhi. Lo aveva visto, aveva sentito il suo respiro affannato. Aveva percepito le sue sensazioni. Ma era davvero Elrohir? Forse era stata solo un’illusione, frutto della sua fantasia, dei suoi desideri troppo a lungo repressi. Si alzò da terra barcollando leggermente e si stese sul letto, voltato su un fianco. La stanchezza dei giorni di viaggio si stava facendo di nuovo sentire.

Un debole soffio di vento sulla pelle leggermente sudata lo fece rabbrividire, il fuoco dell'estasi aveva lasciato posto al freddo della solitudine. A quel senso di vuoto che provava sempre più spesso, ogni volta che si svegliava nel cuore della notte, eccitato, e desiderava averlo accanto, sentire il suo profumo, il suo sapore, il calore della sua pelle. Farlo suo, e fare l’amore con lui fino al mattino. Sospirò. Chiuse gli occhi e si abbandonò lentamente al sonno.

 

***

 

Elrohir si girò su un fianco, raggomitolandosi su se stesso, tremante, il corpo ancora scosso dagli ultimi fremiti dell’orgasmo. Il respiro si era calmato, ma il suo corpo non smetteva di tremare, la sua mente era ancora confusa. Per un momento gli era sembrato che la mano che si muoveva su di lui, non fosse la sua. Aveva qualcosa di diverso. Istintivamente aveva pensato a lui, a suo fratello. Lo aveva fatto così intensamente che gli era parso anche di vederlo, inginocchiato accanto al letto nella sua stanza a Lothlorien. Fantasie? No. Poteva essere accaduto realmente, il potere della loro telepatia li aveva sorpresi già in altre situazioni. Potevano essersi incontrati davvero, nei loro pensieri. In una situazione diversa sarebbe stata una cosa bellissima, un altro aspetto significativo del loro legame così forte ed unico. Ma ora questo dubbio andava a sommarsi a tutte le sue insicurezze, aumentando il suo tormento. Aveva pensato a lui, aveva desiderato che fosse lui a toccarlo, e a quel pensiero si era lasciato andare, completamente.

E ora avrebbe desiderato più che mai che fosse accanto a lui, e lo stringesse tra le braccia, per rassicurarlo che quello che provavano l’uno per l’altro non fosse sbagliato.

 

Guardò verso la finestra, incontrando gli occhi bianchi della luna che lo guardava. Sembrava che lo osservasse, scrutando nella sua anima, come fosse in grado di leggere il suo tumulto interiore, i sentimenti che nascondeva nel cuore, forse anche a se stesso. Distolse lo sguardo da lei, infastidito.

Si alzò, si rivestì e scese in giardino per passeggiare, cercando di fare un po’ di ordine nei suoi pensieri.

 

Uscito dal palazzo si guardò intorno, non si vedeva nessuno. Si avvicinò alla fontana e si sedette sul bordo, immergendo una delle mani nell’acqua. Era fredda, ma piacevole, e sulla sua superficie si rifletteva la luce fioca delle stelle. Ad un tratto sentì un rumore alle sue spalle, vide Glorfindel che si avvicinava.

“Sei tornato adesso?” gli chiese.

“Si. Avevo visto delle strane tracce, appena fuori dal bosco ed ho perso tempo a seguirle. Ma non ho trovato niente di insolito” rispose il biondo cavaliere.

“Capisco”.

Elrohir rimase qualche momento in silenzio, fissando il terreno davanti ai suoi piedi. Poi continuò.

“Volevo ringraziarti per non aver detto a nostro padre quello che hai visto l’altro giorno, quando ci hai … sorpresi nel bosco”.

“Non mi pareva il caso” sorrise Glorfindel.

Il giovane ricambiò mestamente il sorriso.

“Credo che la cosa lo avrebbe profondamente deluso. Ha molta fiducia in noi, se sapesse che ci siamo lasciati cogliere di sorpresa in quel modo…” scosse la testa, senza finire la frase.

“E poi…” continuò dopo un sospiro “… forse anche il resto non gli farebbe piacere”.

Rimase qualche momento in silenzio, contemplando la superficie dell’acqua.

“È… un amore proibito, il nostro?” chiese poco dopo.

Glorfindel gli posò una mano sulla spalla.

“Il matrimonio non è consentito tra parenti così stretti, e nemmeno tra due uomini” rispose “Ma per come la vedo io, amare non può essere considerato un peccato. Mai”.

Elrohir annuì lentamente, e continuò a fissare l’acqua davanti a sé.